In difesa della Disco Music

 

Paradise Garage

Una serata al Paradise Garage, storico tempio della House Music (quando ancora non si chiamava così) – foto di Bill Bernstein

Richard Dyer è un critico inglese che si è sempre occupato del rapporto tra industria di intrattenimento e razza, genere e sessualità. Militante gay e socialista, pubblica questo articolo sulla rivista londinese Gay Left nel 1979, lo stesso anno in cui, sull’altra sponda dell’Atlantico, il dj Steve Dahl inventa la Disco Demolition Night, invitando la gente a bruciare pubblicamente i vinili di disco music. Si tratta di un momento storico particolare: mentre da un lato il rock si riscopre ringiovanito dall’attitudine punk – specie quello statunitense – dall’altra parte gli anni ‘70 rappresentano il culmine della cultura artistica afroamericana, specialmente in ambito musicale. La disco, nata come spesso accade nell’incontro tra la sperimentazione “alta” e la creatività dei margini, entra prepotentemente nell’immaginario collettivo, anche grazie a La febbre del sabato sera – film che, tuttavia, è emblematico dell’appropriazione bianca ed eterosessuale della disco (questo è il tema di un altro saggio, Disco and the queering of the dancefloor, che magari tradurrò in futuro).

Amanti del rock, del punk e del country si ritrovano nella Disco Demolition Night per sfogare il proprio astio verso questa cultura così insopportabilmente diversa da loro. Alcuni dei partecipanti diranno che non c’era alcun intento odio razziale o eterosessista, ma è difficile non scorgere in questo pubblico linciaggio una furia quantomeno normalizzatrice. L’odio verso la Disco non si discosta molto dai pregiudizi intorno al jazz e, in generale, alla musica di matrice africana, nella quale la preminenza del ritmo viene collegata alla fisicità erotica tanto odiata dalla cultura bianca.

In questo saggio Dyer parte dalla propria posizione personale di amante della musica da ballare a discapito di quella considerata intellettuale. Nella sua riflessione Dyer trasforma questo “disagio” in un discorso politico, nel quale affronta la questione (ancora oggi molto in voga) della musica “commerciale” e “stupida”, rivendicandone poi invece gli aspetti positivi e potenzialmente ribelli.

IN DEFENCE OF DISCO

di Richard Dyer

(articolo originale pubblicato su Gay Left n°8 – 1979 – testo originale su History is made at night – traduzione mia)

Per tutta la vita ho ascoltato la musica sbagliata. Elvis e il rock’n’roll non mi sono mai piaciuti, preferivo Rosemary Clooney. Da quando sono diventato socialista, il prestigio che il rock e il folk avevano a sinistra mi mettevan a disagio. Come potevo mettere i dischi di Petula Clark di fronte alle canzoni dei minatori del Nord Est e ai Rolling Stones? Mi sono rilassato un po’ quando ho iniziato a vedere la musica da spettacolo come una parte integrante della cultura gay che, al di là dei suoi limiti, era una cultura da difendere. E pensavo di aver trovato la strada giusta quando sono passato alla Motown, la dolce musica soul, la disco. Finalmente dei grandi successi che mi piacevano! Ma il prestigio del folk e del rock, ora anche del punk e del reggae (un po’ paternalistico secondo me), resta intoccabile. Il problema non è solo che le persone con cui condivido i miei ideali non apprezzano la disco; è che fanno capire molto chiaramente che apprezzarla sia politicamente inaccettabile. È contro questo atteggiamento che voglio difendere la disco (che altrimenti, ovviamente, non avrebbe bisogno di nessuna difesa).

Parlerò soprattutto della disco, ma ci sono due premesse che vorrei fare. La prima è che la disco è più di una mero genere musicale, sebbene di certo la musica ne sia al centro. La disco è anche un modo di ballare, locali, moda, cinema – in una parola, una certa sensibilità, che si vede nella musica, nei locali, e così via, è storicamente e culturalmente specifica, economicamente, tecnologicamente, ideologicamente, ed esteticamente determinata – e merita un approfondimento. Secondo: in quanto sensibilità musicale mi sembra che comprenda molto più di quello che consideriamo strettamente disco music, includendo molto soul, Tamla Motown, e anche gli ultimi lavori di artisti popolari e jazz come Peggy Lee e Johnny Mathis.

La mia difesa si svolge in due parti: la prima è una discussione delle critiche alla disco in quanto musica “capitalista”, la seconda un tentativo di riflettere sulle qualità positive – per quanto ambivalenti, ambigue, contraddittorie – della disco.

Disco e Capitale

Molta dell’ostilità verso la disco viene dalla sua equiparazione col capitalismo. Per come viene prodotta e per ciò che esprime, la disco è ritenuta irrimediabilmente capitalistica.

Ora, non c’è nessun dubbio che la disco sia prodotta dall’industria capitalista, e dato che il capitalismo è un modo di produzione irrazionale e inumano, l’industria della disco è pessima come tutto il resto. Naturalmente. Tuttavia, questo argomento nasce da due presupposti piuttosto problematici. Uno riguarda la musica come modo di produzione, e la convinzione che in una società capitalista sia possibile produrre cose (ad esempio la musica, come il rock e il folk) che restino però al di fuori del modo di produzione capitalista. Ma a parte che, in generale, questa posizione finisce per considerare l’attività fuori dalle strutture esistenti più importante delle lotte contro di esse, i due generi musicali che vengono di solito contrapposti alla disco come modo di produzione non sono molto meglio.

Una è la musica folk – nel Regno Unito, possiamo pensare alle canzoni gaeliche e le ballate operaie – quel genere di musica spesso usata, o rielaborata, nel teatro di nicchia di sinistra. Si dice che queste, al contrario della disco (e del pop in generale), siano prodotte non per il popolo, ma dal popolo. Sono cioè la musica popolare “autentica”. E lo sono – o meglio lo erano. Il problema è che non viviamo in una società di piccole comunità tecnologicamente semplici come quelle che l’hanno prodotta. Preservare questa musica può, nel caso migliore, darci una prospettiva storica sulle lotte contadine e operaie, in quello peggiore stimolare la nostalgia per una vita comunitaria semplice e armoniosa che non è nemmeno mai esistita. In altre parole: le canzoni gaeliche o sulla vita di fabbrica del diciannovesimo secolo, per quanto belle siano, non dicono molto alla maggior parte delle persone di oggi.

L’altra musica solitamente contrapposta alla disco, e al “pop” per il modo in cui è prodotto, è il rock, incluso il folk alla Dylan e tutto ciò che va dal vecchio rock’n’roll agli album di prog concettuale. L’argomento che viene portato avanti qui è che il rock sarebbe prodotto facilmente da non-professionisti – tutto ciò che serve sono pochi strumenti e un posto dove suonare – mentre la disco richiede l’intero armamentario delle tecnologie di registrazione in studio, quindi è impossibile produrla per i non-professionisti – i ragazzi della strada. Sono osservazioni abbastanza vere, ma che necessitano di qualche precisazione. Al di là del fatto che sia passato in pochissimo tempo – con tardivo dispiacere di alcuni puristi – dalle strade ai sofisticati studi di registrazione, il rock, pur essendo semplice e adatto ai non-professionisti, è comunque molto costoso, e di fatto resta accessibile quasi solo per quella classe media che si può permettere chitarre elettriche, lezioni di musica eccetera. (Basta guardare le storie di questi musicisti rock, ora professionisti, che hanno cominciato da non-professionisti – la preponderanza di ragazzi venuti da scuole private e laureati è pari solo alla preponderanza della stessa categoria nella dirigenza del Partito Laburista). Ma soprattutto, è falso pensare che queste produzioni vengano “dal popolo” quando, a parte alcuni momenti storici, anche la musica non-professionale, non solo il rock, si basa inevitabilmente su quella professionale. L’idea del rock come musica “della gente” è subito smentita dal fatto che “la gente” fa il possibile per essere professionista.

Il secondo argomento, quello basato sul fatto che disco sia prodotta dal capitalismo, riguarda la musica come espressione ideologica. Si dà per scontato qui che il capitalismo come modo di produzione produca necessariamente e semplicemente ideologia “capitalista”. La teoria della relazione tra il modo di produzione e l’ideologia di una particolare società è troppo complicata e controversa per essere approfondita qui, ma possiamo cominciare ricordando che il capitalismo è una questione di profitto. Nel linguaggio dell’economia classica, il capitalismo produce merci, e il suo interesse nelle merci risiede nel valore di scambio (quanto profitto possono dare) più che nel valore d’uso (il valore umano o sociale). La questione diventa problematica quando si tratta di merci, come la disco, che portano con sé una carica espressiva, perché nel capitalismo, ed è uno dei suoi problemi, non c’è nessuna connessione necessaria o garantita tra il valore di scambio e il valore d’uso. In altre parole, il capitalismo può trarre profitto da una cosa ideologicamente opposta alla società borghese così come da una che la sostiene. Finché una merce genera profitto, che importanza ha?

È proprio questa tendenza pericolosa e anarchica del capitalismo a rendere necessarie le istituzioni ideologiche come la chiesa, lo stato, l’educazione, la famiglia. È compito loro assicurarsi che ciò che il capitalismo produce resti nel suo interesse a lungo termine. Tuttavia, dato che spesso non sanno di avere questo compito, non sempre lo svolgono. La produzione culturale nella società capitalista è, quindi, fondata su due contraddizioni profonde – la prima tra la produzione per il profitto e la produzione per l’uso; la seconda, tra queste istituzioni il cui compito è regolare la prima contraddizione. Tutto questo, nel caso della disco, significa che una merce prodotta dal capitalismo non è automaticamente e necessariamente sostenitrice del capitalismo. Il capitalismo costruisce l’esperienza della disco, ma non necessariamente è consapevole di quello che sta facendo, a parte fare soldi.

Non mi lancerò adesso in una difesa della disco come grande forma d’arte sovversiva. Quello a cui voglio arrivare è, prima di tutto, affermare che la produzione culturale sotto il capitalismo è necessariamente contraddittoria, e che i prodotti culturali capitalisti sono probabilmente più contraddittori quanto più sono, come la disco, estremamente commerciali e professionistici, e quanto più è forte è l’urgenza di profitto. Inoltre, questo modo di produzione culturale ha prodotto una merce, la disco, che è stata appropriata dai gay in modi che probabilmente non erano previsti. L’anarchia del capitalismo sputa fuori merci di cui un gruppo oppresso si può appropriare per fabbricare la propria cultura. Da questo punto di vista, la disco è sicuramente molto simile a un altro aspetto profondamente ambiguo della cultura gay maschile, il camp. È un uso “contrario” di ciò che viene fornito dalal cultura dominante, è importante nella formazione di un’identità gay, e ha un potenziale sovversivo così come implicazioni reazionarie.

Le caratteristiche della Disco

Parliamo adesso di quello che considero essere le tre caratteristiche importanti della disco: erotismo, romanticismo e materialismo. Ne parlerò a partire dal significato che credo abbiano nel contesto della cultura gay. Queste tre caratteristiche non sono in sé buone o cattive (non più di quanto la disco nel complesso lo sia), e hanno bisogno di essere indagate a fondo. Quello che ci interessa è come ci portino verso alcune qualità che non solo costituiscono delle ambiguità fondamentali nella cultura gay maschile, ma soprattutto sono sempre state autentici ostacoli per i socialisti.

Erotismo

Si potrebbe obiettare che tutta la musica popolare è erotica. Quello che dobbiamo definire è, quindi, il modo specifico del pensare e sentire eroticamente nella disco. Lo chiamerei erotismo “di tutto il corpo”, e lo definirei paragonandolo all’erotismo dei due generi musicali ai quali la disco è più vicina – le canzoni popolari (come Gershwin, Cole Porter, Bacharach e simili) e il rock.

L’erotismo delle canzoni popolari è incorporeo: riesce a esprimere un senso di erotico del quale tuttavia nega la fisicità. Lo si vede nella natura delle melodie e nel modo in cui sono gestite.

Le melodie delle canzoni popolari sono smussate, chiuse, auto-sufficienti. Questo si ottiene con l’uso di una struttura musicale rigida (AA BA) nella quale le frasi melodiche di apertura sono riprese e, soprattutto, la nota tonica della canzone è anche l’ultima della melodia. (La nota tonica è quella che forma la base per la chiave in cui la canzone è scritta; è quindi l’àncora armonica della melodia, e chiudere con essa dà esattamente il senso di ‘ancoraggio’, di chiusura del cerchio). Quindi, anche se molte canzoni si allontanano dai loro incipit armonici e melodici – specialmente nella sezione centrale (B) – ci ritornano sempre. Questo dà loro – anche nei momenti più passionali, come in Night and day di Cole Porter – un senso di sicurezza e controllo. Alla melodia non è permesso invadere la totalità del corpo di chi ascolta. Ora confrontatela con quella di una tipica canzone disco, che di solito è poco più di una frase che viene ripetuta all’infinito superando i suoi stessi confini, mai “racchiusa”. Anche quando la disco si basa su uno standard di musica popolare, di solito lo trasforma in una frase semplice. La versione di “I’ve got you under my skin” di Gloria Gaynor, per esempio, è in larga parte una ripetizione cantata di “I’ve got you”.

I testi delle canzoni popolari si muovono all’interno di una concettualizzazione dell’amore e della passione “interiori”, provenienti dal cuore o dall’anima. Per cui le note pur bramose delle canzoni popolari esprimono un desiderio erotico che viene non dal corpo, ma dal profondo dell’animo. La disco rifiuta anche questo. Non solo i testi sono, di solito, più direttamente fisici e il messaggio più esplicita (tipo I need a man di Grace Jones), ma soprattutto la disco al contrario delle canzoni popolari è insistentemente ritmica.

Il ritmo, nella musica occidentale, è tradizionalmente considerato più fisico di altri elementi musicali come la melodia, l’armonia, e la strumentazione. È per questo che la musica occidentale è tradizionalmente così noiosa dal punto di vista ritmico – qui si vede bene la nostra eredità puritana. Ci siamo dovuti rivolgere ad altre culture – soprattutto a quella afroamericana – per imparare qualcosa sul ritmo. La storia della musica di massa dalla fine del diciannovesimo secolo è per lo più la storia dell’incorporazione (o furto) bianco della musica nera – ragtime, charleston, tango, swing, rock’n’roll, rock. La cosa interessante di questa incorporazione o strappo è ciò che ha significato e significa. Tipicamente, la musica nera era pensata dalla cultura bianca come più primitiva e genuinamente erotica. Infusioni di musica nera erano sempre viste (e spesso condannate) come sessuali e fisiche. L’uso di ritmi neri insistenti nella musica disco, riconoscibile dalla vicinanza dello stile al soul e rinforzata da caratteristiche peculiari della black music come la frase cantata ripetuta e l’uso di diversi strumenti di percussione africani, significa che essa incarna inevitabilmente (nel contesto bianco) la fisicità.

Tuttavia, anche il rock, come la disco, è influenzato dalla musica nera. Questo ci porta al confronto tra l’erotismo della disco e quello del rock. La differenza sta in quello che esse “sentono” nella musica nera. L’erotismo del rock è una spinta, un trapano – non riguarda tutto il corpo, è fallico. Perciò prende dalla musica nera il ritmo insistente e lo rende ancora più tale; le frasi ripetute del rock ti intrappolano nella loro spinta senza soste, invece di rilasciarti, come la disco, in una successione aperta e indefinita di ripetizioni. La strumentazione del rock è forse ancora più rivelatrice. La musica nera ha più percussioni di quella bianca, e sa come usarle per creare ogni sorta di effetti – leggero, morbido, vivace, così come pesante, duro, e rullante. Il rock, tuttavia, si interessa solo delle ultime, e sviluppa le qualità percussive di strumenti in realtà non percussivi per aumentarle, di qui la chitarra elettrica vibrante e la vocalizzazione nasale.

È facile capire che, quando il rock’n’roll è comparso per la prima volta, questa sia stata una tremenda liberazione dall’erotismo incorporeo della canzone popolare, con una musica davvero fisica, che non parla di labbra di miele ma abbastanza chiaramente di qualcos’altro – il cazzo. Ma il rock limita la sessualità al cazzo, ed è per questo che, per quanto possa avere contenuti progressisti e sia suonata anche da donne, resta inevitabilmente una musica fallocentrica. Nella disco, invece, risuonano la fisicità e l’estensione della musica nera. Questo risultato si ottiene attraverso una serie di elementi, a partire dalla quantità di cose che succedono nel ritmo di una canzone pure semplice (per sentire una ritmica chiara ma complessa, sentire la versione intera di Papa was a rolling stone dei Temptations); la propensione a giocare col ritmo, ritardarlo, saltarlo, contrastarlo più che limitarsi semplicemente a portarlo avanti e avanti (vedi Patti Labelle, Isaac Hayes); la gamma degli strumenti di percussione usati e i loro diversi effetti (es. i violini affilati in Tell me a bedtime story di Quincy Jones e Herbie Hancock; le pulsazioni delicate di George Benson). È sempre erotico, ma riporta l’erotismo all’interezza del corpo e per entrambi i sessi, non lo limita al solo pene. Da questo nascono i movimenti sinuosi ed espressivi della disco sulla pista dal ballo, molto diversi della goffaggine nervosa così tristemente caratteristica del ballo rock.

Chiaramente, gli uomini gay non hanno nessuna prerogativa intrinseca verso un erotismo del corpo nella sua interezza. Siamo anzi spesso molto più orientati al cazzo delle persone non gay di entrambi i sessi, e mi deprime che una forma di disco music così fallica come quella dei Village People sia riconosciuta come espressione della cultura gay. Nonostante questo, un po’ perché molti di noi non si sono mai pensati come “veri uomini” e un po’ perché la cultura gay dei margini è anche uno spazio in cui si sviluppano definizioni alternative, incluse quelle sessuali, mi sembra che l’importanza della disco nella cultura della scena indichi un’apertura a una sessualità che non si definisce solo attraverso il cazzo. Anche se non ci si può spostare così facilmente dai valori musicali a quelli personali, o da quelli personali a quelli direttamente politici, questo discorso suggerisce in ogni caso che la cultura gay dovrebbe sostenere una forma di musica che nega la centralità del fallo mentre al tempo stesso rifiuta il rifiuto della corporeità che questa negazione ha in precedenza comportato.

Romanticismo

Non tutta la disco è romantica. I testi di molti successi disco sono spesso esplicitamente sessuali (per non dire sessisti) oppure vagamente sociali, come in Ghetto Child dei Detroit Spinners o Living in the city di Stevie Wonder, mentre la vena hard dei Village People o di Labelle è senza dubbio antiromantica. Ma c’è comunque una forte linea romantica nella disco. Si vede nei testi, che spesso non sono molto diversi dagli standard popolari, anzi sono spesso proprio degli standard (What a difference a day made di Ester Phillips, La vie en rose di Grace Jones). Ma quello che colpisce di più è il romanticismo reso dalla strumentazione e dagli arrangiamenti della disco.

L’uso massiccio degli archi ci riporta, passando per Hollywood, fino a Tchaikovsky, in una fonte di emozione incontenibile. Un esempio brillante lo troviamo in I’ve got you under my skin di Gloria Gaynor, quando nella sezione centrale i violini prendono lo spunto da una delle frasi melodiche di Porter e si alzano in volo da questa melodia in un movimento estatico. Questa ‘fuga’ dai confini della canzone popolare verso l’estasi è molto tipica della disco, soprattutto nei classici di Diana Ross come Reach out o Ain’t no mountain high enough. Quest’ultima, con il suo messaggio di resa incondizionata all’amore, i suoi cori paradisiaci, i violini maestosi, è forse una delle vette più stravaganti del romanticismo disco. Ma Ross è anche uan figura chiave nell’appropriazione gay della disco.

Quello che fa Diana Ross – penso soprattutto al suo lavoro fino a Greatest hits vol.1 e Touch me in the morning – è raccontare l’intensità dei contatti emotivi effimeri. Sono espressioni di adorazione che tuttavia portano con sé la consapevolezza della (inevitabile) qualità temporanea dell’esperienza. A volte si tratta del lamento per la delusione subita da un uomo, ma più spesso unisce la celebrazione della relazione al riconoscimento quasi sollevato della sua fine e dello squisito dolore che ne consegue – “Ricordami / come un giorno di sole / che hai avuto un giorno / lungo la strada”; “If I’ve got to be strong / Don’t you know I need to have tonight when you’re gone / When you go I’ll lie here / And think about / the last time that you / Touch me in the morning”. Quest’ultimo verso, la voce fragile come il cristallo e dolce in modo irreale, il sottofondo dei violini, concentra quel senso di celebrazione dell’intensità di una relazione che finisce, una nota che echeggia in tanti suoi lavori. Non sorprende che Diana Ross sia (fosse?) così importante nella cultura della scena gay maschile, sia perché entrambe condividono la consapevolezza di questa inevitabile realtà (che le relazioni non durano) e al tempo stesso la celebrano, la validano.

Non tutta la disco funziona così, ma in tante orchestrazioni dolcemente malinconiche (pure in pezzi vivaci come You should be dancing da La febbre del sabato sera) e anche in alcuni testi e nel tono generale (es. l’album Four seasons of love di Donna Summer), c’è un rimando a questo timbro emozionale. Come minimo, quindi, nel romanticismo della disco c’è l’incarnazione e la validazione di un aspetto della cultura gay.

Ma il romanticismo è una qualità particolarmente paradossale quando si tratta di arte. Passione e intensità rappresentano, o creano, un’esperienza che nega l’amarezza della vita quotidiana. Ci dà un assaggio di cosa significa vivere al massimo delle nostre capacità emozionali ed esperienziali – piuttosto che essere schiacciati dagli ingranaggi della vita quotidiana. Dato che questa banalità quotidiana, il lavoro, la casa, il sessismo e razzismo di tutti i giorni, sono radicate nelle strutture di classe e genere di questa società, poter volare al di sopra di questa bruttura può apparire come una fuga dal capitalismo e dal patriarcato in quanto esperienze vissute.

Il ragionamento si fa ancora più complesso se si pensa alla posizione concreta della disco in questo contesto. La disco è parte del più ampio vai e vieni tra lavoro e tempo libero, alienazione e fuga, noia e godimento al quale siamo tanto abituati (e che La febbre del sabato sera mostra in modo molto efficace). Questo vai e vieni è anche il meccanismo col quale riusciamo a tirare avanti, al lavoro, a casa – il sollievo del tempo libero ci dà l’energia per lavorare, e siamo ancora indotti a pensare al tempo libero come ‘ricompensa’ per il lavoro. Questo circolo vizioso ci rinchiude. Ma quello che succede nello spazio del tempo libero può essere molto significativo; è lì che possiamo immaginare e progettare un’alternativa al lavoro e alla società così com’è. Tra le attività di “svago”, il romanticismo è una di quelle che maggiormente tiene vivo questo senso di alternativa. Il romanticismo ci ricorda che i confini del lavoro e della domesticità non sono i limiti dell’esperienza possibile.

Non dico che il romanticismo, con la sua passione e la sua intensità, sia un ideale politico per il quale lottare – dubito che sia umanamente possibile vivere sempre a quel livello. Quello che voglio dire è che il rapporto tra la banalità e qualcosa di “altro” dalla banalità è una dialettica essenziale della società, una costante: mantiene aperta il passaggio tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione” (oggi un po’ datato) argomenta che la nostra società cerca di chiudere questa comunicazione, di affermare che quello che c’è è tutto quello che può esserci, che dovrebbe esserci. Pur con tutta la sua commercialità e l’inserimento nella routine lavoro-tempo libero, penso che il romanticismo della disco sia una delle cose che tiene questo passaggio aperto, consentendo all’esperienza della contraddizione di continuare. Poiché credo anche che la lotta politica sia radicata nell’esperienza (per quanto non esclusivamente in essa), trovo questa dimensione della disco potenzialmente positiva. (Un’ulteriore aspetto romantico/utopico della disco si realizza nelle discoteche non commerciali organizzate dai gruppi di gay e donne. Qui si realizza un’esperienza di comunità, attraverso i balli in cerchio o anche solo la sensazione di conoscere persone in quanto persone e non corpi anonimi. La socialità diventa più importante della moda. Questo è più facile nei club più piccoli, magari quelli fuori dal centro di Londra che, quando non sono squallidi monumenti all’auto-oppressione, possono diventare un sostegno per comunità come quella gay).

Materialismo

La disco è caratteristica delle società capitaliste avanzate già nei termini della quantità di soldi che macina. È un trionfo di consumismo, luccicante di tecnologia (echo chambers, piste doppie o multiple, strumenti elettronici), soverchiante nella sua dimensione (violini e cori a profusione, percussioni di ogni genere e tipo), lussuriosamente volgare negli specchi e nella paccottiglia delle discoteche, nei vestiti scintillanti e glitterati. La sua sontuosità pacchiana è ben evocata in Thank God it’s Friday. Agli antipodi sia dalla compostezza della canzone popolare che dalla frugalità del rock e del reggae, e dalla semplicità del folk. Come può un socialista, o una che cerca di essere femminista, difenderla?

Per alcuni aspetti, è senza dubbio indifendibile. Tuttavia, socialismo e femminismo sono entrambe forme di materialismo – perché la disco, la celebrazione del materialismo per eccellenza, non è considerata per questo la forma d’arte appropriata per la politica materialista?

In parte, ovviamente, perché non bisogna confondere il materialismo politico con la mera materia. Il materialismo cerca di capire le cose in termini di come sono prodotte e costruite nella storia, e come possono essere prodotte e costruite meglio. Questo non significa immergersi nel mondo materiale – si tratta semmai di tirarsi fuori deliberatamente dal mondo materiale per vedere cosa lo rende quello che è e come cambiarlo. Ma il materialismo si basa anche sulla profonda convinzione che la politica riguardi il mondo materiale, e che non esiste altro al di fuori di esso e della vita umana; non c’è un dio, non ci sono forze magiche. Uno dei pericoli nella politica materialista è il rischio continuo che spiritualizzi sé stessa, in parte per l’eredità storica delle forme religiose che la hanno originata, in parte perché i materialisti fanno così tanta fatica a non prendere la materia per ciò che meramente è, che spesso finiscono col non occuparsene affatto. La disco, nel celebrare il materialismo, non fa che celebrare il mondo in cui siamo necessariamente sempre immersi. Il materialismo della disco, nella modernità tecnologica, è risolutamente storico e culturale – non può mai essere, come molta arte rivendica per sé, una “emanazione” fuori dalla storia e dalla produzione umana.

La disco combina romanticismo e materialismo riuscendo in modo efficace a raccontarci – a farci sperimentare – che viviamo in un mondo di materiali, che possiamo goderceli ma che l’esperienza del materialismo non è necessariamente ciò che il mondo di tutti i giorni ci dice essere. Il suo erotismo ci consente di riscoprire i nostri corpi come parte di questa esperienza di materialismo e la possibilità di cambiare.

Se questo sembra esagerato, chiariamo una cosa – la disco non può cambiare il mondo né fare la rivoluzione. Nessuna arte può farlo e non ha senso aspettarselo. Ma nell’aprire nuove esperienze e cambiare alcune definizioni, l’arte e la disco possono essere utili. Al che si potrebbe anche aggiungere, come si suol dire: se ti fa stare bene, usalo.

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