‘Sa die de sa Sardigna’: perché ricordare la rivolta sarda contro i piemontesi

Tra una settimana la Sardegna ricorderà la rivolta del 28 aprile 1794 contro l’invasore piemontese. La data è conosciuta come “Sa Die de sa Sardigna” (il giorno della Sardegna) ed è una ricorrenza ufficiale nella quale chiudono scuole e uffici.

Ricordare che la Sardegna è stata capace di opporre resistenza alle ‘conquiste’ che, come la vulgata insegna, hanno sempre interessato l’isola, è importante in un’ottica anti-colonialista. I libri di scuola insegnano, molto grossolanamente, che la Sardegna — dopo un passato mitico e misterioso nel quale si costruivano nuraghi, domus de janas (case delle fate) e altri monumenti megalitici — è sempre stata dominata da qualcuno: fenici, cartaginesi, romani, bizantini, genovesi e pisani, arabi, aragonesi, spagnoli e infine italiani. Le cose non sono andate esattamente così: per quanto sia vero che tutte questi soggetti hanno, formalmente o concretamente, conquistato alcune parti anche considerevoli dell’isola, la Sardegna non è mai stata un soggetto passivo.

Per quanto concerne la storia antica, parlare di resistenze rischia di essere fumoso: si sa che contro Cartagine e Roma ci furono battaglie e che nessuna delle due città riuscì mai a prendere il controllo totale dell’isola. Al di là delle notizie storiche certe (che la Barbagia, ad esempio, sia sempre stata resistente alle invasioni è abbastanza vero), il rischio è quello di rapportarsi con un passato mitico che parla poco al presente. Ciò che è accaduto negli ultimi secoli è invece più importante: potenze economiche e militari di grande importanza nella storia hanno infatti dovuto sudare per riuscire a controllare, seppur parzialmente, un’isola che non era sicuramente la più ricca e preziosa del mondo, ma che rappresentava comunque sia una spina nel fianco che una preda importante.

Molto brevemente: dopo la caduta dell’impero romano e la breve invasione vandala, la Sardegna entra nell’impero bizantino ma, per ovvi motivi di distanza, mantiene da esso una relativa autonomia che col tempo diventa sempre più ampia. Mentre la zona di Cagliari (o meglio, Santa Igia) subisce maggiormente l’influenza ellenica, il resto della Sardegna sviluppa una forma di auto-governo basata sulle figure dei giudici e delle giudicesse; un modello che finirà col diffondersi in tutta l’isola formando 4 giudicati: Cagliari, Torres, Arborea e Gallura. Precisazione necessaria: quando si parla dei secoli di indipendenza sarda non si intende uno splendido isolamento da qualsiasi influenza esterna. Ognuno dei giudicati si rapportava ai soggetti d’oltre mare, a volte in maniera conflittuale e altre meno, commerciando, incrociando le dinastie e combattendo guerre. Così infatti fu con Pisa, Genova, Barcellona, la costa francese e quelle del Maghreb. Quando poi la Sardegna viene ‘assegnata’ dal Papa alla corona aragonese, nasce una resistenza di tipo nazionale, guidata dal giudicato allora diventato egemonico, quello di Arborea; resistenza che gli invasori riescono a domare solo con un grande sforzo militare e molte morti. Solo alla fine del 15mo secolo la Sardegna entra definitivamente in quello che, a breve, sarà l’impero castigliano, e ci resterà fino all’inizio del 18mo secolo.

La Sardegna entra infatti nell’orbita dei Savoia intorno al 1720. Al termine della guerra di successione spagnola, durante la quale una flotta anglo-olandese aveva conquistato Cagliari togliendo la Sardegna agli Asburgo spagnoli, le trattative costringono i Savoia a cedere il Regno di Sicilia ‘accontentandosi’ di quello di Sardegna. Nonostante questa assegnazione consenta alla casata di poter finalmente vantare il titolo di ‘Re’, nessuno di loro si presenterà in Sardegna per l’incoronazione. Non è da sottovalutare questo aspetto: la colonizzazione italiana, infatti, è considerata per motivi ideologici il ritorno della Sardegna nell’assetto ‘giusto’, quello italiano. Ma non solo la stessa idea di ‘Italia’ era un concetto decisamente fumoso fino a qualche decennio fa; la Sardegna, in quanto tale, non vi apparteneva proprio, a cominciare da una lingua che con l’italiano non aveva proprio niente a che fare.

La colonizzazione savoiarda è stata la più feroce: la Sardegna, fiaccata da quella spagnola, non oppose inizialmente molta resistenza e i nuovi re ne approfittarono per svuotare progressivamente la sua autonomia e spogliarla, senza scrupoli, di tutte le risorse. La classe dirigente sarda si adatta alla situazione, non vedendo possibilità di uscita; la colonizzazione durerà senza grandi intoppi fino a quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria cercherà di prendersi la Sardegna per usarne le risorse e farne una base militare. I Savoia stentano a reagire mentre la nobiltà e il clero sardo chiamano il popolo alle armi, e anche grazie a una flotta spagnola, l’esercito francese viene respinto. Questa vittoria convince la Sardegna di essere nuovamente in grado di alzare la testa e vengono inviate alcune richieste (nemmeno tanto rivoluzionarie) a Torino: la risposta del re sarà quella di non ricevere nemmeno la delegazione sarda e di rifiutare tutte le proposte. Non solo: il 28 aprile del 1794, vengono arrestati e imprigionati nella Torre di San Pancrazio alcuni notabili ‘ribelli’. Questa è la scintilla che fa scattare la rivolta: nel giro di due settimane, fino al 7 maggio, la cacciata degli invasori stranieri parte da Cagliari e si diffonde in tutta la Sardegna. Si racconta che alle persone veniva detto “nara cìxiri”: la pronuncia della ‘x’ rivelava la sardità o meno della persona — si sa che i Savoia sono sempre stati molto poco interessati alla lingua del popolo che conquistavano, fosse essa quella sarda o anche italiana. Come sempre accade, però, la nobiltà sarda si spaventò all’idea che il popolo prendesse un ruolo da protagonista, e si affrettò a dissociarsi dalla cacciata dei piemontesi ottenendo, poi, alcune concessioni — molto deboli e poco concrete — da parte del re. Mentre la rivolta guidata da Giovanni Maria Angioy, partita da Sassari con l’intenzione di portare in Sardegna le idee della Rivoluzione francese, venne sconfitta nel 1796 e repressa nel sangue, così come fu con tutte quelle che negli anni successivi cercarono di liberare la Sardegna dalla dominazione straniera.

È la ferocia della rappresaglia piemontese una delle cause dell’asservimento pressoché totale della classe dirigente sarda ai Savoia e al Regno d’Italia. Prima ancora della conquista della penisola, i notabili sardi votarono a grande maggioranza la cosiddetta perfetta fusione, con la quale la Sardegna divenne a tutti gli effetti una parte metropolitana del regno e non più una entità distaccata. La condanna a morte e l’esilio di così tante persone a seguito delle rivolte ha indebolito moltissimo la potenziale carica rivoluzionaria, non solo spaventando chi rimase, ma materialmente privando la Sardegna di tutta la classe intellettuale non allineata. Isolata a livello internazionale, in un mondo nel quale le ingerenze straniere negli affari interni diventavano sempre più rare, impoverita dalla colonizzazione savoiarda, la Sardegna si adattò al nuovo ordine, senza perdere del tutto la conflittualità ma spostandola sul piano della riottosità e della sorta di guerriglia che dall’esterno veniva definita brigantaggio, che portò i piemontesi a elaborare teorie lombrosiane e razziste e ad attuare vere e proprie campagne di repressione massiccia. Tra queste si ricorda la famosa ‘Caccia Grossa’, la gigantesca retata militare con la quale durante una notte del 1899 venne rastrellata tutta la città di Nùoro.

Questo racconto (molto sintetico) non deve servire a costruire il mito sterile di una Sardegna ‘resistente’, come spesso accade anche quando si agita politicamente la minaccia della ‘rivolta sarda’ che in realtà è sempre ben lontana dal concretizzarsi. Serve semmai a restituire l’idea che la Sardegna sia stata, in quanto tale, una soggettività storica che ha agito in autonomia, protagonista non perché abbia avuto un ruolo di primo piano nella storia europea, ma perché non è stata soggetto passivo. O almeno, non lo è stata più di altri. La ragione per cui questa storia viene nascosta, o sterilizzata nelle celebrazioni ufficiali de ‘Sa Die’, è la stessa per cui il discorso colonialista non riconosce l’autonomia di azione e pensiero dei popoli colonizzati. E se ancora oggi è necessario mantenere in vita il dispositivo coloniale è perché la Sardegna è ancora trattata come una colonia, una terra da civilizzare non più in quanto popolata da esseri inferiori, ma in quanto genericamente ‘povera’. Indagare sulle cause storiche di questa ‘povertà’ significherebbe scoprire che essa non discende da una maledizione divina o da una scarsità di risorse — che non c’è, o meglio non è più determinante che altrove, altrimenti non si spiegherebbe come una terra ‘povera’ sia abitata e frequentata da millenni — ma precisamente dalla depredazione portata avanti dall’Italia. Territori occupati con la forza da basi militari, rovinati dalle esercitazioni e dai grandi impianti industriali che dovevano servire a portare la civiltà, ma che hanno portato solo devastazione e disoccupazione.

Riconoscere quello sardo come uno dei più violenti colonialismi interni di uno Stato europeo è necessario non solo per noi, ma anche per le italiane e gli italiani che si considerano anti-colonialisti. Anche se questa posizione non è condivisa da tutto il movimento indipendentista, io credo sia importante che dentro il territorio italiano si diffondano il riconoscimento della nostra alterità e la solidarietà con l’indipendentismo sardo.

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