Indipendentismo, democrazia e rapporti di potere nell’Unione Europea: cenni sparsi

Possiamo ammettere, senza necessariamente concedere, ma anche senza timore di dire un’enormità, che la dimensione dello Stato-nazione sia stata ottimale, in un certo periodo storico, per garantire la scala adatta a favorire e sostenere il benessere dei cittadini. In un mondo in cui i rapporti internazionali erano regolati in modo ‘naturale’, solo il possesso di una certa forza geopolitica poteva probabilmente essere in grado di reggere il confronto e l’eventuale urto con gli altri Paesi. In altre parole, in mancanza di uno schema istituzionale di governance internazionale, piccole entità territoriali, come ad esempio una Sardegna indipendente dall’Italia, avrebbero rischiato di finire schiacciate e inglobate in modo forse ancora più invasivo da soggetti dotati di un’economia e di una forza geopolitica maggiore.
Detto questo, non si può ignorare che l’integrazione europea abbia modificato in modo sostanziale questo scenario. Non solo ad oggi i soggetti regionali hanno la possibilità di rapportarsi direttamente (pur se in modo parziale) con un centro amministrativo capace di fornire risorse finanziarie, ma anche giuridiche e in parte politiche alternative a quelle di cui lo ‘Stato patrigno’ ha avuto l’esclusiva per lungo tempo; di più, l’appartenenza a un’entità di scala ben più ampia consentirebbe a territori come la Sardegna (ma anche la Corsica e tante altre ‘nazioni senza Stato’) di sopravvivere e affiancare a un’eventuale sovranità formale anche una discreta autonomia concreta. Non si tratta tanto della rivendicazione di un’identità nazionale, concetto mutevole e senz’altro pericoloso, quanto di assecondare la tendenza decostruzionista già presente nel processo stesso di integrazione europea.

Il ruolo preponderante di gatekeeper, di ‘detentore delle chiavi’, che la globalizzazione in generale e l’integrazione europea in particolare hanno conferito soprattutto ai governi nazionali (ampliando, fra l’altro, il solco della ‘trasformazione della democrazia’ con la modifica dei rapporti di potere interni fra esecutivo e rappresentanza democratica), rappresenta infatti più il tentativo (riuscito) da parte delle élite nazionali di conservare l’egemonia nel processo, e di configurare la stessa Unione Europea come sfera decisionale protetta da un supposto ‘eccesso di democrazia’.
Tuttavia, per questo scopo sono state create istituzioni sovranazionali (la cui legittimità si basa solo sui Trattati e non rispondono quindi direttamente agli Stati) dotate di un potere sufficiente a vincolare i membri dell’Unione nelle loro politiche interne ed esterne. Queste istituzioni, in particolare la Commissione e la Corte di Giustizia, non solo come detto sopra sono diventate fonte di risorse esterne, ma soprattutto la prima svolge spesso le sue funzioni rapportandosi direttamente con le istituzioni ‘sub-statali’, come quelle che in Italia si chiamano Regioni, nell’ambito del ristretto spazio di redistribuzione delle risorse economiche che il sistema comunitario consente.
In questo senso, quindi, molti studiosi osservano come il processo di integrazione europea abbia ridato vigore a identità territoriali sopite o messe a tacere dalla più o meno forzata acculturazione nazionale, le quali hanno la possibilità sia di rapportarsi direttamente con un nuovo ‘centro amministrativo’, che di portare avanti progetti di integrazione e cooperazione con territori confinanti di altri Stati – all’incirca le famose ‘macro-regioni’ europee.
Accanto a queste osservazioni empiriche qui brevemente esposte, si affiancano alcune considerazioni di natura più teorica e normativa. Va ribadito innanzitutto con più chiarezza che l’ingombrante ruolo dello Stato-nazione, in questo contesto, non appare giustificato se non dalla precisa volontà di rendere più complesso e impenetrabile il processo decisionale comunitario. In questo senso, territori periferici che si considerano ‘differenti’ si trovano ulteriormente declassati, con il centro decisionale posto in un gradino ancora superiore, mediato e perfino ostruito dall’imbuto costituito dallo Stato-nazione di appartenenza.
Non si vuole, con questo, implicare che territori come la Sardegna, la Catalogna o la Scozia siano effettivamente ‘altri’ rispetto allo Stato che li amministra. Significa solo rimarcare che il processo di integrazione europea ha reso evidente come la ripartizione e l’organizzazione della vita politica, economica e sociale in questi ampi e eterogenei territori che chiamiamo Stati-nazione (riferendoci in particolare a quelli di dimensione maggiore, come Italia, Spagna, Francia, Regno Unito) sia puramente arbitraria, per non dire frutto di processi storici (e violente conquiste coloniali). Soprattutto laddove sono sopravvissute identità nazionali ‘sub-statali’, questa suddivisione non appare più giustificabile neanche da un punto di vista strumentale o funzionale: ad esempio, territori come la Sardegna e la Corsica potrebbero guadagnare in maggiore autonomia e benessere se avessero la possibilità di rapportarsi direttamente con Bruxelles, piuttosto che dover entrambe passare per l’impervia strada del riconoscimento delle proprie esigenze da parte dello Stato di appartenenza, in questo caso specifico due diversi Stati con diverse modalità di rapportarsi con i territori periferici.
A guadagnarne, inoltre, sarebbe la democrazia in generale. La partecipazione al processo decisionale comunitario, infatti, è ordinata secondo i confini nazionali e le istituzioni che ad essi sovrintendono. Questa canalizzazione rende più lento, chiuso e di difficile comprensione il meccanismo con il quale la partecipazione si può effettivamente realizzare; viceversa, in una prospettiva federale, il processo decisionale sarebbe più aperto e potrebbe essere costruito in modo libero, secondo le esigenze dei cittadini su basi territoriali, ma anche di diverso tipo, superando le barriere statali e quelle costituite dalla politica ‘di massa’.
Infine, una delle conseguenze di questa strutturazione elitaria-nazionale è che le differenze politiche si strutturano su base territoriale, seguendo confini statali più che allineamenti politici. Ma come osserva Stefano Bartolini nel suo magistrale Restructuring Europe, gli agenti territoriali come i governi o, in generale, le istituzioni verticali non possiedono gli strumenti adatti ad affrontare e risolvere le tensioni che il processo di integrazione produce, in particolare nell’ambito della redistribuzione della ricchezza e della realizzazione dei compromessi tra capitale e lavoro.
Perciò, specie nel contesto della crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo, l’esigenza di una politicizzazione del sistema politico comunitario si fa sempre più pressante: la gestione pesantemente verticistica di questo momento di difficoltà ha palesato tutti i limiti di questa conformazione istituzionale. Politicizzare l’Unione Europea significa, in un certo senso, riprodurre a livello continentale quei processi che hanno reso ‘neutro’ il concetto di Stato territoriale: una sorta di  scatola vuota il cui contenuto deve essere deciso dai cittadini e dalle cittadine in maniera libera.
Se questa dinamica, come è probabile, portasse con sé la fine dello Stato-nazione come forma paradigmatica dell’organizzazione della vita politica contemporanea, non sarebbe perciò un male. Lo Stato-nazione viene infatti spesso difeso proprio in quanto sede privilegiata, almeno nell’esperienza politica dell’Europa occidentale, delle procedure e delle istituzioni democratiche; ma nulla vieta che in futuro altri siano i meccanismi di legittimazione e di identificazione adatti a consentire quello che in economia si chiama ‘abbattimento dei costi di transizione’.
In conclusione, nei suoi aspetti di rifiuto dello Stato-nazione l’indipendentismo europeo potrebbe avere un’influenza positiva nella costruzione di un’Europa unita davvero democratica, se portato avanti partiti e movimenti più civici che identitari, che non rappresentino istanze di chiusura verso l’esterno, cioè di mera riterritorializzazione in scala minore, ma piuttosto di un’apertura più libera e costruttiva. Un’identificazione territoriale aperta, che sia al tempo stesso funzionale alla soluzione dei problemi e abbastanza credibile per legittimare istituzioni liberamente scelte dai cittadini e dalle cittadine, potrebbe essere in questo senso il mattone per costruire uno spazio europeo di giustizia, pace e libertà inclusivo, e non opprimente, verso l’esterno.

Riferimenti:

Stefano Bartolini, ‘Tra formazione e trascendenza dei confini’, in Rivista Italiana di Scienza Politica, n°2, agosto 2004, pp. 167-196

Stefano Bartolini, Restructuring Europe, Oxford University Press, Oxford 2005.

Peter Mair, Jacques Thomassen, Electoral Democracy and Political Representation in the European Union, disponibile qui: http://www.indiana.edu/~west/documents/2007-9/Conferences%20&%20Workshops/Rohrschneider/electoral_democracy_mair_2008.pdf

Peter Mair, Ruling the void: the hollowing of Western democracy, Verso Books, Londra 2013.

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