Girmityas: una storia dimenticata della diaspora indiana

Le Antille sono tra i posti al mondo più densi di storie da raccontare: nella moltitudine di piccoli stati, colonie e territori d’oltremare si trovano ancora vive le tracce dei secoli di viaggi e deportazioni, oggi un paesaggio di identità molteplici che sfidano consapevolmente qualsiasi essenzialismo e raccontano storie di incroci e rivoluzioni.

L’idea di fare questa ricerca viene dall’incontro avuto tempo fa con una famiglia indiana proveniente da Trinidad. Non si trattava di una migrazione recente, ma risalente a diverse generazioni prima. Questa conoscenza mi ha fatto scoprire la vicenda dell’indentured labour, un traffico di manodopera ‘volontaria’ gestito dall’impero britannico che sostituì la schiavitù quando questa venne abolita dai paesi europei che, tuttavia, continuarono ad avere necessità di lavoratori e lavoratrici a bassissimo costo per il loro arricchimento. Dal 1834 al 1917, anno della sua abolizione, gli inglesi trasportarono nelle loro colonie africane, caraibiche e del Pacifico milioni di persone, per la maggior parte provenienti dalle zone rurali dell’India, le quali firmavano – quasi sempre senza capirlo – un contratto di lavoro per 5 anni, che spesso diventavano 10. Queste persone, chiamate coolies (termine spregiativo), o anche girmityas e kantraki (parole che derivano dalle pronunce indiane di agreement e contract), andavano a sostituire letteralmente il lavoro degli schiavi, occupando i loro alloggi e sopportando le stesse condizioni di lavoro. Molte di loro tornarono in India, altre sono rimaste, andando a costituire comunità indiane nei posti più inaspettati, tra i quali, appunto, i paesi caraibici tra i quali Trinidad & Tobago, ma anche nel Suriname, colonia dell’Olanda che aveva un accordo con la Gran Bretagna.

Va detto, però, che l’India ha una tradizione storica di scambi e di viaggi: l’Oceano Indiano è stato teatro di scambi e intrecci che coinvolgevano le coste orientali dell’Africa, il Medio Oriente e la parte meridionale dell’Asia fino a quella che oggi chiamiamo Indonesia. In particolare, il popolo del Gujarat aveva traffici e insediamenti fin dai tempi antichi in tutto il Golfo Persico e nel Corno d’Africa fino a Zanzibar. Il motivo del viaggio anche in terre lontane non era quindi ovviamente una novità per la cultura indiana, e non di rado la mobilità all’interno degli imperi coloniali europei era volontaria e spinta dalla ricerca di nuove opportunità o di stili di vita diversi – si trovano persone di origine indiana praticamente in ogni territorio colonizzato dall’Inghilterra e dal Portogallo, che occupava Goa fino al 1961. E forse anche per questo c’è chi rivendica l’indentured labour come emigrazione volontaria di un popolo dotato di spirito imprenditoriale, e non si può ovviamente escludere a priori che non sia esistita anche questa componente. Di fatto, però, i viaggi dall’India erano gestiti da uomini ricevevano una percentuale, che li spingeva a reclutare più persone possibile usando anche l’inganno; e molto del lavoro a cui erano destinate queste persone si svolgeva in condizioni disumane che, come vedremo, portarono a rivolte che hanno lasciato il segno nella storia delle lotte sul lavoro.

In ogni caso, come detto, molte di quelle persone decisero di restare nelle terre che erano diventate ormai casa loro. Ed è soprattutto nella parte meridionale dei Caraibi – piccole Antille e coste della Guyana e del Suriname – che si sono preservate la lingua e la cultura del Bhojpur, regione indiana del nord da cui proveniva la maggior parte dei girmityas: una eredità che si ritrova soprattutto nella musica.

Sappiamo come il mondo dei Caraibi, seppure relativamente piccolo, abbia avuto un’influenza enorme nella musica che ascoltiamo oggi: da quella che oggi definiamo latina (salsa, rumba, mambo) figlia dei ritmi africani meridionale al reggae giamaicano. La musica è stata, in generale, la forma di espressione principale delle popolazioni deportate e schiavizzate dagli stati europei nel continente americano e, per questo, non stupisce che anche i lavoratori e le lavoratrici indentured abbiano partecipato a questa creatività. Il Baithak Gana è lo stile più legato alla tradizione (anche se il suono dell’armonium ricorda vagamente lo zydeco del sud francofono degli Stati Uniti), mentre il Chutney nasce a Trinidad unendo al Baithak Gana strumenti e ritmi più caraibici e occidentali ed è molto popolare in tutta l’area e anche nei luoghi – come i Paesi Bassi e l’Inghilterra – che sono stati la destinazione di un secondo passaggio migratorio. La vicenda della deportazione è stata ripresa, fra gli altri, dall’artista olandese Raj Mohan nella sua canzone “Girmitya Kantraki” in lingua Bhojpuri. Mohan è quello che si definisce un sarnami hindoestani, indiano del Suriname.

Sempre su YouTube è possibile trovare un documentario, Coolies, che racconta la vicenda dell’indentureship dal punto di vista di due indiani della diaspora che tornano nei luoghi dei loro antenati girmitya: David Dabydeen, autore del libro Coolie Odissey, in Guyana alla ricerca del proprio avo negli archivi; e Brij Lal, studioso della National University australiana, che vola nelle Fiji dalla propria famiglia. La storia della servitù nelle isole oceaniche è, tra l’altro, particolarmente dolorosa, non solo per il ricordo del naufragio della nave Sirya in cui persero la vita 70 persone, ma anche per gli strascichi moderni: la discendenza dei girmityas rappresentavano infatti quasi la metà della popolazione ma, a cavallo degli anni ‘90, esplose la rivolta della gente figiana che non voleva più condividere il potere politico con loro e li portarono a una nuova emigrazione forzata.

Tra i momenti più del documentario Coolies, inoltre, ci sono le interviste a due girmityas che raccontano le loro esperienze di espropriazione e violenza. Tuttavia, nella storia dell’indentureship è presente anche una donna, Janey Tetary, autentica leader delle lotte contro i signori europei delle piantagioni.

(continua)

p { margin-bottom: 0.25cm; line-height: 120% }
a:link { so-language: zxx }

Every day is Ashura, every place is Karbala

Per la mia laurea triennale avevo proposto alla relatrice un lavoro su femminismo e Islam o socialismo e Islam. Avevo scelto quella docente perché avevo fretta di concludere e lei mi sembrava la persona più adatta – cioè intelligente e poco propensa a bizantinismi universitari – e alla fine decido di fare una ricerca su socialismo e Islam. E meno male, perché allora non sarei stato sicuramente pronto per parlare di femminismo.

Nei primi tentativi di trovare sul web qualche idea tutto quello che mi si presenta riguarda il socialismo arabo di Nasser, Gheddafi, Saddam Hussein – o quasi. Colpisce la mia attenzione un certo Ali Shari’ati che a quanto pare aveva una sua idea di un rapporto molto stretto tra Corano e rivoluzione. Sembra interessante e provo a cercare di più, decido che la mia relazione sarà su di lui.

Ali Shari’ati nasce in Iran nel 1933 e muore a Londra nel 1977, poco prima della rivoluzione guidata da Khomeini. Un intellettuale difficile da inquadrare, appassionato dell’esistenzialismo – diventerà anche amico di Sartre – ma anche della poesia mistica di Rumi, radicalmente critico nei confronti dell’uso corrotto della religione, ma talmente convinto della sua fede da aver fatto della shi’a una ideologia rivoluzionaria. Shari’ati morirà troppo presto per vedere quello che succederà nel suo paese nel 1979, che difficilmente avrebbe approvato: troppo libertario – a modo suo, ovviamente – per accettare che il tanto odiato sistema dello Shah venisse sostituito da un regime che impone ottusamente una legge coranica.

Shari’ati era assolutamente convinto che ogni persona fedele è responsabile del proprio comportamento di fronte a Dio e non deve rispondere a nessuna autorità terrena; credeva anche che l’autonomia di scelta delle donne avesse un suo fondamento preciso nell’Islam e nei ruoli importanti assegnati a diverse donne come Aghar, la schiava nera di Abramo sepolta alla Mecca, o Fatima, la figlia di Maometto che definì “la manifestazione dei diritti degli oppressi” e “forte e chiara incarnazione della ricerca di giustizia”. In ogni caso, Shari’ati da sciita era fermamente convinto dell’ijtihad, la possibilità di innovare l’Islam a partire da interpretazioni indipendenti e attualizzate.

In generale, il suo pensiero era simile a quello della Teologia della Liberazione. Ma a differenza di questa, che parte dal riconoscimento della contraddizione tra la fede in un Dio d’amore e l’esistenza di un mondo di sofferenza, e crede che il messaggio cristiano debba essere fatto valere attraverso un’analisi e una lotta di tipo comunista (o marxista), Shari’ati trova nel messaggio divino stesso (il Corano, gli hadith del Profeta e le vite di Ali, Husayn e Abu Dharr) il fondamento (espresso in forma simbolica) della necessità (seppure non deterministica) della battaglia contro gli oppressori.

Ci sono ovviamente molti aspetti critici nella teoria di Shari’ati – più sicuramente di quelli che ero in grado di vedere 10 anni fa – ma l’importanza di quel lavoro, per me, è stato aver compreso il ruolo che l’immaginario ha nella lotta politica. Shari’ati era fermamente convinto che tutte le religioni monoteiste fossero nate come espressione di una rivolta – contro gli schiavisti egizi, contro la corruzione della Palestina e l’occupazione romana, contro le iniquità della società araba. E che l’uso di un immaginario di tipo religioso fosse utile a dare forza alle battaglie: “in nome del Dio dei diseredati” era la formula – poco consueta – con cui Shari’ati era solito cominciare le sue lezioni. La consapevolezza di avere Dio dalla propria parte era ciò che spingeva il popolo – al-nas, che attraverso questo nome si identifica con Dio – a ribellarsi e non accettare le ingiustizie. E a differenza del determinismo, per Shari’ati uno degli aspetti più problematici del marxismo, in questa versione coranica della rivoluzione le persone erano messe di fronte a una libera scelta: seguire la propria essenza più elevata – il soffio divino – e combattere l’oppressione, oppure assecondare il fango, la materia prima infima con la quale l’essere umano è stato modellato.

Tra le immagini più forti che Shari’ati propone ci sono quelle che sono, in effetti, il fondamento della shi’a. Questa corrente islamica nasce con il rifiuto da parte di Ali di consentire che la religione si normalizzasse e venisse dominata dall’aristocrazia: il “no” del genero di Maometto, marito della figlia Fatima, è l’inizio della battaglia della “famiglia del Profeta” che si conclude con un’altra immagine forte, quella che vede a Karbala il martirio di Husayn, figlio di Ali, che secondo la shi’a andò volontariamente incontro alla morte perché essa diventasse simbolo del riscatto.Quel giorno viene ricordato dalle persone che credono nella shi’a come la Ashura e viene celebrato con impressionanti processioni di contrizione collettiva. Ma Shari’ati contestava la celebrazione rituale svuotata di ogni significato e progettava il ritorno a una Shi’a rossa (religione del martirio, cioè della lotta politica) e l’abbandono della Shi’a nera (quella del lutto passivo): la sua chiamata risuonava “ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Karbala!”.

Questa parola araba, che indica il “no”, è utilizzata come simbolo dai movimenti anarchisti di lingua araba. Non so – non credo – che questa scelta sia legata al mito del “no” di Ali; ma per quanto riguarda me sono molto legato a questo simbolo, insieme alla mano di Fatima, perché rappresentano per me la scoperta della potenza dell’immaginario spirituale in ottica rivoluzionaria.

Nell’Artico il colonialismo bianco uccide ancora: il caso Attawapiskat

Baia di Hudson, Ontario, Canada. Foreste, acqua, immense ricchezze naturali. Ma poche settimane fa, nella First Nation nativa di Attawapiskat (2000 abitanti), 11 persone hanno tentato di suicidarsi, tutti nello stesso giorno. Non è solo una questione “artica”: la Groenlandia, poco lontana, ha il tasso di suicidi più alto del mondo, ma la notte polare non è l’unica spiegazione. In questa First Nation mancano le scuole, molti servizi pubblici, l’acqua potabile. Eppure, a poca distanza, la De Beers estrae milioni di dollari in diamanti, grazie a un trattato del 1930.Dopo gli 11 tentati suicidi, culmine di una lunga storia di disperazione, il governo canadese sembra essersi svegliato, riconoscendo la crisi e inviando personale di emergenza, mentre sui media il dibattito si è aperto.

Attawapiskat First Nation Office in Attawapiskat, Ontario, Canada, 1990s - fonte: Wikipedia

Attawapiskat First Nation Office in Attawapiskat, Ontario, Canada, 1990s – fonte: Wikipedia

Continue reading