La competenza maschilista – di Léo Thiers-Vidal

Questo lungo estratto fa parte del libro “De l’ennemi principal aux principaux ennemis: position vécue, subjectivité et conscience masculine de domination” (Dal nemico principale ai principali nemici: posizione vissuta, soggettività e coscienza maschile di dominazione) di Léo Thiers-Vidal, con introduzione di Christine Delphy.

Dello stesso autore avevo già tradotto un breve saggio che trovate qui. Thiers-Vidal era un compagno dichiaratamente bisessuale, anarchico e antispecista, che nel 2007 ha scelto di non vivere più. Quello che lo rende speciale, nel panorama delle persone assegnate uomini alla nascita che hanno scelto di contribuire alla causa femminista da un punto di vista maschile, è la sua capacità di rendere politico (e insieme personale) ciò che spesso viene trattato da un punto di vista freddamente psicologico o più banalmente polemico. Lungi da limitarsi ad un elenco di “cose da non fare” o fare proselitismo promuovendo un “femminismo che fa bene agli uomini”, Thiers-Vidal individua le pratiche concrete che perpetuano la dominazione maschilista e offre spunti per superarle, non per creare una “nuova maschilità” ma, in linea con il femminismo materialista francofono, per superare il genere in quanto tale.

La tesi di fondo del libro è che gli uomini abbiano una coscienza della dominazione, siano cioè consapevoli che le loro azioni (e non-azioni) abbiamo la funzione di mantenerli in una posizione dominante rispetto alle soggettività “non-pari”. In questo estratto parla della “competenza (expertise) maschilista”, riferendosi proprio a quelle cose che gli uomini imparano fin da bambini per consentire loro di conservare e ampliare il proprio privilegio di genere.

Copertina del libro

Competenza maschilista

La tematica della socializzazione maschile (eterosocializzazione ed eterosessualizzazione), riletta tramite l’ipotesi della coscienza maschile di dominazione, ha permesso di capire alcuni aspetti della soggettività maschile, psico-familiare e psicosociale1. Gli elementi empirici finora affrontati, e le ipotesi esplicative discusse, confermano che sarebbe sbagliato limitarsi a un’analisi disincarnata di quella configurazione materiale-soggettiva che è la posizione maschile vissuta. Ma indicano, anche, la necessità di ripensare questa posizione integrando pienamente in essa l’agentività politica degli uomini: il fatto cioè che agiscano in funzione dei loro interessi e desideri, e che questi siano concepiti come superiori a quelli delle donne.

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Parlate tra di voi – dalla colpa bianca al tradimento della razza

Ho scelto di tradurre questo pezzo uscito su Ill Will perché credo offra moltissimi spunti di riflessione sulla questione della solidarietà con le lotte, in particolare sul confronto tra una militanza fondata sul senso di colpa e un’attivismo basato sulla mutualità, la complicità e la condivisione. Il tema del pezzo sono le rivolte della primavera del 2020 negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia, ma credo che gli spunti possano essere utili anche per gli uomini cis ed etero che si chiedono come potere essere solidali con le lotte femministe e queer. Tradire il genere è forse più complicato che tradire la razza, ma affermare che queste identità che ci sono imposte – pur con tutti i privilegi che portano – non siano statiche ma instabili, e che si possano rompere le alleanze che le sorreggono, può essere una traccia per comprendere meglio.

Parlate tra di voi: dal senso di colpa bianco al tradimento della razza

La psicologia moderna è una psicologia del deserto: quando perdiamo la facoltà di giudicare – di soffrire e condannare – cominciamo a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in noi se non possiamo vivere una vita deserta. Fintanto che la psicologia cerca di ‘aiutarci’, ci aiuta a ‘adattarci’ a questa vita, portando via la nostra unica speranza, quella di essere capaci, noi che non siamo destinati al deserto nel quale viviamo, di trasformarlo in un mondo umano. La psicologia capovolge tutto: precisamente perché soffriamo in queste condizioni desertiche siamo ancora umani e ancora intatti; il pericolo sta nel diventare veri abitanti del deserto e sentirci a casa in esso. – Hannah Arendt

Lo sbirro nella testa

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Ecografia di una debolezza

articolo originale sul numero 21 della rivista Harz-Labour di Rennes

“Il rimorso non è la prova del crimine, ma solo di un animo facile da soggiogare”

Marchese de Sade, Justine

La debolezza è quella condizione che ognuna di noi ha purtroppo conosciuto in un momento o l’altro della sua vita. È quella fatica che può spingere a scopare, perché non si ha la forza di giustificare un no, è quella puntuale rassegnazione che ci fa ignorare la mano sul culo al bar, è in tutte quelle situazioni in cui il reale rinvia brutalmente ogni donna alla sua condizione di corpo messo a disposizione. Ma al di là dei vissuti singolari, la debolezza è il prodotto della differenziazione sessuata, ed è costruita come una proprietà intrinsecamente femminile. Giustificata anatomicamente dai medici con la cavità del sesso femminile, rinforzata politicamente dall’idea di uno stato di minorazione delle donne, essa legittima l’insieme del funzionamento patriarcale.

La debolezza femminile è l’insieme della caratterizzazione del femminile: appoggiandosi all’idea di una fragilità biologica e sociale, di una incoerenza tutta femminile, è ciò che rende le donne delle piccole cose fragili che bisogna proteggere.

Di conseguenza, si situa al centro del regime politico eterosessuale: imponendo l’idea della necessità di proteggere le donne da sé stesse, rinviandole al biologico e alle loro funzioni riproduttrici, fonda la loro dipendenza dai poteri che devono prenderla in carico e le rinchiude nella sfera domestica. L’idea di debolezza, lasciando intendere un’incapacità al governo di sé, richiede la regolazione dei comportamenti. È la messa a disposizione del corpo femminile alla possenza mascolina, perché se si tratta di proteggere, si tratta anche di addomesticare. Per farla breve, la debolezza femminile è ciò che priva le donne delle loro vite e le rende governabili.

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La maschilità è un’idea politicamente costruita

tra le varie cose che sto leggendo traducendo e scrivendo sul tema del maschile da demolire, volevo condividere la traduzione di questi “pensieri conclusivi” tratti da “Refusing to be a man” di John Stoltenberg.

L’identità sessuale maschile non è un “ruolo”.

Non è un insieme di tratti anatomici.

L’identità sessuale maschile – la credenza che uno sia maschio, la credenza che esista un sesso maschile, la credenza che uno vi appartenga – è un’idea politicamente costruita.

Significa che la mascolinità è una costruzione etica: la costruiamo con le nostre azioni, con le cose che scegliamo di fare e di non fare, con le nostre azioni consapevoli che siano le cose “maschie” da fare. Molte delle nostre scelte dipendono dalla nostra volontà di realizzare la nostra idea di maschilità, per non pensare al fatto che, in realtà, la divisione della nostra specie in due classi separate e distinte di sesso possa essere profondamente sbagliata. Molte delle nostre scelte dipendono dal dissociarci da tutto ciò che viene codificato e stigmatizzato come “femmina”. Molte delle nostre scelte derivano dalla volontà di “disidentificarci” con le donne. Molte delle nostre scelte creano la condizione di essere sessuat*.

Finché continueremo a provare ad agire in modi che ci confermano “uomini”, siamo condannati alla paralisi, alla colpa, al disprezzo per noi stessi e all’inerzia. Finché cerchiamo di agire come uomini, per continuare a essere uomini, per fare la nostra parte nella costruzione sociale dell’entità che è la classe sessuale degli uomini, condanniamo le donne all’ingiustizia: l’ingiustizia che risiede nell’idea stessa che esistano due sessi.

L’identità sessuale maschile è costruita attraverso le scelte che facciamo e le nostre azioni. Non possiamo continuare a costruirla e al tempo stesso considerarci pienamente femministi. Non si può restare aggrappati al proprio genere come cuore del proprio io, e pensare di essere in qualche modo utili alla battaglia. Bisogna cambiare il centro del proprio io, perché sappia amare la giustizia più della maschilità [One must change the core of one’s being. The core of one’s being must love justice more than manhood.]

 

da “Refusing to be a man”, di John Stoltenberg, p.182 dell’edizione Fontana (UK) del 1990.

Pandemia, vaccino, pass sanitario: per una posizione rivoluzionaria

Ho tradotto questa posizione di ActaZone perché mi è sembrata molto chiara e condivisibile sulla questione politica del “pass sanitario” o, come lo chiamiamo in Italia, il Green Pass. Mi sembra che il punto principale – non lasciarsi catturare dalla polarizzazione forzata sul vaccino – sia di estrema importanza. Questo scritto nasce naturalmente nel contesto francese ma credo che i riferimenti alla realtà locale non siano difficili da capire anche per chi non conosce la realtà francese.

Articolo originale qui: https://acta.zone/pandemie-vaccin-pass-sanitaire-pour-une-position-revolutionnaire/

È davvero difficile riuscire ad adottare una posizione politica chiara di fronte a un dibattito così tanto polarizzato, ridotto spesso a un mero conflitto tra “pro” e “anti” vax. Da una parte, si sta diffondendo un grande malcontento contro il pass sanitario e l’obbligo implicito alla vaccinazione, il che ha portato migliaia di persone in piazza in tutta la Francia. Dall’altro, la sinistra radicale ha preso le distanze da queste mobilitazioni, con la motivazione – incontestabile – che una parte dell’estrema destra sia all’avanguardia di queste mobilitazioni, o anche che ci sia una confusione tendenzialmente negazionista, espressa attraverso discorsi e simboli come le analogie con la Shoah o l’apartheid.

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BDSM Apocalypse

Ho deciso di tradurre questo testo di Romain Noël perché mi sono ritrovato molto nel modo in cui è stato disteso. La sensazione che mi ha dato è quella di avere ascoltato il discorso di un amico, particolarmente ispirato alla fine di una festa, quando si finisce di bere quello che c’è e le menti sono un po’ vacue ma molto ricettive. La traduzione è stata un’esperienza bella, perché ho discusso con l’autore stesso alcuni passaggi e ho conosciuto meglio una persona che, già dal testo, mi sembrava quasi familiare; per me che leggo sempre velocemente, soffermarmi sui passaggi e le sfumature di un testo così ibrido è stato entusiasmante. Ringrazio tantissimo Romain Noël e come sempre Lundi Matin per le perle settimanali che ci regala, e per la disponibilità e l’amichevolezza con la quale rispondono alle mie traduzioni.

Qui il testo originale: https://lundi.am/BDSM-Apocalypse

Questo testo molto bello parla della nostra epoca, ovvero del triste antropocene, della fine di un mondo e della necessaria liquidazione dell’umano. Ci narra di una guerra affettiva, di un arte delle lacrime e del desiderio ardente di rendere le nostre malinconie dei portali aperti su mondi nuovi. Partendo dalla constatazione che i Lumi sono stati prima di tutto un progetto anti-affettivo, Romain Noël propone di ritornare alle ombre. Di affetto in affetto, il soggetto umano si oscura e si trasforma. Il futuro è nelle nostre mani: una storia da scrivere, una promessa da mantenere, una lotta da condurre, appassionatamente.

a Nadir, che mi ha saputo leggere quando non sapevo più scrivere

e a Loup, che mi ha parlato delle stelle1

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Queering the Dancefloor: tempo, spazio e corpi in discoteca

Torniamo con un’altra traduzione, sempre a proposito della Disco. In questo caso, l’autore parte da un punto di vista situato negli Stati Uniti, in un saggio che copre tantissimi aspetti della cultura Disco, riflettendo sul modo in cui la Disco era concretamente vissuta. Quello che è più interessante, dal mio punto di vista, è l’accento sulla dimensione orizzontale di questo fenomeno, il fatto che sia basato fortemente sulla relazione tra le persone. Nella pista da ballo le persone non si rapportano in quanto coppie o potenziali coppie, ma come individui che, tuttavia, non sono a(u)tomizzati ma in costante relazione di comunità. La direzione verticale che caratterizza la musica europea (la gerarchia che vede in cima la sacralità dell’opera, poi la genialità e capacità tecnica dell’artista, e in fondo il pubblico, il cui ruolo è solo quello di assistere con devozione) viene sovvertita in una scena dove tutti gli elementi – la musica, la figura del o della DJ, le persone sulla pista da ballo – sono tutti fondamentali. Una delle caratteristiche fondamentali della musica afroamericana è l’importanza data alla performance piuttosto che alla perfezione assoluta dell’esecuzione: questo deriva sia dalla filosofia africana importata dalle persone schiavizzate nel continente americano, sia dalla reazione di queste alle condizioni materiali di sfruttamento e disumanizzazione alle quali venivano sottoposte.

La risignificazione degli spazi, dei tempi, degli strumenti musicali, della fisicità stessa del/la musicista e della persona che riceve la musica, sono parte della cultura afroamericana e che ritroviamo anche nelle culture che da essa derivano e nelle quali il “discorso” del blues e del jazz continua nelle sue varie forme.

Il titolo originale del saggio di Tim Lawrence è “Disco and the Queering of the Dancefloor”, e si può trovare sul suo sito ufficiale qui: https://www.timlawrence.info/articles2/2013/7/16/disco-and-the-queering-of-the-dance-floor-in-queer-adventures-in-cultural-studies-a-special-issue-guest-edited-by-angela-mcrobbie-cultural-studies-25-2-2011-230-243

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In difesa della Disco Music

 

Paradise Garage

Una serata al Paradise Garage, storico tempio della House Music (quando ancora non si chiamava così) – foto di Bill Bernstein

Richard Dyer è un critico inglese che si è sempre occupato del rapporto tra industria di intrattenimento e razza, genere e sessualità. Militante gay e socialista, pubblica questo articolo sulla rivista londinese Gay Left nel 1979, lo stesso anno in cui, sull’altra sponda dell’Atlantico, il dj Steve Dahl inventa la Disco Demolition Night, invitando la gente a bruciare pubblicamente i vinili di disco music. Si tratta di un momento storico particolare: mentre da un lato il rock si riscopre ringiovanito dall’attitudine punk – specie quello statunitense – dall’altra parte gli anni ‘70 rappresentano il culmine della cultura artistica afroamericana, specialmente in ambito musicale. La disco, nata come spesso accade nell’incontro tra la sperimentazione “alta” e la creatività dei margini, entra prepotentemente nell’immaginario collettivo, anche grazie a La febbre del sabato sera – film che, tuttavia, è emblematico dell’appropriazione bianca ed eterosessuale della disco (questo è il tema di un altro saggio, Disco and the queering of the dancefloor, che magari tradurrò in futuro).

Amanti del rock, del punk e del country si ritrovano nella Disco Demolition Night per sfogare il proprio astio verso questa cultura così insopportabilmente diversa da loro. Alcuni dei partecipanti diranno che non c’era alcun intento odio razziale o eterosessista, ma è difficile non scorgere in questo pubblico linciaggio una furia quantomeno normalizzatrice. L’odio verso la Disco non si discosta molto dai pregiudizi intorno al jazz e, in generale, alla musica di matrice africana, nella quale la preminenza del ritmo viene collegata alla fisicità erotica tanto odiata dalla cultura bianca.

In questo saggio Dyer parte dalla propria posizione personale di amante della musica da ballare a discapito di quella considerata intellettuale. Nella sua riflessione Dyer trasforma questo “disagio” in un discorso politico, nel quale affronta la questione (ancora oggi molto in voga) della musica “commerciale” e “stupida”, rivendicandone poi invece gli aspetti positivi e potenzialmente ribelli.

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Per il colonizzato, la vita non può nascere che dal cadavere in decomposizione del colono

Se presentassi questo articolo come una disamina della “mentalità razzista nel movimento ecologista” sarei sicuramente riduttivo e fuorviante. In questo lungo saggio/pamphlet si parla, più esattamente, di come il pensiero ecologista – quello bianco e occidentale, si intende – possa essere, di fatto, veicolo di colonialismo attraverso i suoi concetti e le sue pratiche.
Tra i tantissimi spunti presenti, la chiave per comprendere questo scritto è stata, per me, soprattutto la critica al concetto di wilderness.Con questo si intende l’idea di una natura intatta, pura, appunto selvaggia: il concetto nasce nel contesto dell’invasione bianca dell’America del Nord – quella che noi chiamiamo “la conquista del West”. Per fare un esempio concreto: il primo parco naturale della storia, quello di Yellowstone, viene creato nel 1872, proprio accanto agli stermini e agli sfollamenti delle Prime Nazioni (in questo caso, le Shoshone, Niitsitapi e Apsaalooke), e all’avanzare del degrado industriale e dell’accaparramento di terre.
Questa sua contestualizzazione storica mostra come la wilderness, lungi dall’essere un concetto neutro o tanto meno positivo, abbia avuto la funzione di estirpare la presenza umana dai territori rendendo possibile, allo stesso tempo, la separazione concettuale di cultura e natura, cioè di umano e non-umano. In altre parole, il concetto di natura incontaminata e selvaggia nasce da una falsità, quella che non riconosce il ruolo dell’azione umana in alcuni luoghi come, ad esempio, foreste a torto considerate “vergini”. In questo modo, lo sguardo coloniale separa radicalmente l’umano dal non-umano, rendendo quest’ultimo – la natura – nient’altro che il piacevole sfondo del progresso umano. Il pensiero colonialista propone quindi l’idea di una natura morta, inerte, la cui unica relazione possibile con l’umano è quella di essere guardata, razionalizzata e preservata o rinchiusa nel suo mito virginale.
Questa mentalità coinvolge anche i movimenti ecologisti bianchi. Fin dall’inizio, l’idea della conservazione della natura è nata nel contesto della colonizzazione, sistemando accanto al mito della natura virginale quella delle popolazioni autoctone selvagge e, per questo, incapaci di gestire al meglio le risorse naturali. Dalla missione civilizzatrice dell’occidente alle pratiche odierne di accaparramento e sfruttamento turistico delle “terre di nessuno”, nei sud come nelle periferie del nord del mondo, questo ecologismo è stato ed è strumento di conquista coloniale.
Come scritto nell’introduzione originale all’articolo, lo strumento dell’analisi decoloniale consente di “mettere in discussione alcune certezze (in questo caso, la fascinazione occidentale per la natura vergine e selvaggia oppure lo sviluppo sostenibile) e di misurare i discorsi e le pratiche (in questo caso ecologiste) rispetto alle realtà che pretendono di trasformare.”
Quello che questo articolo racconta è infine la necessità di rifiutare l’assoluto e accogliere la relazione come modalità di analisi e di lotta. Secondo gli autori, per esempio, le pratiche di lotta dei Gilet Jaunes, in particolare l’occupazione delle rotonde, sono molto più idonee a ottenere risultati pratici perché legano le persone tra loro e al territorio nel quale vivono, interrompendo al tempo stesso il flusso incessante delle merci. Piuttosto che continuare nell’astrazione delle lotte attraverso gesti simbolici, che consentono allo Stato e al capitale di espandere il proprio raggio d’azione mortifero, è necessario ripensare nel complesso il proprio rapporto con quello che ci circonda: “dobbiamo produrre nuove relazioni con le entità viventi e quelle minerali, per alimentarci e affermare la nostra autonomia non solo in una campagna immaginaria, ma soprattutto nei cumuli di cemento che chiamiamo case o città: dobbiamo strapparle alla loro funzione di ghetti nei quali l’unimondo ci rinchiude.”
articolo pubblicato originariamente da lundi.am qui: https://lundi.am/La-vie-ne-peut-surgir-que-du-cadavre-en-decomposition-du-colon
il titolo è una citazione da Frantz Fanon

Un missile all’interno del poligono militare interforze del Salto di Quirra (Sardegna)

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“D’ora in poi ci alziamo e ce ne andiamo” di Virginie Despentes

(articolo originale qui)

Voglio cominciare così: state tranquilli, potenti, boss, grandi capi: fa male. Per bene che lo sappiamo, che vi conosciamo, che abbiamo preso decine di volte il vostro potere di traverso in faccia, fa sempre comunque male. Tutto questo fine settimana a sentirvi gemere e piagnucolare, lamentarvi che vi costringiamo a passare le vostre leggi a colpi di decreto d’urgenza e che non vi lasciamo celebrare Polanski in santa pace e che vi si guasta la festa ma dietro le vostre geremiadi, non illudetevi: lo sentiamo come godete di essere i veri padroni, i grandi capoccia, e il messaggio arriva in pieno: questa nozione di consenso, voi non volete proprio farla passare. Cosa ci sarebbe di bello nell’appartenere al clan dei potenti se si dovesse tenere conto del consenso dei dominati? E non sono sicuramente la sola ad avere voglia di gridare di rabbia e di impotenza dopo la vostra bella dimostrazione di forza, sicuramente non la sola a sentirmi sporcata dallo spettacolo della vostra orgia di impunità.

Non c’è nessuna sorpresa nel fatto che l’accademia dei césars consideri Roman Polanski il miglior regista del 2020. È grottesco, è offensivo, è ignobile, ma non è sorprendente. Quando tu affidi un budget di più di 25 milioni a un tizio per fare un telefilm, il messaggio sta nel budget. Se la lotta contro la crescita dell’antisemitismo interessasse il cinema francese, si vedrebbe. Al contrario, la voce degli oppressi che si assumono il racconto del loro stesso calvario, abbiamo capito che vi irrita. Perciò, quando avete sentito parlare di questo sottile paragone tra il problema di un cineasta maltrattato da un centinaio di femministe davanti a tre sale di cinema e Dreyfus, vittima dell’antisemitismo francese alla fine del secolo scorso, ci siete saltati dentro con tutto il corpo. Venticinque milioni per questo parallelo. Superbe. Applaudiamo gli investitori, perché per mettere insieme una cifra simile è servito che tutti partecipassero al gioco: Gaumont Distribuzione, i crediti d’imposta, France 2, France 3, OCS, Canal +, la RAI… la mano nel portafoglio, e generosa, per una volta. Serrate i ranghi, vi difendete gli uni con gli altri. I più potenti vogliono difendere le loro prerogative: fa parte della vostra eleganza, lo stupro stesso è ciò che fonda il vostro stile. La legge vi copre, i tribunali sono il vostro dominio, i media vi appartengono. Ed è esattamente a questo che serve, la potenza delle vostre grandi fortune: avere il controllo dei corpi dichiarati subalterni. I corpi che tacciono, che non raccontano la storia dal loro punto di vista. Il tempo è arrivato per i più ricchi di far passare questo bel messaggio: il rispetto che gli è dovuto deve arrivare fino ai loro cazzi sporchi del sangue e della merda dei bambini che stuprano. Che sia all’Assemblea Nazionale o nella cultura – non più nascondersi, non più fingere imbarazzo. Voi esigete il rispetto totale e costante. Vale per lo stupro, vale per gli abusi della vostra polizia, vale per i césar, vale per la vostra riforma delle pensioni. È la vostra politica: esigere il silenzio delle vittime. Fa parte del dominio, e se serve farcelo capire con il terrore non vedete dove sia il problema. Il vostro piacere malato, prima di tutto. E non volete intorno a voi che i valletti più docili. Non c’è niente di sorprendente che abbiate incoronato Polanski: sono sempre i soldi che si celebrano, nelle cerimonie, e del cinema chi se ne fotte. Del pubblico chi se ne fotte. È la vostra propria potenza di fuoco monetario che venite ad adulare. È il grosso budget che avete offerto come sostegno che salutate – attraverso di esso, è il vostro potere che dobbiamo rispettare.

Sarebbe inutile e fuori posto, commentando questa cerimonia, separare i corpi degli uomini cis da quelli delle donne cis. Non vedo nessuna differenza di comportamento. È chiaro che i grandi premi continuano a essere esclusivamente il dominio degli uomini, perché il messaggio di fondo è: niente deve cambiare. Le cose vanno bene così come sono. Quando Foresti si permette di lasciare la festa e di dichiararsi “nauseata”, non lo fa in quanto donna – lo fa come individuo che si assume il rischio di porsi contro la sua stessa professione. Lo fa in quanto invididuo che non si è interamente asservito all’industria cinematografica, perché sa che il vostro potere non arriverà a svuotare le sue sale. È la sola a osare scherzare sull’elefante nella stanza, tutti gli altri faranno finta di niente. Neanche una parola su Polanski, neanche una parola su Adèle Haenel. Si cena tutti insieme, in quella stanza, si conoscono le parole d’ordine: è da mesi che vi infastidite perché una parte del pubblico si fa sentire ed è da mesi che soffrite perché Adèle Haenel ha preso parola per raccontare la sua storia di bambina attrice, dal suo punto di vista.

Allora tutti i corpi seduti quella sera nella sala sono convocati con un solo scopo: confermare il potere assoluto dei potenti. E i potenti amano gli stupratori. In fondo, quelli che gli somigliano, quelli che sono potenti. Non li amano malgrado siano stupratori e perché hanno talento. Gli si riconosce del talento e dello stile perché sono degli stupratori. Li amano per questo. Per il coraggio che hanno nel rivendicare la morbosità del loro piacere, la loro pulsione molle e sistematica di distruzione dell’altro, di distruzione, in verità, di tutto ciò che toccano. Il vostro piacere risiede nella predazione, è la vostra sola comprensione dello stile. Sapete bene quello che fate quando difendete Polanski: esigete che vi si ammiri fin nella vostra delinquenza. È questa esigenza che fa sì che nella cerimonia tutti i corpi siano sottomessi a una stessa legge di silenzio. Si accusa il politicamente corretto e i social media, come se questa omertà sia nata ieri e sia colpa delle femministe ma è da decenni che si presenta così: durante le cerimonie del cinema francese, non si scherza mai con la suscettibilità dei padroni. Allora tutti tacciono, tutti sorridono. Se lo stupratore di bambini fosse il bidello non ci sarebbe limite: polizia, prigione, dichiarazioni roboanti, difesa della vittima e condanna generale Ma se lo stupratore è un potente: rispetto e solidarietà. Mai parlare in pubblico di ciò che succede durante i casting né durante i preparativi né delle riprese né durante la promozione. Si racconta, si sa. Tutti sanno. È sempre la legge del silenzio che prevale. È per il rispetto di questa consegna che si seleziona il personale.

E per quanto si sappia tutto questo da anni, la verità è che siamo sempre sorpresi dalla tracotanza del potere. È questo che è bello, alla fine, è questo che funziona sempre, le vostre schifezze. Resta umilante vedere i partecipanti succedersi dal palco, che sia per annunciare o per ricevere un premio. Ci si identifica forzatamente – non solo io che faccio parte di questo serraglio ma chiunque guardando la cerimonia, si identifica e viene umiliato per procura. Così tanto silenzio, così tanta sottomissione, così tanta sollecitudine nella servitù. Ci si riconosce. Si ha voglia di crepare. Perché quando il rito finisce, sappiamo che tutti lavoriamo in questa merda. Siamo umiliati di rimando quando li guardiamo tacere benché tutti sappiano che se “Ritratto di una giovane in fiamme” non riceve nessun premio, è solamente perché Adèle Haenel ha parlato e si tratta di far capire bene alle vittime che potrebbero avere voglia di raccontare la loro storia che farebbero bene a riflettere prima di rompere la legge del silenzio. Umiliate di rimando perché avete osato convocare due registe che non hanno mai ricevuto e forse non riceveranno mai il premio della miglior regia per darlo al cazzo di Roman Polanski. Proprio lui. Dritto in faccia a noi. Non avete davvero vergogna di nulla. Venticinque milioni, cioè quattordici volte il budget dei “Miserabili”, e questo tizio e il suo cazzo di film non sono nemmeno tra i 5 film più visti dell’anno. E voi lo ricompensate. E sapete bene quello che state facendo – che l’umiliazione subita da tutta una parte del pubblico che ha ben compreso il messaggio si estenderà fino al premio dopo, quello dei “Miserabili”, quando convocate sulla scena i corpi più vulnerabili della sala, quelli che sappiamo rischiare la loro pelle al più banale controllo di polizia, e se non ci sono donne tra loro, sappiamo bene che è fatto con intenzione e sappiamo che loro sanno quanto l’impunità dello stupratore celebre sia legata in quella serata alla situazione del quartiere in cui vivono. Le registe che aggiudicano il premio della vostra impunità, i registi il cui premio è macchiato dalla vostra ignominia – stessa lotta. Gli uni e le altre sanno che in quanto lavoratori dell’industria del cinema, se vogliono diventare qualcuno un giorno, devono tacere. Né una battuta, né un accenno. Questo, è lo spettacolo dei césar. E il caso ha voluto che il messaggio passi anche su tutti i fronti: tre mesi di sciopero generale contro una riforma delle pensioni che non vogliamo e che voi farete passare a forza. È lo stesso messaggio che viene dagli stessi ambienti indirizzato allo stesso popolo: “la tua bocca, devi chiuderla, il tuo consenso te lo infili nel culo, e sorridi quando mi incontri perché io sono potente, perché io ho i soldi, perché il capo sono io”.

Quindi quando Adèle Haenel si è alzata, è stato il sacrilegio. Una dipendente recidiva, che non si sforza di sorridere quando viene avvilita in pubblico, che non si sforza ad applaudire lo spettacolo della sua stessa umiliazione. Adèle si alza come si è già alzata per dire ecco come la vedo la vostra storia del regista e della sua attrice adolescente, ecco come l’ho vissuta, ecco come la porto, ecco come mi è rimasta addosso. Perché potete girarla come volete, la vostra idiozia della separazione tra l’uomo e l’artista – tutte le vittime di stupro di artisti sanno che non c’è nessuna divisione miracolosa tra il corpo violentato e il corpo creatore. Ci portiamo appresso quello che siamo ed è tutto. Venite a spiegarmi come mi dovrei sentire a lasciare la ragazza violentata fuori dalla porta del mio ufficio prima di mettermi a scrivere, banda di buffoni.

Adèle si alza e se ne va. Quella sera del 28 febbraio non abbiamo imparato niente che non sapessimo sulla bella industria del cinema francese ma in compenso abbiamo imparato come si porta, il vestito da sera. Come una guerriera. Come si cammina sui tacchi alti: come se si andasse a demolire tutto l’edificio, come si cammina a schiena dritta e la nuca rigida di collera e le spalle aperte. La più bella immagine in quarantecinque anni di cerimonia – Adèle Haenel quando scende le scale per uscire e vi applaude e da adesso sappiamo come funziona, quando qualcuno se ne va e vi smerda. L’ottanta per cento della mia biblioteca femminista non vale questa immagine. Questa lezione. Adèle io non so se sia lo sguardo maschile o lo sguardo femminile ma io ti guardo1 innamorata in loop sul mio telefono per questa uscita. Il tuo corpo, i tuoi occhi, la tua schiena, la tua voce, i tuoi gesti dicevano tutto: sì noi siamo le povere stronze, siamo le umiliate, sì dobbiamo solo chiudere la bocca e ingoiare i vostri colpi, voi siete i boss, voi avete il potere e l’arroganza che lo accompagna ma noi non staremo zitte senza dire niente. Non avrete il nostro rispetto. Ce ne andiamo. Fate le vostre cagate tra di voi. Celebratevi, umiliatevi gli uni con le altre, uccidete, stuprate, sfruttate, sfondate tutto quello che vi passa per le mani. Noi ci alziamo e ce ne andiamo. Probabilmente è un’immagine che annuncia i giorni a venire. La differenza non sta tra gli uomini e le donne, ma tra i dominati e i dominanti, tra chi vuole requisire la narrazione e imporre le sue decisioni e chi si alzerà e se ne andrà urlando la sua rabbia. È la sola risposta possibile alle vostre politiche. Quando non va, quando va troppo oltre; ci alziamo ce ne andiamo e urliamo e vi insultiamo e anche se siamo sotto, anche se il vostro potere di merda lo prendiamo in faccia, vi disprezziamo vi vomitiamo. Non abbiamo nessun rispetto per la vostra farsa di rispettabilità. Il vostro mondo è disgustoso. Il vostro amore per il più forte è malato. La vostra potenza è una potenza sinistra. Siete una banda di macabri imbecilli. Il mondo che avete creato per regnare come dei miserabili è irrespirabile. Noi ci alziamo e ce ne andiamo. È finita. Ci alziamo. Ce ne andiamo. Urliamo. Vi smerdiamo.

1In francese l’autrice usa le espressioni male gaze e female gaze, che nella critica cinematografica indicano lo sguardo maschile o femminile della regia, e infine love gaze verso Haenel: un gioco di parole difficile da tradurre.