‘Sa die de sa Sardigna’: perché ricordare la rivolta sarda contro i piemontesi

Tra una settimana la Sardegna ricorderà la rivolta del 28 aprile 1794 contro l’invasore piemontese. La data è conosciuta come “Sa Die de sa Sardigna” (il giorno della Sardegna) ed è una ricorrenza ufficiale nella quale chiudono scuole e uffici.

Ricordare che la Sardegna è stata capace di opporre resistenza alle ‘conquiste’ che, come la vulgata insegna, hanno sempre interessato l’isola, è importante in un’ottica anti-colonialista. I libri di scuola insegnano, molto grossolanamente, che la Sardegna — dopo un passato mitico e misterioso nel quale si costruivano nuraghi, domus de janas (case delle fate) e altri monumenti megalitici — è sempre stata dominata da qualcuno: fenici, cartaginesi, romani, bizantini, genovesi e pisani, arabi, aragonesi, spagnoli e infine italiani. Le cose non sono andate esattamente così: per quanto sia vero che tutte questi soggetti hanno, formalmente o concretamente, conquistato alcune parti anche considerevoli dell’isola, la Sardegna non è mai stata un soggetto passivo.

Per quanto concerne la storia antica, parlare di resistenze rischia di essere fumoso: si sa che contro Cartagine e Roma ci furono battaglie e che nessuna delle due città riuscì mai a prendere il controllo totale dell’isola. Al di là delle notizie storiche certe (che la Barbagia, ad esempio, sia sempre stata resistente alle invasioni è abbastanza vero), il rischio è quello di rapportarsi con un passato mitico che parla poco al presente. Ciò che è accaduto negli ultimi secoli è invece più importante: potenze economiche e militari di grande importanza nella storia hanno infatti dovuto sudare per riuscire a controllare, seppur parzialmente, un’isola che non era sicuramente la più ricca e preziosa del mondo, ma che rappresentava comunque sia una spina nel fianco che una preda importante.

Molto brevemente: dopo la caduta dell’impero romano e la breve invasione vandala, la Sardegna entra nell’impero bizantino ma, per ovvi motivi di distanza, mantiene da esso una relativa autonomia che col tempo diventa sempre più ampia. Mentre la zona di Cagliari (o meglio, Santa Igia) subisce maggiormente l’influenza ellenica, il resto della Sardegna sviluppa una forma di auto-governo basata sulle figure dei giudici e delle giudicesse; un modello che finirà col diffondersi in tutta l’isola formando 4 giudicati: Cagliari, Torres, Arborea e Gallura. Precisazione necessaria: quando si parla dei secoli di indipendenza sarda non si intende uno splendido isolamento da qualsiasi influenza esterna. Ognuno dei giudicati si rapportava ai soggetti d’oltre mare, a volte in maniera conflittuale e altre meno, commerciando, incrociando le dinastie e combattendo guerre. Così infatti fu con Pisa, Genova, Barcellona, la costa francese e quelle del Maghreb. Quando poi la Sardegna viene ‘assegnata’ dal Papa alla corona aragonese, nasce una resistenza di tipo nazionale, guidata dal giudicato allora diventato egemonico, quello di Arborea; resistenza che gli invasori riescono a domare solo con un grande sforzo militare e molte morti. Solo alla fine del 15mo secolo la Sardegna entra definitivamente in quello che, a breve, sarà l’impero castigliano, e ci resterà fino all’inizio del 18mo secolo.

La Sardegna entra infatti nell’orbita dei Savoia intorno al 1720. Al termine della guerra di successione spagnola, durante la quale una flotta anglo-olandese aveva conquistato Cagliari togliendo la Sardegna agli Asburgo spagnoli, le trattative costringono i Savoia a cedere il Regno di Sicilia ‘accontentandosi’ di quello di Sardegna. Nonostante questa assegnazione consenta alla casata di poter finalmente vantare il titolo di ‘Re’, nessuno di loro si presenterà in Sardegna per l’incoronazione. Non è da sottovalutare questo aspetto: la colonizzazione italiana, infatti, è considerata per motivi ideologici il ritorno della Sardegna nell’assetto ‘giusto’, quello italiano. Ma non solo la stessa idea di ‘Italia’ era un concetto decisamente fumoso fino a qualche decennio fa; la Sardegna, in quanto tale, non vi apparteneva proprio, a cominciare da una lingua che con l’italiano non aveva proprio niente a che fare.

La colonizzazione savoiarda è stata la più feroce: la Sardegna, fiaccata da quella spagnola, non oppose inizialmente molta resistenza e i nuovi re ne approfittarono per svuotare progressivamente la sua autonomia e spogliarla, senza scrupoli, di tutte le risorse. La classe dirigente sarda si adatta alla situazione, non vedendo possibilità di uscita; la colonizzazione durerà senza grandi intoppi fino a quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria cercherà di prendersi la Sardegna per usarne le risorse e farne una base militare. I Savoia stentano a reagire mentre la nobiltà e il clero sardo chiamano il popolo alle armi, e anche grazie a una flotta spagnola, l’esercito francese viene respinto. Questa vittoria convince la Sardegna di essere nuovamente in grado di alzare la testa e vengono inviate alcune richieste (nemmeno tanto rivoluzionarie) a Torino: la risposta del re sarà quella di non ricevere nemmeno la delegazione sarda e di rifiutare tutte le proposte. Non solo: il 28 aprile del 1794, vengono arrestati e imprigionati nella Torre di San Pancrazio alcuni notabili ‘ribelli’. Questa è la scintilla che fa scattare la rivolta: nel giro di due settimane, fino al 7 maggio, la cacciata degli invasori stranieri parte da Cagliari e si diffonde in tutta la Sardegna. Si racconta che alle persone veniva detto “nara cìxiri”: la pronuncia della ‘x’ rivelava la sardità o meno della persona — si sa che i Savoia sono sempre stati molto poco interessati alla lingua del popolo che conquistavano, fosse essa quella sarda o anche italiana. Come sempre accade, però, la nobiltà sarda si spaventò all’idea che il popolo prendesse un ruolo da protagonista, e si affrettò a dissociarsi dalla cacciata dei piemontesi ottenendo, poi, alcune concessioni — molto deboli e poco concrete — da parte del re. Mentre la rivolta guidata da Giovanni Maria Angioy, partita da Sassari con l’intenzione di portare in Sardegna le idee della Rivoluzione francese, venne sconfitta nel 1796 e repressa nel sangue, così come fu con tutte quelle che negli anni successivi cercarono di liberare la Sardegna dalla dominazione straniera.

È la ferocia della rappresaglia piemontese una delle cause dell’asservimento pressoché totale della classe dirigente sarda ai Savoia e al Regno d’Italia. Prima ancora della conquista della penisola, i notabili sardi votarono a grande maggioranza la cosiddetta perfetta fusione, con la quale la Sardegna divenne a tutti gli effetti una parte metropolitana del regno e non più una entità distaccata. La condanna a morte e l’esilio di così tante persone a seguito delle rivolte ha indebolito moltissimo la potenziale carica rivoluzionaria, non solo spaventando chi rimase, ma materialmente privando la Sardegna di tutta la classe intellettuale non allineata. Isolata a livello internazionale, in un mondo nel quale le ingerenze straniere negli affari interni diventavano sempre più rare, impoverita dalla colonizzazione savoiarda, la Sardegna si adattò al nuovo ordine, senza perdere del tutto la conflittualità ma spostandola sul piano della riottosità e della sorta di guerriglia che dall’esterno veniva definita brigantaggio, che portò i piemontesi a elaborare teorie lombrosiane e razziste e ad attuare vere e proprie campagne di repressione massiccia. Tra queste si ricorda la famosa ‘Caccia Grossa’, la gigantesca retata militare con la quale durante una notte del 1899 venne rastrellata tutta la città di Nùoro.

Questo racconto (molto sintetico) non deve servire a costruire il mito sterile di una Sardegna ‘resistente’, come spesso accade anche quando si agita politicamente la minaccia della ‘rivolta sarda’ che in realtà è sempre ben lontana dal concretizzarsi. Serve semmai a restituire l’idea che la Sardegna sia stata, in quanto tale, una soggettività storica che ha agito in autonomia, protagonista non perché abbia avuto un ruolo di primo piano nella storia europea, ma perché non è stata soggetto passivo. O almeno, non lo è stata più di altri. La ragione per cui questa storia viene nascosta, o sterilizzata nelle celebrazioni ufficiali de ‘Sa Die’, è la stessa per cui il discorso colonialista non riconosce l’autonomia di azione e pensiero dei popoli colonizzati. E se ancora oggi è necessario mantenere in vita il dispositivo coloniale è perché la Sardegna è ancora trattata come una colonia, una terra da civilizzare non più in quanto popolata da esseri inferiori, ma in quanto genericamente ‘povera’. Indagare sulle cause storiche di questa ‘povertà’ significherebbe scoprire che essa non discende da una maledizione divina o da una scarsità di risorse — che non c’è, o meglio non è più determinante che altrove, altrimenti non si spiegherebbe come una terra ‘povera’ sia abitata e frequentata da millenni — ma precisamente dalla depredazione portata avanti dall’Italia. Territori occupati con la forza da basi militari, rovinati dalle esercitazioni e dai grandi impianti industriali che dovevano servire a portare la civiltà, ma che hanno portato solo devastazione e disoccupazione.

Riconoscere quello sardo come uno dei più violenti colonialismi interni di uno Stato europeo è necessario non solo per noi, ma anche per le italiane e gli italiani che si considerano anti-colonialisti. Anche se questa posizione non è condivisa da tutto il movimento indipendentista, io credo sia importante che dentro il territorio italiano si diffondano il riconoscimento della nostra alterità e la solidarietà con l’indipendentismo sardo.

La faccia feroce del nazionalismo banale

A margine del vergognoso processo con il quale la Spagna ha condannato pesantemente diversi attivisti indipendentisti catalani, notiamo la grave presa di posizione nazionalista di molte persone che si considerano di sinistra. Gli schemi con i quali queste persone giudicano e criticano l’indipendentismo sono speculari a quelli usati dal patriarcato e dal razzismo: accuse di isteria, pazzia, irrazionalità e sragionevolezza, egoismo, settarismo.

Ognuna di queste ‘accuse’ nasce da un’idea molto precisa di cosa sia lo Stato-nazione europeo: per queste persone, lo Stato-nazione europeo è un’istituzione naturale, frutto di un progresso e di un’evoluzione necessaria che ha consentito il benessere e la democrazia. Per questo, chiunque ne metta in discussione i confini e la stabilità è un nemico del progresso e della natura: non separerai ciò che iddio ha unito!

Si tratta di una posizione che può essere considerata ingenua, ignorante o in malafede: ingenua quando viene da chi non si è mai occupato dell’argomento e prende per buono ciò che ci viene (sottilmente ma con decisione) insegnato a scuola. Ignorante quando proviene da chi avrebbe un ruolo, quello di intellettuale, che dovrebbe consistere nel documentarsi, farsi delle domande e formulare dubbi più che certezze. In malafede quando viene da chi ha evidentemente le conoscenze, ma sceglie deliberatamente di sostenere una posizione anche al costo di nasconderne difetti e contraddizioni.

[Una precisazione: la maggior parte dei concetti qui contenuti (Europa, Stato, democrazia) sono utilizzati in maniera un po’ grossolana senza discostarsi molto dal modo in cui sono intesi nel senso comune. Così ho scelto di fare per brevità, ma voglio puntualizzare che non riconosco l’autorità degli Stati (semmai la subisco!), non credo che l’Europa sia molto più che una costruzione mentale e una (molto labile) definizione territoriale, e che la mia idea di libertà non corrisponde a quella della democrazia parlamentare né — a voler essere sottili — nemmeno a quella di ‘democrazia’, in quanto fondata sui concetti di demos e kratos nei quali non mi riconosco. Infine, tutto ciò che scrivo può essere commentato, criticato, glossato, rivisto e corretto: è un discorso, non una sentenza!]

Da persona nata e cresciuta in una terra colonizzata dallo Stato italiano non riterrei nemmeno necessario dovermi dilungare a giustificare il mio indipendentismo; ma sento la necessità di contrastare la violenza implicita nel discorso che, al contrario, giustifica il nazionalismo e il colonialismo degli Stati europei. Parlerò anche della questione spesso agitata e ripetuta come un mantra dello “stare uniti, abbattere i confini e non crearne di nuovi”.

Credo che sia importante però cominciare a trattare di come nascono gli Stati-nazione europei attuali. Mi riferisco con questa definizione agli Stati attuali di più antica formazione (Francia, Spagna, Italia, Germania, Regno Unito) tralasciando quelli di nuova formazione (come ad esempio quelli balcanici) e quelli più piccoli o relativamente meno problematici da questo punto di vista (come il Portogallo).

Un concetto molto chiaro per cominciare: nessuno Stato ha dei confini ‘naturali’ né, tantomeno, sono naturali quelli degli Stati che ho citato. Nemmeno uno Stato insulare come il Regno Unito ha dei confini che si possono considerare tali: basti pensare alla divisione dell’Irlanda, nella quale l’Ulster è stato mantenuto dagli inglesi solo in quanto territorio da essi più diffusamente colonizzato e popolato. Non è un confine naturale, ma solo la conseguenza di una prepotenza coloniale. Allo stesso modo la Francia, i cui confini sul territorio europeo sono più o meno gli stessi da secoli: al suo interno si trovano territori periferici che solo dopo un lungo periodo di ‘francesizzazione’ forzata possono oggi apparirci ‘naturalmente francesi’. Per passare all’Italia proprio attraverso, ad esempio, Nizza, città storicamente vicina al mondo italiano e di lingua italiana, ceduta dai Savoia alla Francia con un referendum fasullo in cambio del loro appoggio politico e militare; mentre una sorte inversa ha voluto che la Sardegna, dopo secoli di indipendenza seguiti da una (molto relativa) autonomia sotto l’impero spagnolo, si trovasse preda delle mire savoiarde e diventasse, suo malgrado, parte dell’Italia. Per non parlare del Sudtirol, autentica preda di guerra dell’Italia, con la quale non ha mai avuto nulla a cui spartire. Infine, la Spagna, che occupa la penisola iberica insieme al Portogallo: quale dovrebbe essere il confine naturale? Volendo usare la lingua come criterio, ci sono territori in portogallo che parlano una lingua più vicina al castigliano, e territori spagnoli, come la Galizia, più vicini al portoghese. Senza contare che la Spagna mantiene sulla costa africana due possedimenti (Ceuta e Melilla), mentre allo stesso tempo rivendica fortemente il possesso (!) di Gibilterra, colonia inglese nel Mediterraneo.

Questo lungo elenco non vuole essere tanto una recriminazione del passato (che pure non sarebbe sbagliata) ma una semplice constatazione di come i confini che oggi vengono riconosciuti siano totalmente arbitrari. Il processo di formazione dello Stato-nazione europeo è molto semplicemente quello di una élite centrale che, in un dato momento storico, ha saputo sfruttare le condizioni politiche per imporre il proprio controllo su un territorio ampio che, a posteriori, possiamo definire periferico. In tutti i casi si è trattato di una strategia su due fronti: da un lato, queste élite hanno approfittato dell’essere riconosciute (dalla Chiesa, dall’Impero, dalle altre potenze) come legittime dominatrici di un territorio, riuscendo quindi a concentrare risorse economiche — specialmente alleandosi con la nuova borghesia commerciale e industriale — e soprattutto militari. Dall’altro lato, sono riuscite a conquistare la fedeltà delle élite periferiche fornendo ruoli dirigenziali nel nuovo Stato, e allo stesso tempo, quella del popolo ponendosi come “liberatrici” dal gioco delle signorie locali. Così è stato, con diverse sfumature, in tutti i casi. Gli Stati-nazione più recenti (Germania e Italia) hanno tardato la propria costituzione proprio perché, trovandosi al ‘centro’ del sistema europeo, la chiusura dei confini ha richiesto molto più tempo e più risorse politiche ed economiche oltre che militari.

Niente di tutto questo ha a che fare con la visione romanzata di un popolo che si unisce per formare uno Stato basato su legami di sangue e di discendenza storica. Questa è, semmai, una forzatura necessaria a confortare l’idea — più teorica che pratica, appunto — della sovranità democratica, per cui ogni popolo governa il proprio territorio eleggendo i propri rappresentanti. La finzione propagandistica del ‘popolo’ unito al territorio da legami di sangue (il famoso blut und boden, sangue e suolo) serviva a inculcare nella cittadinanza una fedeltà cieca nei confronti di questo nuovo tipo di Stato, che a differenza di quelli precedenti, richiede molto di più alle persone che ne fanno parte: dal combattere “per la gloria della patria” al lavorare e produrre alacremente per “la ricchezza della nazione”. Cose che nei secoli precedenti nessuna persona avrebbe trovato minimamente ragionevoli: si combatteva per difendere sé stessi o la propria classe, o per soldi, e si lavorava per mangiare, di certo senza nessun entusiasmo per le tasse estorte dai vari potenti locali e meno locali.

Passando attraverso questo concetto di democrazia nazionale si arriva a un altro punto, cioè a un’altra contraddizione importante: se è ‘giusto’ e legittimo che ogni popolo si governi da solo, e se proprio questo giustifica l’esistenza stessa dello Stato nazionale europeo, per quale motivo un popolo, riconosciutosi come tale, non può aspirare legittimamente alla stessa cosa? Non è possibile giustificare la propria contrarietà alla autodeterminazione senza usare argomentazioni in definitiva nazionaliste. Non lo è, a maggior ragione, quando ci si trova di fronte a movimenti indipendentisti che sono tutto fuorché xenofobi, come quelli scozzesi, catalani, baschi, sardi. Nessuno di questi movimenti si basa sul concetto di ‘sangue e suolo’, né promuove un odio ‘etnico’ verso i cittadini dei paesi colonizzatori; semplicemente, si individua nel colonialismo un problema strutturale, non correggibile attraverso riforme (e del resto con quale faccia avremmo proposto alle colonie africane di rimanere colonie, ma un po’ meno?), e quindi nell’indipendenza una (seppur parziale) soluzione.

Si dice spesso poi, che l’indipendentismo sia una forma di chiusura. Al contrario, la chiusura consiste semmai nell’essere costretti a rapportarsi con uno Stato centrale che considera un territorio subalterno e periferico, mentre questo potrebbe, in autonomia, rapportarsi liberamente e in condizioni di (auspicata) parità con altri che possono apparire più utili o affini. Cito senza dilungarmi troppo il caso della Sardegna e delle sue esportazioni di prodotti locali, una fonte di ricchezza prosciugata dai litigi internazionali dei Savoia che non si preoccupavano di certo (anzi!) delle difficoltà della Sardegna. Vale anche la pena di sottolineare, a questo punto, che nell’indipendentismo non c’è una aspirazione a diventare una potenza: paesi relativamente piccoli riescono a districarsi nelle questioni internazionali anche senza avere ruoli da superpotenza. Essere considerati una colonia, un possedimento altrui, significa trovarsi a condividere scelte di politica interna ed esterna che possono essere, queste sì, davvero innaturali rispetto alle vocazioni di un territorio. Un’altra breve precisazione sui concetti di sovranità, autonomia, indipendenza: in questo momento storico nessuno Stato (ad eccezione, forse, di U.S.A. e Cina) possono considerarsi pienamente in controllo delle proprie decisioni. Sovranità, autonomia e indipendenza sono concetti sempre relativi, che come tutte le cose in campo internazionale vanno lette rispetto alla situazione concreta delle relazioni con le altre potenze e non in termini assoluti. Dopo le guerre “di indipendenza”, il regno italiano era comunque soggetto alle volontà delle potenze straniere che avevano favorito questo processo di conquista da parte dei Savoia. Ogni paese, ogni popolo, ogni territorio, ogni persona dipende dagli altri e dalle altre, ha i suoi spazi di autonomia che deve bilanciare con le esigenze di scambiare risorse e servizi. La questione, quindi, si pone come ‘stare da soli’ in quanto convinti della superiorità e potenza della propria razza: si pone semmai come la necessità di liberarsi dall’assoggettamento colonialista di uno stato centrale che reputa le periferie come strumenti di accrescimento di potere e ricchezza. Ed è evidente a ogni persona che queste stesse dinamiche potrebbero riprodursi anche all’interno del nuovo stato indipendente, così come l’indipendenza non è in sé uno strumento di liberazione dallo sfruttamento di classe e di genere. Quello che è certo, però, è che lo Stato-nazione è uno strumento dell’oppressione di classe, di genere e di razza.

Un’ultima cosa, infine, sull’Unione Europea: nessuno dei movimenti indipendentisti più importanti si considera anti-europeista. Tralasciando il fatto che non è necessariamente un male (dipende da quale sia l’aspetto dell’integrazione europea che si contesta), questo dovrebbe bastare — ma non basta di fronte all’ignoranza e alla malafede — a far tacere chi oppone l’UE agli indipendentismi. Vale forse la pena ricordare allora che il processo di integrazione europea, di fatto, non nasce per superare lo Stato-nazione ma, al contrario, per proteggerlo da sé stesso. Per fornire, in altre parole, una sede di conciliazione politica a ciò che per secoli era stato risolto con le armi — mentre le tensioni che capitalismo e nazionalismo creano si scaricano in altro modo, come guerra di classe o guerra imperialista fuori dal continente. Ma è necessario non farsi abbagliare dalla retorica dei “decenni di pace” e della identità europea (cosa che piace solo a Verhofstadt e ai fascisti, chissà come mai), e rendersi conto che l’Unione Europea si fonda sugli Stati-nazione. Tutta l’architettura e il progetto di integrazione — progetto costruito in modo intrinsecamente liberista — si reggono sull’organizzazione del territorio sulla base dei confini nazionali, e sullo Stato-nazione ‘di massa’ come modello di partecipazione politica. Se il potere fosse più vicino alle persone — come potrebbe accadere in un’ipotetica Europa federale post-nazionale — la governance elitaria entrerebbe in crisi profonda. Anche per questo l’Unione Europea non sostiene, anzi contrasta, alcun progetto indipendentista a meno che non favorisca e accresca il proprio potere (come nel caso della Scozia indipendente contrapposta all’Inghilterra della Brexit).

Le femministe non sono responsabili dell’educazione degli uomini

di Cecilia Winterfox

Sono una femminista rumorosa, con molti, amabili e intelligenti amici maschi, e mi imbatto spesso nella loro indignazione quando scelgo di non confrontarmi con loro sul femminismo. Oh, certo, se ci tenessi davvero a cambiare la nostra cultura di discriminazione e ineguaglianza, dovrei provare a cambiare gli uomini! Non è questo il lavoro di un’attivista? Le femministe non dovrebbero essere grate quando gli uomini ci rimbalzano le domande, perché mostrano di stare almeno provando a capire?

Veniamo estenuate e sviate dall’aspettativa che dobbiamo essere noi a dover spiegare cose basilari a uomini che non si sono mai scomodati a pensare al loro privilegio. Gli uomini non hanno il diritto di aspettarsi che siano le femministe a educarli. Il vero cambiamento arriverà quando gli uomini accetteranno che l’onere dell’educazione è su di loro, non sulle donne.

by Tatsuya Ishida

Poco tempo fa, ho gentilmente rifiutato di discutere con un amico: rimasto perplesso, ha insistito mandandomi alcuni consigli ben intenzionati sul come sarei potuta essere una femminista più efficace. Non avendo mai pensato molto al femminismo prima, disse, proprio non trovava i miei post sui social interessanti. Troppo urlati e accademici. Ciò di cui avevo bisogno era di spiegare le cose in un modo invitante per gli uomini.

Considerando sé stesso come il genere di tizio che ‘potrebbe essere parte della soluzione’, mi mandò opportunamente un link a un TEDtalk di 12 minuti che conteneva, parole sue, “un semplice test sì/no” per la misoginia insieme a delle proposte di azioni per risolvere il problema. Con notevole presunzione mi suggerì, per la prossima volta che mi venisse chiesto di educare un uomo sinceramente interessato a sapere di più sul femminismo, di mandare questo agile audiomessaggio che aveva appena trovato per me.

È impressionante che al 50% della popolazione venga così regolarmente richiesta una strategia di marketing per liberarsi dallo svantaggio strutturale e la violenza sistemica.

Ecco quale è il problema nel vedersi accollare il ruolo di tenere la manina di ogni singolo uomo, mentre scopre la possibilità che, nonostante il suo considerarsi buono e di oneste intenzioni, sia il beneficiario della oppressione strutturale verso le donne: fa veramente male. Il patriarcato colpisce le donne ogni giorno. Ma per quanto sia traumatico discutere la cultura dello stupro, per esempio, viviamo nella speranza che mostrando agli uomini quanto faccia male loro cominceranno a capire e diventeranno nostri alleati. Quando gli uomini sembrano interessarsi al discorso femminista, entra in azione questa speranza. Ma mentre loro possono giocare all’avvocato del diavolo, snocciolare ipotesi totalmente disconnesse dalla loro realtà e poi chiamarsene fuori alla fine, per le donne queste discussioni richiedono di esporsi ed essere vulnerabili; sono la condivisione della nostra concreta esperienza vissuta.

L’argomento più comune è: Se Non Mi Educhi Come Posso Imparare. Funziona così. Il sedicente Bravo Ragazzo si inserisce nella discussione con un sincero appello alle femministe perché si confrontino con le sue opinioni personali. Dopo aver superato a fatica il suo pungente disagio per l’atteggiamento acido, risentito e aggressivo delle femministe (ma non senza aver sottolineato questo suo sacrificio) Bravo Ragazzo è sconvolto dal fatto che le sue teorie non vengano discusse immediatamente e in maniera ragionevole e non arrabbiata. Nonostante le centinaia di risorse sull’argomento che potrebbe, come tutte noi, andarsi a leggere, Bravo Ragazzo si aspetta che le donne smettano di fare quello che stanno facendo, e condividano con lui le loro esperienze di oppressione e rispondano alle sue domande. Ironicamente, Bravo Ragazzo non si rende conto che chiedendo alle donne di usare le loro forze per gratificare immediatamente i suoi capricci, sta rinforzando le dinamiche di potere che dice di voler capire.

È ovvio che non c’è niente di male nell’avere delle semplici domande sul femminismo. Decifrare qualcosa di così complesso e insidioso come il patriarcato, in particolare quando richiede un’analisi del proprio stesso privilegio, non è facile. Ma diventa problematico quando sei così convinto che le tue domande siano COSÌ TANTO IMPORTANTI che fai di tutto per inserirti e deviare le discussioni tra femministe perché siano ascoltate.

Prendo in prestito l’analogia di un’altra donna:

“È come se entrassi nell’aula di un seminario di dottorato di matematica, urlando “Ehi, come potete usare numeri immaginari se non sono nemmeno reali?”. E ses qualcuna distrattamente ti indicasse un libro del primo anno, lo sfogliassi senza leggere per un paio di secondi e dicessi “non sono d’accordo con alcune di queste definizioni — e comunque non mi avete risposto. Nessuna vuole discutere con me?!!”

Questa incredulità è solitamente accompagnata da una sonora sgridata per essere state sarcastiche, irragionevoli, illogiche, ingrate e acide. Ora, come donna cresciuta sotto il patriarcato sono stata educata a reagire all’approvazione e alla stima degli uomini. Avendo sofferto le conseguenze della disapprovazione degli uomini, il conflitto è contro-intuitivo per me. È allettante l’idea di cedere al desiderio di essere riconosciute come femminista “buona” che prende del tempo per spiegare le cose in modo educato, divertente, brillante. Ma, colpo di scena!: il femminismo educato non solo non funziona, è veramente controproducente.

Spendere tempo ed energie a nutrire gli uomini nel loro viaggio di auto-scoperta non è solo incredibilmente inutile, ma serve proprio a rinforzare le dinamiche di potere esistenti e ci distrae dall’unirci come donne e portare avanti il vero cambiamento.

Il mio consiglio agli uomini che davvero voglio conoscere il femminismo è questo: leggete e ascoltare le voci delle donne quando spiegano cos’è la misoginia e come funziona. Non chiedete alle donne di trovare risorse per voi; seriamente, iscrivetevi alla biblioteca, o abbonatevi a internet. Non interrompete per controbattere o sviare usando esempi singoli di donne in posizioni di potere o citando situazioni che vi sembrano “sessismo inverso” (ecco una dritta: la “misandria” non esiste).

Parafrasando Audre Lorde:

“Quando ci si aspetta che le persone di colore mostrino ai bianchi la propria umanità, che le donne educhino gli uomini, che le lesbiche e i gay educhino il mondo eterosessuale, gli oppressori mantengono la loro posizione e fuggono dalla responsabilità per le loro azioni”.

Se fai parte di un gruppo che ha i vantaggi strutturali di stipendi, sicurezza, salute ed educazione — quando hai praticamente vinto la lotteria della vita solo essendo nato — è tua responsabilità educare te stesso. E davvero, non dire alle donne di essere gentili. Siamo arrabbiate. Ne abbiamo tutte le ragioni. Sinceramente, dovresti esserlo anche tu.

(traduzione mia — tratto dalla raccolta “No nacemos machos — Cinco ensayos sobre la masculinidad”, liberamente scaricabile qui https://edicioneslasocial.files.wordpress.com/2017/03/masculinidades-web.pdf)

Goodbye Pensioni

Goodbye Pensioni – la questione delle pensioni da un punto di vista ecologista

(scritto da Désobéissance Ecolo Paris e pubblicato su LundiMatin – seguite e sostenete)

La riforma delle pensioni vi dice: “dovrete lavorare più a lungo”. Quanto è assurdo, mentre gli accordi sul clima chiedono di ridurre drasticamente la produzione e dunque il tempo di lavoro? Ecco quindi un testo ecologista che propone piuttosto di estendere la pensione a tutto il resto della vita.

Nel 1995, quando la riforma Juppé venne respinta da uno sciopero generale, potevamo credere a un futuro sostenibile. Nel 2019, abbiamo la certezza che saremo nella merda. Il mondo è in ebollizione, tra disastro ecologico e insurrezioni generalizzate. Ci sembra difficile che un sistema pensionistico del 1945, che poggia sulla crescita economica e demografica, abbia qualche possibilità di funzionare negli anni a venire.

Bisogna uscire al più presto dal dibattito economico sulla durata del lavoro (destra) e l’aumento dei contributi (sinistra) per porre la questione ecologica della cura e dell’attenzione alla vecchiaia. Prima di tutto, non ci si occuperà mai al meglio delle nostre persone anziane se non liberiamo del tempo libero. E non libereremo il tempo libero senza sciopero, occupazioni, e trasformazioni profonde delle nostre condizioni di vita. Questo è l’obiettivo di questo testo di Désobéissance Ecolo Paris.

Ho orrore del tempo perso a portare un fardello

Prima di raggiungere quel famoso riposo che mi sarà concesso

[Casey, “Rêves illimités”]

NON CI SARÀ NESSUNA PENSIONE

Cosa pensare dell’idea stessa di “pensione”, quando ci viene ricordato ogni giorno che il mondo in cui viviamo sta crollando? Chi può pretendere oggi di guardare più in là di dieci anni, quando ogni rapporto dell’IPCC, ogni allerta degli scienziati, ogni notizia di incendi, di siccità, di inondazione o di insurrezione legata al prezzo del carburante ci annuncia anni difficili e rovesciamenti sociali ancora più frequenti?

Tutte le promesse di pensione cozzano con lo scetticismo di noi giovani1. Per la nostra generazione, una certezza è che la pensione non arriverà mai. Perché questo mondo non ci permetterà mai di andare in pensione. Basta vedere il Cile, l’Iran, Hong Kong, l’Algeria o la Francia nel dicembre 2018 per convincersene. La fine del mondo è forse più facile da immaginare che la fine del capitalismo, ma il capitalismo si disfa a vista d’occhio, e insieme a lui, la promessa di una vecchiaia in pensione.

La storia che ci è sempre stata raccontata sulle pensioni comincia dopo la seconda guerra mondiale, con l’instaurazione di “una pensione che permetta ai vecchi lavoratori di finire degnamente i loro giorni”2. Durante i “Trenta Gloriosi” (ndt: in Italia, il boom economico), la crescita economica e una demografia sostenuta assicurano ai pensionati una remunerazione vicina al loro stipendio in attività. Ma, a partire dal 1991, patatrac! Il “Libro bianco sulle pensioni” di Michel Rocard grida alla degradazione dell’equilibrio finanziario del sistema pensionistico, in un contesto dove la crescita rallenta fortemente, e la popolazione invecchia.

A partire da là, finisce il discorso sulla solidarietà con le persone anziane: si parla solo di diminuire il peso delle pensioni sul PIL. Ciò che chiamiamo ipocritamente “riforma delle pensioni” non è che una leva tra le altre per fare delle economie di bilancio, allo scopo di compensare il rallentamento della crescita. Come si fa su tutto ciò che è poco redditizio e costa caro, soprattutto quando ci si integra (poco) il fattore umano. Così la scuola, gli ospedali, i trasporti pubblici, l’agricoltura e, ovviamente, l’ecologia.

Ma c’è un qualcosa in più in questa riforma delle pensioni3: è il niente sulla questione ecologica. Il rapporto4 di Jean-Paul Delevoye, alto commissario alla riforma delle pensioni, evita con cura di parlarne, nonostante le persone anziane, per esempio, siano le più vulnerabili alle ondate di calore.

Se i dettagli della riforma Delevoye non sono ancora stabiliti, si sa già abbastanza per comprendere che questa riforma, come tutte le altre, è in contraddizione assoluta con le evidenze ecologiche. Non tanto nel suo contenuto, quanto nei suoi presupposti. Il rapporto Delevoye si fonda su previsioni di crescita economica di almeno 1% l’anno (p.116): questo significa la nostra morte ecologica5. Perché chi parla di crescita parla di produzione crescente di gas serra, estrattivismo, deforestazione, e devastazione degli ecosistemi6.

Ma se non c’è più crescita, meno denaro sarà prodotto e redistribuito. Allora, è assolutamente evidente che il sistema di Delevoye non sarà sufficiente a garantire il minimo vitale. Cercando in tutti i modi di evitare il ‘fallimento’ economico del sistema pensionistico francese (p.5), la riforma Delevoye non vede che il suo fallimento politico ed ecologico è scritto. La conclusione è semplice: o si rivedono radicalmente le basi della condivisione tra le generazioni, oppure si continua a correre verso il suicidio collettivo.

Nei punti essenziali, la critica delle misure predicate da Delevoye è già stata fatta e non ci torneremo7; basta leggere l’eccellente fumetto di Emma. La modifica della “età a tasso pieno” e il passaggio a una “pensione per punti” incita nel complesso le persone a lavorare più a lungo. Dunque a vedere la loro pensione ridursi drasticamente, poiché c’è tendenzialmente sempre meno lavoro8 (robotizzazione, automatizzazione, delocalizzazione, soppressione degli impieghi pubblici, che aumentano la disoccupazione strutturale in Europa). Gli impieghi rimasti sono sempre più precari, e i senior hanno maggiore difficoltà a trovarne.

E poi, che senso potrebbe avere lavorare di più, quando i ricavi di produttività ottenuti dopo due secoli avrebbero dovuto già liberarci dal lavoro? Si noterà l’assurdità nello spingere ancora le persone a “lavorare più a lungo” (Eduard Philippe9) quando tutti i rapporti scientifici indicano che si dovrebbe al contrario diminuire la produzione e lavorare di meno per preservare i nostri livelli di vita. Un rapporto del think tank Autonomy indica recentemente che “al ritmo attuale delle emissioni di carbone” dovremmo lavorare circa “9 ore a settimana per mantenere sotto la soglia critica dei 2°C di riscaldamento climatico”10. È la direzione inversa, ecologicamente insostenibile, che prende invece la riforma delle pensioni. Ci si propone di riformare le pensioni minando al tempo stesso le condizioni stesse di una pensione vivibile.

IN CHE MONDO PRETENDIAMO DI ANDARE IN PENSIONE?

Nella situazione in cui siamo, gli imperativi di bilancio sono secondari. Dobbiamo avere coraggio: ogni riforma politica contiene una scelta di vita. La scelta di vita contenuta nella riforma Delevoye è insopportabile: consiste nell’aggiungere al collasso ecologico in corso un collasso di ciò che resta delle solidarietà (sicuramente imperfette perché pensate su basi obsolete) del 20° secolo. Il rapporto Delevoye ci raccomanda in definitiva di condividere la scarsità. Una scarsità organizzata, perché dall’altra parte della barricata, i ricchi non sono mai stati tanto ricchi. Nel momento in cui abbiamo più bisogno di aiuto reciproco, di solidarietà, il governo propone l’individualismo e il si salvi chi può nel nome di economie di bilancio insensate.

Questo, in pratica, è il mondo nella testa di un Delevoye: farsi curare da una infermiera di 62 anni, trasportare da un ferroviere di 65 anni, salvare da un incendio da un pompiere di 64 anni, educare da una prof di 69 anni, ma farsi pestare da un celerino di 34 anni perché gli sbirri devono beneficiare dei soli regimi speciali che quel mondo conosce ancora11. Durante questo periodo, il mondo intero brucerà perché degli affaristi di 74 anni sfrutteranno fino in fondo tutto ciò che resta delle risorse naturali, finché ci sarà ancora tempo. Per noi, giovani, che navighiamo a vista nell’uberizzazione e nel precariato, ci sarà il mito della crescita verde e dell’economia di piattaforma. Più app, più video, più dati, più server, più scooter, più start-up di riciclo e contatori Linky12, che serviranno solo ad alimentare il controllo e la sorveglianza, e a “flessibilizzare” i mercati rendendo il lavoro più precario.

Rimane il fatto che coloro che contestano la riforma delle pensioni – la maggioranza delle organizzazioni sindacali e la sinistra – non sono in grado di immaginare un mondo differente. Discutono, alla fine, in un quadro economico e di bilancio molto simile a quello del governo13. Tutti o quasi cercano di “adattare” il sistema attuale14, ben pochi di rivedere le sue fondamenta. Dobbiamo rifiutare le regole del gioco della contestazione tradizionale.

Se dobbiamo fare il funerale del nostro sistema pensionistico, è per meglio immaginare come riappropriarsene e condividere le ricchezze. Delle ricchezze che non sono solo economiche. Il nostro sistema pensionistico attuale si limita a versare una pensione alle persone anziane dopo una certa età, come per ricompensarle di lasciarci in pace. Ma ci sono mille modi di prendersi cura delle persone anziane, e non tutte richiedono denaro. Dobbiamo imparare a stabilire solidarietà non economiche coi nostri anziani, che svolgono già diversi ruoli non remunerati che permettono il buon funzionamento dell’economia (come il loro volontariato o la cura dei figli in particolare). Le forme storiche della cura delle persone anziane sono tantissime nella storia e nella geografia: non c’è che da studiarle, discuterle, e migliorarle15. Più lo sciopero sarà lungo e partecipato, più avremo il tempo di rifletterci seriamente e democraticamente.

IN SCIOPERO FINO ALLA PENSIONE

La battaglia sulla riforma delle pensioni che comincia il 5 dicembre è una sfida grossa per le ecologiste francesi. C’è un’ecologismo rassegnato, o anche nichilista, che può lasciarsi andare a pensare che questa riforma non ci riguardi. Che andiamo in ogni caso verso la catastrofe. Che ci saranno troppi vecchi negli anni a venire, che in ogni caso “mangiano troppo”, che sia davvero necessario diminuire le pensioni. Alcuni arrivano a pensare che delle pensionate più povere consumerebbero meno, e che in fondo, non sarebbe male per la nostra impronta ecologica se una buona parte di questa classe di età che tanto inquina morisse prematuramente16.

Un ecologismo coerente non considera la demografia o la vecchiaia come un problema, quando è l’organizzazione capitalista della vita che rende questo mondo invivibile e ingiusto. Il mondo non è mai stato così “ricco” di denaro, di risorse, di energia come oggi: è la loro divisione che è mostruosamente ineguale. Ce n’è abbastanza per permettere delle condizioni di vita decenti e sostenibili per tutti prima di dover pensare a ridurre la popolazione o l’ammontare delle pensioni.

La battaglia delle pensioni è quindi l’occasione per dimostrare che sociale e popolare non sono che delle parole chiave da incollare ipocritamente a “ecologia” per smarcarsi da ogni solidarietà reale. È l’occasione di entrare in discussione con le basi sindacali, che sono le uniche a essere in grado di far decrescere davvero il nostro modo di produzione, perché hanno il vantaggio, rispetto agli ecologisti, di conoscere i loro strumenti di produzione e sanno come trasformarli. È l’occasione per l’ambientalismo di porre in modo innovativo la questione della vecchiaia, dell’aiuto reciproco, della cura, che sono le condizioni stesse di un mondo abitabile. In breve, l’occasione di avviare un autentico processo rivoluzionario.

Noi, improbabili pensionate del 2060, abbiamo dei genitori e dei nonni, delle vecchie amiche, che il loro lavoro usa e consuma da decenni. Conosciamo la fatica impressa sui loro volti, e sui loro corpi. Si batteranno per non dover più lavorare come schiave: la lotta per la loro pensione è una questione di sopravvivenza e dignità. Noi saremo dunque al loro fianco. Tutte le sorprese di questa riforma sono materia che produrrà un conflitto sociale possente, a meno di fermare il ritmo infermale di riforme una più oscena dell’altra, che non hanno altro obiettivo che di sottometterci a dei lavori assurdi.

Al contrario, dobbiamo liberare le condizioni di un tempo libero di massa, creativo e non devastatore, come quello di un grande numero di attività ecologiche: artigianato, permacultura, occupazione di terreni, ecoedilizia, cantine, associazioni di quartiere, case delle donne, corsi di lingua, trasmissione di saperi, riparazioni… Tutto un tessuto di solidarietà e di aiuto reciproco che sarà necessario per i tempi difficili che arriveranno, e che non avrà niente a che fare con obiettivi di crescita o equilibri di bilancio.

Una visione a lungo termine non deve quindi fermarsi al semplice ritiro della riforma delle pensioni. Non si tornerà più al sistema di protezione sociale del 1945 né a un contesto di crescita economica sostenuta. Bisogna dire addio alle pensioni come le abbiamo conosciute negli ultii 75 anni, quelle della socializzazione delle solidarietà sotto il controllo dello Stato. Ma dire goodbye alle pensioni, non significa accettare una regressione delle solidarietà. Significa rompere con l’idea di una vita di lavoro spesso assurda e debilitante che sarà coronata, alla fine, dalla “pensione”. Significa estendere l’idea di pensione o di sciopero alla vita intera, perché noi dovremo lavorare di meno e prenderci cura gli uni delle altre.

Bisogna seguire la via suggerita dai gilet gialli. Organizziamo delle Assemblee in tutto il paese per discutere del futuro, e prendere noi stessi le misure che servono. Requisiamo le fabbriche, i media, il cibo, le ricchezze e tutti i mezzi che saranno necessari per far durare lo sciopero finché altre forme di solidarietà con la vecchiaia saranno state stabilite, finché le emissioni di gas serra saranno drasticamente diminuite, finché non possiamo garantire alle giovani e ai vecchi un futuro degno di essere vissuto.

1Chi sta facendo la riforma è ben consapevole di questa sfiducia dei giovani. Nel suo editoriale per il dossier stampa del rapporto Delevoye, Agnès Buzyn dichiara: “È sufficiente chiedere a un* giovane in età attiva nel 2019 come immagina la propria pensione. Oscillando tra rassegnazione ironica e pessimismo scettico, la sua risposta non sarà meno chiara: ‘non avrò mai la pensione’. Bisogna dunque ridare fiducia” (p.3). Quello che colpisce è che la riforma Delevoye è proprio il contrario di ciò che bisognerebbe fare per “ridare fiducia”, perché si basa su una visione del mondo morta almeno dai 40 anni che la crisi ecologica è diventata un tema politico. Per leggere il dossier stampa: https://reforme-retraite.gouv.fr/IMG/pdf/dossier_de_presse_def_18_07_2019.pdf 

2Dal programma del Consiglio Nazionale della Resistenza: https://fr.wikisource.org/wiki/Programme_du_Conseil_national_de_la_R%C3%A9sistance.

3Per capire la riforma in sintesi, questo video ‘neutro’ di Brut è breve ed efficace: https://www.youtube.com/watch?v=HN0crZzkGSc

4Il rapporto di Jean-Paul Delevoye che contiene le sue indicazioni al governo per una riforma delle pensioni, pubblicato nel luglio 2019, è disponibile integralmente qui: https://reforme-retraite.gouv.fr/IMG/pdf/retraite_01-09_leger.pdf. Non vi consigliamo di leggerlo, è una pessima lettura.

5Il rapporto Delevoye pretende di rendere il sistema di pensione attuale “meno sensibile” alle variazioni della crescita. Significa che poggia ancora sull’idea che che la nostra economia sarà in crescita almeno fino al 2070, riprendendo “gli scenari attuali del Consiglio di orientamento delle pensioni” la cui “ipotesi di crescita economica a lungo termine è fissata all’1-1,8% verso il 2070”. (p.116). Sul legame tra crescita economica e crisi ecologica, vedere con il giusto distacco critico il video di Jancovici: “CO2 o PIL: bisogna scegliere” https://www.youtube.com/watch?v=h9SuWi_mtCM 

6Vedi il capitolo “Phagocène. Consommer à la planete” in L’événement anthropocène di Bonneuil et Fressoz.

7Leggere l’eccellente fumetto di Emma: https://emmaclit.com/2019/09/23/cest-quand-quon-arrete/  così come il sito del collettivo Nos Retraites https://reformedesretraites.fr/

8Non solo c’è sempre meno lavoro, ma il governo associa alla questione due riforme: da una parte quella delle pensioni, dall’altra quella dell’indennità di disoccupazione. Questa, rendendo più difficili le condizioni di accesso, diminuendo le indennità, instauranto la degressività delle allocazioni, accorciando le durate delle indennizzazioni, ha per vocazione quella di spingere ad accettare un lavoro qualunque sia e per qualunque tempo, senza sicurezza. Questa riforma è particolarmente legata al passaggio di un finanziamento per una cassa che raggruppa sindacati e padronato a un finanziamento per la Contribuzione Sociale Generale, guidata dallo Stato, mentre il sistema unico a punti vantato per la riforma delle pensioni darà ugualmente tutti i poteri allo Stato sulla sua gestione (vedi nel rapporto Delevoye, il capitolo ironicamente intitolato ‘Una governance innovativa’). Dietro queste due riforme apparentemente slegate, operano dunque le stesse logiche, con una ricentralizzazione della guida al livello statale, e dunque la certezza che gli imperativi di economia di bilancio guideranno la gestione del sistema, a scapito di ogni altra logica (solidarietà, dignità). Riforma delle pensioni e riforma dell’indennità di disoccupazione martellano lo stesso discorso: “bisogna lavorare sempre di più e più a lungo”. Non si capisce come si possa “lavorare di più” se non unendo contratti a chiamata con lavori informali (che non parteciperanno dunque al finanziamento delle nostre pensioni).

9Conferenza stampa del primo ministro Edouard Philippe, 12 settembre 2019: https://www.youtube.com/watch?v=HN0crZzkGSc

10La cifra è valida per il Regno Unito in particolare, ma i risultati sono simili per gli altri paesi OCSE. Qui il rapporto: http://autonomy.work/wp-content/uploads/2019/05/The-Ecological-Limits-of-Work-final.pdf e un riassunto in francese: https://www.cnews.fr/monde/2019-05-22/il-faudrait-travailler-seulement-9h-par-semaine-pour-contrer-le-rechauffement.

11Perché un celerino di 34 anni? Perché non si può toccare la pensione di un poliziotto che avrà molto lavoro repressivo da fare nei prossimi anni. Si leggerà con divertimento i passaggi assolutamente comici del rapporto Delevoye sulla polizia e l’esercito, a partire dalla pagina 64, che annunciano le difficoltà che il governo avrà a imporre la sua riforma: “Delle specificità potranno essere conservate per i funzionari che esercitano funzioni sovrane di ordine e sicurezza pubblica […] I poliziotti, i secondini e gli ingegneri di controllo della navigazione aerea potranno quindi andare in pensione a partire dai 52 anni”.

12Il contatore Linky è “un contatore intelligente che permette di pagare solo il consumo elettrico reale” (ndt)

13Il fatto che i sindacati si pongano sullo stesso piano del governo per discutere della gestione economica è sufficiente a spiegare questo strano fatto che entrambi soffrano della stessa sfiducia: “Secondo un sondaggio YouGov per l’Huffington Post, il 60% dei francesi non credono nel governo che ‘inizierà una larga concertazione prima di lanciare la sua riforma generale delle pensioni”. I sindacati sono sulla stessa cifra: il 55% esprime sfiducia nei loro confronti. Contano comunque di farsi sentire, con manifestazioni previste il 13, il 16, il 21 e il 24 settembre” (20 minutes, 5 settempre 2019).

14Si diceva ‘modernizzare’, ma oggi non si osa più! La riforma, secondo il rapporto Delevoye, cerca di migliorare “la capacità di adattamento [del nostro sistema di pensioni] con un obbligo di equilibrio finanziario, per assicurare alle generazioni future che il nostro sistema non sia in bancarotta” (p.5). Un punto sul quale si trova d’accordo con la frangia non rivoluzionaria di chi si oppone alla riforma.

15Si possono immaginare tantissimi modi di occuparsi delle persone anziane che non hanno niente a che fare con una pensione versata da una cassa pensionistica: cura della famiglia, dei vicini, della comunità, società di previdenza, mutue, ospizi, gratuità dei bisogni di base, ecc. È chiaramente più facile prendersi cura le une degli altri quando si ha del tempo libero; ma ovviamente, non ci sarà più la piena occupazione! Vedi, ad esempio, Histoire de la vieillesse en France, 1900-1960. Du vieillard au retraité di Elise Feller per constatare a che punto le forme di cura e di attenzione alle persone anziane si sono evolute rapidamente nella storia, e non sempre in meglio. Ricordiamo che 600 mila persone risiedono attualmente in case di cura in Francia, e che molte persone anziane vivono adesso nella depressione, la solitudine e la dipendenza, se non in una certa miseria economica. Non conta solo la speranza di vita, ma anche la qualità di vita.

16Gli studi basati solo sull’impronta ecologica danno linfa a questo ambientalismo nichilista, perché non prendono in considerazione le variabili sociali (i pensionati ‘inquinano’ di più.. perché sono più soli; i pensionati più ricchi inquinano più di quelli meno ricchi, e come in tutte le classi di età, è il livello di ricchezza il fattore più determinante) e le gerarchie economiche (chi possiede i mezzi di produzione? Chi decide i grandi orientamenti della nostra economia? Chi impone un mondo a energia fossile?)…