Skinhead revolt, punky reggae party: il reggae che attraversa l’Atlantico

Vista la ricorrenza dei 40 anni dalla morte di Bob Marley, volevo partecipare raccontando qualche cosa sul reggae.

In Italia, questa evoluzione del suono afrocaraibico arriva in coincidenza con l’affermazione internazionale di Marley e dei suoi Wailers (a parte i tentativi non riusciti di Peppino di Capri e Raffaella Carrà1); forse per questo motivo, nella cultura italiana e in generale quella europea continentale, il reggae è associato a un certo tipo di militanza politica e culturale di sinistra, legata alla marijuana, a una specie di terzomondismo, a un’estetica appariscente e un po’ fricchettona. Senza nulla togliere a questo percorso, la storia del reggae e della musica giamaicana in rapporto alla cultura bianca e occidentale è sicuramente più interessante se si parte da dove tutto è cominciato, ovvero da Londra.

Fin dal secondo dopoguerra, la capitale inglese è il centro europeo da cui si diffonde l’amore per la musica afroamericana: prima il jazz (tradizionale e moderno), poi il rock’n’roll, il soul e il filone giamaicano – calypso-ska-rocksteady-reggae-dub eccetera. Ognuno di questi stili ha avuto espressioni diverse nel Regno Unito, probabilmente anche a seconda della presenza fisica dei suoi protagonisti. Tra questi diversi stili afroamericani, infatti, quello giamaicano è l’unico che è arrivato a Londra non attraverso il canale delle importazioni più o meno clandestine, e dei militari statunitensi di stanza nell’isola, ma portato con sé dalla migrazione giamaicana a Londra. Se jazz e soul erano sicuramente apprezzati dalla gente afrodiscendente, ma più “di rimando”, il suono giamaicano viveva una parte considerevole della sua esistenza nella stessa Londra. Mentre gli hippies consumavano e si appropriavano del blues trasformandolo in quell’affare da bianchi che è stato il rock, nella quasi totale assenza degli afrodiscendenti, la gioventù bianca e operaia londinese si trovava quotidianamente fianco a fianco con la gente della Giamaica, al lavoro, in strada, e nei locali. Skinheads frequentavano i locali reggae nei quali l’accoglienza, tra l’altro, non era sempre la migliore – e del resto l’intreccio tra la working class bianca e quella nera non è mai stato perfettamente pacifico, un fatto che si può osservare proprio intorno al reggae.

Lo ska, predecessore del reggae, arriva quindi nella capitale inglese nei primi anni ‘60 grazie alla comunità giamaicana. Le ragazze e i ragazzi mod, sempre alla ricerca di sonorità ed estetiche nuove, non si fanno sfuggire la novità: il suono funziona e il modo di vestire delle cantanti e dei cantanti colpisce e viene subito imitato. In Giamaica ci si ispira al look delle star del soul, con il tocco in più dato dall’ambiente decisamente gangster nel quale lo ska si sviluppa. Questa musica, infatti, interpreta il rhythm’n’blues statunitense attraverso il calypso, il mento e la burra, stile propriamente malavitoso delle banlieues di Kingston. I testi delle canzoni, ancora poco influenzati dalla filosofia rastafariana che diventerà egemone negli anni ‘70, parlano di rapine, risse, scontri e sesso: tutto ciò che la gioventù operaia londinese non può non apprezzare e sentire proprio. Non mancano i dissing, cioè pezzi nei quali i cantanti/produttori si insultano a vicenda, anche perché in Giamaica la musica diventa questione di potere e politica: avere il soundsystem migliore (cioè: la musica migliore e l’attrezzatura migliore per farla sentire) significa attrarre le persone e convincerle. Intorno allo ska si sviluppa un sistema di denaro, criminalità e politica – che ovviamente sono sinonimi ma li disaggreghiamo solo per comodità. A Londra, giovani bianch3 e ner3 si scambiano droghe, relazioni e stile: i jeans stretti e corti, il cappello pork pie, la camicia portata con arroganza aperta sotto la giacca, le bretelle. Mentre una parte della generazione mod, quella che per censo o per fortuna era riuscita a entrare nell’alta società, diede vita al lusso della Swingin’ London, la parte working class decide di abbracciare definitivamente la cultura afroamericana e afrocaraibica, volgendosi verso i suoni e il look giamaicano insieme a quello Ivy League, che da simbolo dell’alta borghesia statunitense diventa emblema dello stile di strada inglese.

Verso la fine degli anni ‘60 ragazze e ragazzi skinhead girano per Londra, affollano gli stadi, si scontrano tra loro e con la polizia, e soprattutto si innamorano del reggae, la nuova evoluzione della musica giamaicana. Seguendo il percorso statunitense, infatti, lo ska si era trasformato in rocksteady, un suono più vellutato e dolce che rifletteva il soul, per poi sancire con il reggae la svolta del funk. La musica viene dalla Giamaica ma qualcosa si suona anche a Londra; alcune canzoni raccontano e celebrano il loro affezionato pubblico europeo con le camicie dai colletti altissimi e le teste più o meno rasate. Sono tanti i pezzi reggae che parlano degli skinheads e delle skinheads, che dal canto loro, a differenza dei mods, raramente suonano ma preferiscono ascoltare con ammirazione, facendo del reggae oltre che del soul la colonna sonora del loro doing nothing in giro per la città.

L’abbraccio fra la comunità giamaicana e la gioventù operaia inglese non dura però tantissimo: quando il rastafarianesimo diventa egemone nel reggae, e le canzoni cominciano a parlare sempre più di Africa, orgoglio nero, e liberazione, il pubblico bianco si sente escluso e progressivamente abbandona il reggae con una certa rabbia e amarezza2. Una parte degli skinheads comincerà a suonare, contribuendo a creare il mondo del glam e del pub rock3, e alcuni si faranno incantare dalle sirene del National Front, pronto a sfruttare una certa retorica suprematista bianca e maschilista latente nel movimento skinhead. Il reggae si ritira dall’orizzonte del pubblico bianco inglese – mentre l’Europa continentale, a parte forse qualche rara eccezione, continua semplicemente a non conoscerlo – anche se rimane colonna sonora delle rivolte contro il razzismo delle nuove generazioni afrodiscendenti inglesi durante tutti gli anni ‘70.

Johnny Rotten e Don Letts

Il ritorno in auge del reggae, e la sua affermazione in tutto l’Occidente, coincide con gli anni caotici della fine del decennio e l’esplosione del punk. La liberazione rastafariana, la netta divisione tra la Babylon corrotta e la terra promessa di Zion, questa visione così manichea si rivela, forse non tanto paradossalmente, complementare al nichilismo e la sensazione di fine del mondo interpretata dal punk4. Ancora una volta, anche se in modo diverso, la teppa bianca abbraccia quella nera: musicisti giamaicani celebrano questa amicizia, come lo stesso Marley che canta Punky reggae party, mentre a Londra si sviluppa il genere 2 Tone (che riprende l’estetica rude/skinhead e innesta lo ska con il punk) e gruppi come i Ruts oltre ai Clash – e poi i Police – si avventurano anche nel reggae più contemporaneo.

Se anche in Italia e nel resto dell’Europa continentale abbiamo conosciuto Marley e con lui tutto il reggae, non è quindi solo grazie alla sua grande capacità innovativa sia nei testi che nella musica, ma anche grazie a questo lungo connubio nato nei sotterranei delle due sponde di un impero coloniale che stava fortunatamente crollando, un connubio fatto di alti e bassi ma che rappresenta una pagina importante della cultura afroatlantica.

 

P.S. Per questa specie di racconto mi sono ispirato a diverse fonti che nel loro insieme raccontano questa storia molto meglio di me: i saggi di Dick Hebdige contenuti in “Rituali di resistenza”, e il libro dello stesso Hebdige “Sottocultura – il significato dello stile”, poi “Mods – l’anima e lo stile” di Paolo Hewitt, “Black Athlantic” di Paul Gilroy. La cosa migliore che potete fare è sentirvi le canzoni che ho linkato e cazzeggiare un po’ intorno a questi spunti 🙂

1In questo pezzo di Raffaella mi sembra si senta tantissimo la Funky Kingston di Toots & The Maytals e in generale una venatura molto funk (con tastiere e chitarre decisamente rock) che la rende forse più comprensibile al pubblico italiano.

2Pare che quando uscì “Young, gifted and black” di Bob & Marcia, gli skinheads cantassero “young, gifted and white”.. una cosa per niente apprezzata nei locali dove si suonava.

3Band come gli Slade e gli Ac/Dc vengono da questo ambiente.

4Vale la pena ricordare i Bad Brains, band afroamericana di Washington che dal jazz passò a uno stile che combinava un punk hardcore violento con il reggae e il dub.

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