What we do is secret – Libertà, partecipazione e parresia

Parresia: attività verbale nella quale il parlante esprime la sua personale relazione con la verità, e rischia la sua vita perché considera il dire-la-verità come un dovere per migliorare o aiutare gli altri e sé stesso. Nella parresia, il parlante usa la sua libertà e sceglie la franchezza invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della morte rispetto alla vita e alla sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e un dovere morale che contrasta l’interesse personale e l’apatia morale. (M. Foucault)

L’ideologia della divisione del lavoro ha portato a considerare la politica come un mestiere separato, un’attività che come tante altre compete agli specialisti. Non una “casta” – termine ridicolo – ma solo uno specifico mestiere, quello di amministrare le vite della gente, dato che si considera materia troppo complicata per chi deve pensare a lavorare e a produrre ricchezza. Così, un medico non ha il tempo di spiegare al paziente in che modo il farmaco contrasterà la sua malattia, e tanto meno di spiegare con chiarezza in cosa consiste la sua malattia. In verità, la maggior parte dei medici sono lieti, pronti e per certi versi tenuti alla massima chiarezza; ma è anche vero che se vado dal medico per una bronchite non ho grande interesse a conoscerne tutti gli aspetti e a discutere le priorità del mio corpo e gli effetti del farmaco: mi basta prendere la ricetta e andarmene. E’ lecito: si tratta di un rapporto spesso di fiducia, sorretto inoltre da protocolli universali che mi permettono di avere una certa tranquillità senza perdere tempo.

L’esempio del medico non è casuale, in quanto la politica, di fatto, si pone come medicina nei confronti di un territorio o di una popolazione ammalata; eternamente ammalata si potrebbe dire, dato che, se non si creassero i problemi, non sarebbe necessaria la politica. E, in effetti, si può dire che la politica contemporanea – in sintesi, la legittimità che sorregge gli Stati – si fonda, almeno nella nostra Europa, sull’idea che attraverso di essa il popolo si difende e dà una direzione all’aggressività senza limiti del capitale. Una malattia cronica da tenere sotto controllo. Questo, insieme al concetto dell’élite, è perfettamente coerente con il percorso delle democrazie nazionali di massa. Ma, c’è un “ma”.

Nonostante i nostri media cerchino continuamente di coinvolgerci emozionalmente in ogni singolo dramma di ogni privato cittadino della nazione, noi non viviamo a Cogne o ad Avetrana e, umanamente, non ci è possibile nulla più che dispiacerci e andare avanti. Perché non conoscevamo le persone, non possiamo fare nulla per impedire ciò che è accaduto – semplicemente la cosa non ci riguarda, e secondo logica, dovremmo essere informati su ogni singolo fatto di sangue nel mondo, e dolercene e passare le nostre giornate tra lacrime e raccapriccio. Ma questo “spingere” questo genere di notizie, oltre che ovviamente creare sensazione di paura e desiderio di sicurezza, serve a costruire un senso di comunità nazionale afflitta, di vivere nel quartiere italiano del villaggio globale, continuamente guardando fuori dalla finestra tremanti – senza alcuna possibilità di agire – mentre a casa nostra il rubinetto perde e il bambino gioca con i coltelli da macellaio.

In altre parole, questa sensazione artificiale di vivere in una grande comunità astorica – quando è evidente che i confini di una nazione sono del tutto storici e arbitrari e che non ha alcun senso preoccuparsi per i nostri “connazionali” di Sondrio e ignorare gli stranieri di Tirana, Helsinki, Vladivostok o Vanuatu – porta inevitabilmente alla necessità della delega del potere politico. Necessità ineluttabile e indiscutibile, a meno che non si pensi di poter fare ogni giorno assemblee con sessanta milioni di persone per decidere ogni cosa.

Ma non dimentichiamo: la nostra comunità, quella della città, è determinata sì storicamente, ma sicuramente molto meno arbitraria in teoria – la città è, esiste, non è “creata”, e sarebbe un artificio logico pensare che ad esempio Santa Maria sia una comunità a parte, perché è fisicamente legata, “attaccata” al resto della città, che è invece separata, ad esempio, da Birori. Certo, potremmo allargare il discorso e considerare come comunità la regione storia del Marghine, con i suoi rapporti intercittadini così intensi e le sue peculiarità storiche, naturali, culturali che la distinguono dalle altre. Ma restiamo all’idea di città, più comoda anche perché di fatto è unita da un’amministrazione unica in tutto il suo territorio, senza interferenze orizzontali di sovranità. Una città, quindi, abitata relativamente da poche persone, che riproduce però il meccanismo della delega come se fosse una nazione. Anche la città assume la divisione del lavoro, e considera troppo complessa, poco efficiente in definitiva, la pratica della discussione e della partecipazione diretta alle scelte.

Nella vecchia Atene, la parresia come concetto politico significava partecipare in modo trasparente, aperto, continuo alle decisioni della comunità. Continuo, perché la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa o si desidera veramente scaturisce necessariamente e solo dalla partecipazione assidua e costante. In concreto, significa passare due ore al giorno con i propri concittadini a parlare o quantomeno ascoltare il dibattito sulle scelte. Il meccanismo della delega ci è stato imposto, da un concetto organicistico e totalitario dello Stato, e ha costruito la sua legittimità contemporaneamente allo sviluppo economico e sociale, così da rendere necessaria, appunto la divisione del lavoro politico da quello economico e sociale. Perciò, in quest’ottica è difficile comprendere appieno il valore della partecipazione, che senz’altro, in una società organicista e divisa non sarebbe che un ostacolo all’efficienza. Già l’accento posto sull’efficienza (da cui discendono i vari pseudo-topos politici che animano la comunità nazionale: governabilità, deregulation, produttività..) evidenzia come la scelta della priorità sia, in fondo, puramente arbitraria: perché efficienza (massimo risultato con meno risorse possibile) e non efficacia (massimo risultato possibile)? Del resto non stiamo parlando di un detersivo per i piatti, stiamo parlando del concetto dei concetti, l’idea max-maxima: la nostra vita. Tutto dovrebbe essere incentrato su di essa, sulla sua qualità e sul dibattito intorno a ciò. Al contrario, è la nostra vita ad essere sacrificata in nome dell’efficienza santificata.

Diverso è invece il concetto di una comunità che si concepisce e prende coscienza di sé stessa come oppressa dallo Stato e dall’ideologia sviluppista, e nel farlo utilizza i propri strumenti per creare un metodo radicalmente opposto. Tra questi strumenti, c’è la possibilità che un Comune acceda a finanziamenti – che non sono un regalo: sono semplicemente minime percentuali del plusvalore creato dal lavoro – per perseguire le proprie finalità. In questo senso, il ruolo del politico eletto, nella parresia, è fornire alla propria comunità gli strumenti per il dibattito, imponendosi di seguire questo ideale di libertà della comunità e non la convenienza politica – il carrierismo tipico di ogni settore del lavoro, quindi anche della politica se così intesa. Invece di acchiappare al volo ogni genere di finanziamento, la politica dovrebbe – nei limiti del rispetto delle necessità concrete – creare la scintilla di un dibattito pubblico totale sulle priorità della comunità e sui mezzi per perseguirle. In particolare, indagare a fondo ed evidenziare di fronte alla comunità le conseguenze positive e negative di ogni scelta, nei termini non solo economici ma dei potenziali cambiamenti che la scelta stessa comporterà nella vita della comunità. Senza il timore di arrivare, alla fine, a scoprire l’esistenza quasi-fisica delle contraddizioni del modello di società nel quale viviamo; la scoperta può essere bruciante, può travolgere il fondamento stesso del sistema politico ed economico, ma è un rischio che il “vero” politico deve avere il coraggio di correre.

 

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