Per la mia laurea triennale avevo proposto alla relatrice un lavoro su femminismo e Islam o socialismo e Islam. Avevo scelto quella docente perché avevo fretta di concludere e lei mi sembrava la persona più adatta – cioè intelligente e poco propensa a bizantinismi universitari – e alla fine decido di fare una ricerca su socialismo e Islam. E meno male, perché allora non sarei stato sicuramente pronto per parlare di femminismo.
Nei primi tentativi di trovare sul web qualche idea tutto quello che mi si presenta riguarda il socialismo arabo di Nasser, Gheddafi, Saddam Hussein – o quasi. Colpisce la mia attenzione un certo Ali Shari’ati che a quanto pare aveva una sua idea di un rapporto molto stretto tra Corano e rivoluzione. Sembra interessante e provo a cercare di più, decido che la mia relazione sarà su di lui.
Ali Shari’ati nasce in Iran nel 1933 e muore a Londra nel 1977, poco prima della rivoluzione guidata da Khomeini. Un intellettuale difficile da inquadrare, appassionato dell’esistenzialismo – diventerà anche amico di Sartre – ma anche della poesia mistica di Rumi, radicalmente critico nei confronti dell’uso corrotto della religione, ma talmente convinto della sua fede da aver fatto della shi’a una ideologia rivoluzionaria. Shari’ati morirà troppo presto per vedere quello che succederà nel suo paese nel 1979, che difficilmente avrebbe approvato: troppo libertario – a modo suo, ovviamente – per accettare che il tanto odiato sistema dello Shah venisse sostituito da un regime che impone ottusamente una legge coranica.
Shari’ati era assolutamente convinto che ogni persona fedele è responsabile del proprio comportamento di fronte a Dio e non deve rispondere a nessuna autorità terrena; credeva anche che l’autonomia di scelta delle donne avesse un suo fondamento preciso nell’Islam e nei ruoli importanti assegnati a diverse donne come Aghar, la schiava nera di Abramo sepolta alla Mecca, o Fatima, la figlia di Maometto che definì “la manifestazione dei diritti degli oppressi” e “forte e chiara incarnazione della ricerca di giustizia”. In ogni caso, Shari’ati da sciita era fermamente convinto dell’ijtihad, la possibilità di innovare l’Islam a partire da interpretazioni indipendenti e attualizzate.
In generale, il suo pensiero era simile a quello della Teologia della Liberazione. Ma a differenza di questa, che parte dal riconoscimento della contraddizione tra la fede in un Dio d’amore e l’esistenza di un mondo di sofferenza, e crede che il messaggio cristiano debba essere fatto valere attraverso un’analisi e una lotta di tipo comunista (o marxista), Shari’ati trova nel messaggio divino stesso (il Corano, gli hadith del Profeta e le vite di Ali, Husayn e Abu Dharr) il fondamento (espresso in forma simbolica) della necessità (seppure non deterministica) della battaglia contro gli oppressori.
Ci sono ovviamente molti aspetti critici nella teoria di Shari’ati – più sicuramente di quelli che ero in grado di vedere 10 anni fa – ma l’importanza di quel lavoro, per me, è stato aver compreso il ruolo che l’immaginario ha nella lotta politica. Shari’ati era fermamente convinto che tutte le religioni monoteiste fossero nate come espressione di una rivolta – contro gli schiavisti egizi, contro la corruzione della Palestina e l’occupazione romana, contro le iniquità della società araba. E che l’uso di un immaginario di tipo religioso fosse utile a dare forza alle battaglie: “in nome del Dio dei diseredati” era la formula – poco consueta – con cui Shari’ati era solito cominciare le sue lezioni. La consapevolezza di avere Dio dalla propria parte era ciò che spingeva il popolo – al-nas, che attraverso questo nome si identifica con Dio – a ribellarsi e non accettare le ingiustizie. E a differenza del determinismo, per Shari’ati uno degli aspetti più problematici del marxismo, in questa versione coranica della rivoluzione le persone erano messe di fronte a una libera scelta: seguire la propria essenza più elevata – il soffio divino – e combattere l’oppressione, oppure assecondare il fango, la materia prima infima con la quale l’essere umano è stato modellato.
Tra le immagini più forti che Shari’ati propone ci sono quelle che sono, in effetti, il fondamento della shi’a. Questa corrente islamica nasce con il rifiuto da parte di Ali di consentire che la religione si normalizzasse e venisse dominata dall’aristocrazia: il “no” del genero di Maometto, marito della figlia Fatima, è l’inizio della battaglia della “famiglia del Profeta” che si conclude con un’altra immagine forte, quella che vede a Karbala il martirio di Husayn, figlio di Ali, che secondo la shi’a andò volontariamente incontro alla morte perché essa diventasse simbolo del riscatto.Quel giorno viene ricordato dalle persone che credono nella shi’a come la Ashura e viene celebrato con impressionanti processioni di contrizione collettiva. Ma Shari’ati contestava la celebrazione rituale svuotata di ogni significato e progettava il ritorno a una Shi’a rossa (religione del martirio, cioè della lotta politica) e l’abbandono della Shi’a nera (quella del lutto passivo): la sua chiamata risuonava “ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Karbala!”.
Questa parola araba, che indica il “no”, è utilizzata come simbolo dai movimenti anarchisti di lingua araba. Non so – non credo – che questa scelta sia legata al mito del “no” di Ali; ma per quanto riguarda me sono molto legato a questo simbolo, insieme alla mano di Fatima, perché rappresentano per me la scoperta della potenza dell’immaginario spirituale in ottica rivoluzionaria.