Maschio femminista (il primo della lista) – prima parte

In questi giorni ho ascoltato e visto alcune interviste e discussioni che hanno coinvolto uomini cisgender ed etero sul tema del femminismo, antisessismo e maschilità. Ho trovato diversi aspetti critici, sia in alcune delle cose che sono state dette, sia nel modo stesso in cui sono state impostate le discussioni, che mi sembrano potersi applicare, in generale, al modo in cui nel mainstream viene rappresentata la questione.

Sono molto combattuto nell’idea di esporre queste mie critiche, perché una parte di me mi dice che non è giusto dare addosso proprio a chi prova a impegnarsi su un tema così ostico e al tempo stesso così attuale, anche se nel farlo commette eventualmente degli errori. D’altra parte, però, proprio l’importanza della questione dovrebbe spingere a non sottovalutare i problemi che può creare un discorso se è fuorviante.

Mi ha colpito, innanzitutto, la facilità con la quale gli uomini intervistati si definiscano e vengano definiti femministi, non perché una parola più che un’altra debba essere considerata come sacra – e su di essa si debbano costruire dei discorsi di verità – ma perché riconoscere una persona, soprattutto un uomo, come femminista comporta un investimento di stima e fiducia che può essere mal riposta. Per meglio dire, presentare un uomo come femminista comporta una grande responsabilità, specie se le donne ma soprattutto altri uomini lo indicheranno come esempio.

La questione è ancora più problematica quando si nota che, spesso, la presa di posizione di un uomo contro il sessismo viene ammantata di così tanta meraviglia da far pensare che ogni volta sia la prima volta che succede. Questo crea un protagonismo maschile che finisce col creare un corto circuito: l’attivismo dell’uomo femminista, per superficiale che sia, diventa auto-referenziale, facendone una specie di portale della conoscenza, segui me e saprai. Quasi mai, nelle discussioni che ho ascoltato, vengono citati pensieri e pratiche di movimenti e intellettuali femministe. Viene riconosciuta, in qualche modo, l’importanza del contributo di “amiche, parenti o partner” nella nascita di una certa consapevolezza; si sottolinea, a volte, che “tutte queste cose che ci diciamo” sono state dette da femministe. Ma il fondamento di questo impegno, che viene annunciato in ogni occasione, è: servono gli uomini per parlare agli uomini.

È notevole che in questa affermazione si dia per scontato che, quando si parla di uomini, si intende maschi etero e cisgender, perché si riconosce (quasi giustificandola) una difficoltà a “capire” quello che dicono le femministe, che deve quindi essere razionalizzata da una mente maschile, e al tempo stesso si esclude implicitamente, ma categoricamente, che si possa imparare tanto dalle esperienze degli uomini gay, degli uomini e delle donne trans, delle esperienze drag queen e drag king. Cioè: uomini che amano altri uomini e persone che si pongono in maniera critica verso l’essere maschio, lo rifiutano, lo studiano, lo imitano, lo contaminano, lo smontano. Come si può pensare che tutto questo non sia utile a superare una maschilità che consideriamo problematica? Ma forse il punto è questo: la maschilità, in quanto tale, non è considerata problematica. È invece il centro della questione.

(fine prima parte)

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