Qualcosa su James Baldwin

James Baldwin era un uomo bellissimo. I suoi occhi, il suo sorriso, il suo modo di parlare mi rendono impossibile staccargli gli occhi di dosso. Ma riesco, questo sì, ad ascoltare le sue parole, che sono pure parte della sua bellezza. Baldwin è stato uno degli intellettuali più acuti e profondi del ‘900, le sue riflessioni così oneste e precise si intrecciano con il suo modo magnetico di pronunciarle.

Il documentario “I am not your negro” ci racconta Baldwin attraverso il suo rapporto con altre persone importanti nella storia degli afroamericani: Malcolm X, Martin Luther King, Medgar Evers, Lorraine Hansberry e altri. Ci sono diverse parti dei suoi discorsi nel documentario che credo siano illuminanti, a partire da questa:

“Quello che dovete guardare è ciò che sta accadendo in questo paese, e quello che sta davvero accadendo è che un fratello ha ucciso un fratello, sapendo che era suo fratello. Uomini bianchi hanno linciato dei Neri, sapendo che sono i loro figli. Donne bianche hanno fatto bruciare dei Neri, sapendo che sono i loro amanti. Non è un problema razziale. Il problema è se sei disponibile o no a guardare la tua vita ed esserne responsabile, e quindi cominciare a cambiarla. La grande casa occidentale da cui provengo è una casa, e io sono uno dei figli di quella casa. Semplicemente, sono il figlio più disprezzato di quella casa”.

Ci sono diversi livelli in questa breve citazione. C’è intanto una affermazione di appartenenza che nel rifiutare il segregazionismo e la volontà di “rimandare i Neri in Africa” – diffusa dai tempi dell’abolizione della schiavitù – esclude anche che il nuovo continente non possa essere la casa delle persone nere, un’idea che si è fatta strada nelle correnti afrocentriche ed essenzialiste. “My blood, my father’s blood, is in that soil”. Le persone prese in schiavitù hanno materialmente costruito la ricchezza degli Stati Uniti e, indipendentemente dalla volontà dei bianchi e di loro stessi, sono parte di quella storia: “il futuro del Nero in questo paese, è esattamente tanto luminoso o tanto oscuro quanto il futuro di questo paese”.

Baldwin ha lavorato molto per portare l’attenzione sulla miseria morale dell’Occidente, del quale colonialismo e razzismo istituzionale non sono che un sintomo. “Mi ha sempre colpito, in America, la povertà emozionale, così senza fine, e un terrore della vita umana, del tocco umano… Se gli americani non fossero così terrorizzati dal loro privato, non sarebbero diventati così dipendenti da ciò che chiamano “il problema del nero”… inventato per salvaguardare la loro purezza, li ha resi mostri e criminali, e li sta distruggendo. E questo non per qualcosa che i neri abbiano o non abbiano fatto, ma per il ruolo che un immaginario bianco colpevole e stritolato gli ha assegnato”. La questione posta da Baldwin è qualcosa che conosciamo anche dai discorsi dei femminismi: non si tratta di buona educazione ma di un problema strutturale della società. “Ciò che le persone bianche devono fare è cercare di scoprire, nei loro cuori, perché è stato necessario per loro avere il “negro”, perché io non sono un negro, sono un uomo. Ma se pensi che sono negro, significa che ne hai bisogno. Se io non sono il negro qui e sei tu che l’hai inventato, siete voi bianchi ad averlo inventato, allora dovete scoprire perché. E il futuro di questo paese dipende da questo, se sia o non sia capace di farsi questa domanda”.

Quello che Baldwin cerca di dirci, credo, è che se vogliamo combattere il razzismo dobbiamo prima di tutto chiedere a noi stessx che genere di persone vogliamo essere, che tipo di società vogliamo, la qualità di relazioni che desideriamo. Quello che Baldwin cerca di dirci, credo, è che non è tanto importante fare call out e scusarci indefinitamente, ma chiedere a noi stessx che genere di persone vogliamo essere, che tipo di società vogliamo, la qualità di relazioni che desideriamo.

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