Maschio femminista (il primo della lista) – seconda parte

(la prima parte qui)

Quando parlo di maschilità come un problema non mi riferisco al semplice ‘nascere’ in un corpo considerato maschile. Il maschilismo non nasce dalla genetica né da fantomatiche essenze innate: sono solo alcuni tratti corporali che ci inseriscono in un certo tipo di educazione e di ruolo. Questa non dovrebbe essere una novità: parafrasando Simone De Beauvoir, “non si nasce uomini”. Per essere riconosciuti come tali è necessario un lavoro di adesione a un modello più o meno standard, che comprende i caratteri sessuali secondari, il modo di parlare e di vestire, e anche un certo modo di relazionarti con il mondo, di ragionare, di desiderare.

Dal nostro punto di vista, il modo in cui storicamente la maschilità è stata ed è rappresentata fa parte di uno spettro di possibilità che ogni persona può esplorare, e che può essere in quanto tale oggetto di attrazione o desiderio: questo va detto per evitare di colpevolizzare chi si identifica in tutto o in parte nell’immaginario maschile o che ne è attratto – sono diverse, poi, le vie attraverso le quali ci si identifica o si desidera. Ma va anche detto che quello che noi chiamiamo “uomo” non esiste, come concetto, al di fuori di una gerarchia: «…non esiste alcun sesso. Esistono solo un sesso oppresso e un sesso oppressore. Ed è l’oppressione a creare il sesso; non il contrario […] Il primato della differenza è tanto strutturalmente costitutivo del nostro pensiero da impedirgli di operare quel ritorno riflessivo su di sé che sarebbe necessario per mettersi in questione e capire il fondamento su cui si basa.» (Monique Wittig, “La categoria di sesso”, qui).

È fuorviante, quindi, pensare una relazione “pacificata” tra i sessi, a meno di non farne un discorso di buona creanza che, implicitamente o meno, considera naturale che l’uomo, in quanto tale, esista e abbia il dovere di imparare a comportarsi bene. Ma se “gli uomini devono parlare agli uomini” non è possibile pensare di farlo al di fuori di quella complicità che si crea, da un lato, riconoscendosi come tali e cioè eterosessuali, in cerca o all’interno di una relazione monogama, in qualche modo lavoratori e cittadini perbene, e soprattutto, dall’altro lato, attraverso il modo stesso di affrontare la questione. La buona creanza, il comportarsi bene, fanno parte di un discorso che mira a razionalizzare i femminismi, allo stesso modo di una teoria scientifica la quale è confutabile e falsificabile; e per quanto pensieri e pratiche femministe siano sicuramente aperte alla possibilità di essere studiate, analizzate, criticate, non è sulla base della razionalità che si misura il loro valore.

Se così fosse, si dovrebbe pensare che i femminismi non sono che dei contributi che mirano a migliorare questa società, mentre sono al contrario proposte per un cambiamento radicale di essa. Razionalizzarli, normalizzarli apre spazi di manovra a quelle ideologie che, con le stesse armi – ma in maniera spudorata e furbesca – cercano di combatterli.

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