BDSM Apocalypse

Ho deciso di tradurre questo testo di Romain Noël perché mi sono ritrovato molto nel modo in cui è stato disteso. La sensazione che mi ha dato è quella di avere ascoltato il discorso di un amico, particolarmente ispirato alla fine di una festa, quando si finisce di bere quello che c’è e le menti sono un po’ vacue ma molto ricettive. La traduzione è stata un’esperienza bella, perché ho discusso con l’autore stesso alcuni passaggi e ho conosciuto meglio una persona che, già dal testo, mi sembrava quasi familiare; per me che leggo sempre velocemente, soffermarmi sui passaggi e le sfumature di un testo così ibrido è stato entusiasmante. Ringrazio tantissimo Romain Noël e come sempre Lundi Matin per le perle settimanali che ci regala, e per la disponibilità e l’amichevolezza con la quale rispondono alle mie traduzioni.

Qui il testo originale: https://lundi.am/BDSM-Apocalypse

Questo testo molto bello parla della nostra epoca, ovvero del triste antropocene, della fine di un mondo e della necessaria liquidazione dell’umano. Ci narra di una guerra affettiva, di un arte delle lacrime e del desiderio ardente di rendere le nostre malinconie dei portali aperti su mondi nuovi. Partendo dalla constatazione che i Lumi sono stati prima di tutto un progetto anti-affettivo, Romain Noël propone di ritornare alle ombre. Di affetto in affetto, il soggetto umano si oscura e si trasforma. Il futuro è nelle nostre mani: una storia da scrivere, una promessa da mantenere, una lotta da condurre, appassionatamente.

a Nadir, che mi ha saputo leggere quando non sapevo più scrivere

e a Loup, che mi ha parlato delle stelle1

“E se vi incagliate, se vi sentite vinte, e tristi, e immerse nel buio, allora spero che vi ricorderete che l’oscurità è la vostra casa, il posto dove vivete, il posto dove nessuna guerra si combatte, né si vince, dove il futuro vi aspetta. Le nostre radici sono nell’oscurità; la terra è la nostra casa.”2

I

Il fronte ecologico non è che uno dei tanti della guerra in corso. Lo dico pensando soprattutto al fronte decoloniale e queer. Se li guardiamo bene, ci accorgiamo che questi fronti hanno un punto in comune: il loro anti-umanesimo è un anticapitalismo. Antropocene, capitalocene, piantagionocene3: questi termini significano esattamente la stessa cosa. L’umano (anthropos) del quale parliamo è responsabile allo stesso tempo della catastrofe ecologica, della violenza coloniale e dell’economia che finanzia quella catastrofe e quella violenza, e da queste a sua volta finanziato. Il Soggetto dell’Antropocene è l’uomo bianco, eterosessuale, padrone di sé stesso e dell’universo; perché nella visione del mondo che lo guida, bisogna padroneggiare sé stessi per essere padroni di tutto il resto.

In un passaggio de La dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkheimer citano Nietzsche che a sua volta cita Aristotele: “La pietà è sospetta. Proprio come Sade, Nietzsche fa ricorso a una testimonianza poetica: ‘Dopo Aristotele, i Greci hanno sofferto spesso un eccesso di pietà: da lì il loro bisogno di liberarsi con la tragedia. Ora vediamo fino a che punto questo anelito gli sembrava sospetto: perché mette in pericolo lo Stato, indebolisce la durezza e la rigidità necessarie, e trasforma gli eroi in femmine urlanti’”4.

Capite dove voglio arrivare: a me piace che gli eroi si comportino come femmine urlanti. Amo le femmine urlanti. Amo essere io stesso, all’epoca dell’Antropocene, una femmina urlante. In realtà, non è solo lo Stato che viene messo in pericolo, ma l’Umano stesso in quanto macchina ontologica.

Nel tempo dell’Antropocene, le persone piangono. Sempre di più. Paul B. Preciado lo testimonia in una cronaca intitolata “Il pianeta muore, il mio corpo piange”5. In viaggio a Taipei (Taiwan), il filosofo piange così tanto da doversi nascondere in albergo per fuggire allo sguardo altrui. Dopo aver cercato la ragione delle sue lacrime, scrive: “I pianti nascono quando, nella distanza data dal viaggio, contemplo la morte che in quanto specie abbiamo seminato sul pianeta”. Come sottolinea lui stesso, è l’essere in viaggio che lo porta a provare questo diluvio di tristezza: “Il viaggio”, scrive, “spoglia il soggetto delle sue connotazioni culturali e lo getta nel mondo come un corpo vivente. Ed è il mio corpo vivente che, confrontandosi con la morte del pianeta, piange.” Quando Preciado si disfa della sua anima per essere solo un corpo, somiglia a quel pezzo di carne di cui Deleuze parla a proposito delle tavole di Bacon.

Qualche anno fa, ho chiamato transpassione l’esperienza per la quale una creatura di forma umana, di fronte a una sofferenza non-umana, piange e accede così a una zona di affettività dentro la quale rinuncia alla sua umanità, poiché l’umano è il Soggetto della stessa violenza che ha visto all’opera. Questa rinuncia, certo, non è altro che una promessa, di quelle che ci si fa da qualche parte nel silenzio del corpo. Ma le promesse contano tanto. Come i pianti. Come l’amicizia.

In “Shoot Canin” (da Testo Junkie), Preciado attraversa dolorosamente una serie di immagini di animali sofferenti o agonizzanti, per trovare finalmente rifugio nella persona della sua cana, scoprendo in essa né più né meno che “una soluzione canina a un problema cosmico”6. È esattamente la stessa cosa che gli succede a Taipei, ma in quel caso il veicolo della transpassione non è più un animale sofferente, bensì il pianeta stesso, e la soluzione al problema cosmico così formulato non è più il corpo amico di una piccola cana ma quello, tenero e colloso, di un raviolo ai funghi: “Sono quasi le 6. […] il mio corpo è sempre triste. Faccio mezz’ora di fila al Din Tai Fung ed è solo allora, quando introduco il primo dumpling nella bocca e la lingua entra in contatto con la massa tiepida della pasta di riso e della farcitura calda di funghi, che il mio corpo comincia a dimenticare quello che sa.” In entrambi i casi, la transpassione comincia con le lacrime, e si conclude con un’esperienza di consolazione sensibilmente materialista. La creatura transpassionata, alleggerita della sua umanità, trova conforto nel contatto con la materia, nell’incontro con l’altro, che questo sia una cana o un raviolo ai funghi.

L’esperienza descritta da Preciado è centrale e potrebbe davvero dare un senso all’apocalisse in corso. La parola “apocalisse” non deve spaventare: è solo un gioco per incassare i colpi della sorte, solo una storia che ci raccontiamo per nutrire le nostre lotte.

II

Nel tempo dell’Antropocene sta nascendo una sorta di arte delle lacrime. Avanzo l’ipotesi che questa arte delle lacrime sia, in realtà, un’arte della transpassione, cioè la scoperta, in sé e attraverso l’altro, di una zona di affettività dentro la quale la definizione storica dell’umano non può che sparire come neve al sole. Perché le lacrime sono davvero importanti, perché sono, oggi, il nervo della guerra che dobbiamo combattere. Le lacrime piangono l’estinzione delle specie animali e vegetali, rendendo possibile non tanto l’estinzione dell’umanità come specie, ma dell’umano come ricettacolo concettuale dell’ontologia bianca, mascolina, eterosessuale, coloniale e capitalista.

Sono tanti “paroloni”, lo so. Ma arriva un momento in cui le parole, anche grandi, devono essere dette. Perché, a ben guardare, sappiamo bene di cosa voglio parlare. Sappiamo di quali forze parlo quando pronuncio controvoglia la parola “umano”. Sappiamo anche che nel criticare questa parola non sto proponendo la distruzione del mondo. Sappiamo, infine, che il mondo senza l’umano non collasserà, ma al contrario si reinventerà, da qualche parte nell’ombra, là dove la materia desidera la materia, e dove questo desiderio è legge.

L’Antropocene è l’epoca in cui l’umano è diventato la principale forza geologica del pianeta. È molto difficile orientarsi nel corpo avvelenato di un mastodonte simile. L’antropocene è un vero pantano. È essenziale cercare di uscirne. Voglio dire: l’essenziale, nel tempo dell’Antropocene, è uscire dall’Antropocene. Un’altra parola si usa spesso per parlare del tempo in cui siamo. È la parola estinzione, che rappresenta questo fatto elementare: le cose spariscono, le vite si spengono. Non è facile orientarsi in questa penombra. L’antropologa australiana Deborah Bird Rose, una delle pioniere degli Extinction Studies, afferma che stiamo entrando nella “era della perdita” (era of loss)7. Ha talmente ragione che la maggior parte delle persone, leggendola, piange. Perché Rose mette il dito su una sacra verità. In altre parole: tocca dove fa più male.

Tuttavia, la singolarità della nostra situazione non ci deve portare all’amnesia. Il problema, quando diamo il nome a una nuova epoca geologica o identifichiamo una nuova era, è che diamo l’illusione di una rottura, di un tornante, mentre in realtà ciò che si produce sotto i nostri occhi è la conseguenza di un processo lungo. La sola vera rottura è quella affettiva. Per la prima volta, assistiamo a qualcosa come una globalizzazione della sofferenza. Possiamo dire della gente terrestre di oggi ciò che La Fontaine diceva degli animali malati di peste: “Non tutti morivano, ma tutti ne erano affetti”.

Le persone, in un futuro prossimo, piangeranno così tanto che le loro lacrime riunite minacceranno di sommergerle. Questa è l’apocalisse: un diluvio di lacrime che trasformano la terra in una vasta distesa di acqua salata. Piangendo, partecipiamo all’apocalisse. Ma le nostre lacrime somigliano alle lacrime d’Orfeo dopo l’estinzione di Euridice. Sono lacrime d’amore. Sono dei canti.

III

La crisi ambientale – nel suo versante apocalittico – ci appassiona. Ci attraversa e affligge. Ci spaventa. Ci estrania da noi stessi. Ci abita, ci possiede, ci spodesta. Ci aliena, ci altera. Nel tempo dell’estinzione, ogni sorta di esseri abitano in noi. Esseri visibili e invisibili. Animali, piante, batteri. Funghi, tanti funghi. Ma anche fantasmi, mostri, creature indescrivibili. Esseri appiccicosi, strani, incappucciati. Sì, nel tempo dell’estinzione, esseri di questo tipo si insediano sulle quelle terre non proprio accoglienti di ciò che abbiamo appreso a chiamare “l’umano”. Isabelle Stengers la chiama “l’intrusione di Gaia”. Da parte mia non sono sicuro di voler dare un nome tanto immenso a questa somma di cose minuscole: preferisco concentrarmi non tanto sull’identità di questo popolo appassionante, ma sulla trasformazione della mia identità davanti all’intrusione di questo popolo. È quello che chiamo l’esperienza della transpassione.

Tutti questi esseri che attraversano il mio corpo mi fanno vibrare. Ma la cosa più interessante non è questa. La cosa più interessante sono i modi in cui questa vibrazione si presenta, cioè le forme che prende la passione. Quando scopre l’esistenza di tutti questi esseri che lo attraversano, che lo passano da parte a parte e lo costituiscono, l’umano piange. Certo, ha anche paura. Ma ciò che conta di più, è che piange. Perché gli esseri che arrivano in lui sono esseri minacciati, a volte anche scomparsi o che stanno per scomparire. Sono spesso viventi che sembrano morti, o morti che sembrano viventi. È un’epoca complicata.

Ho incontrato un gruppo di esseri umani, qualche anno fa, che diceva di avere “i nervi fragili”, e lo rivendicavano. Quanta acqua è passata sotto i ponti da allora: e sembra che chiunque, oggi, abbia i nervi fragili, e che il collettivo stesso – quello che chiamiamo “umanità” – sia sul punto di condividere questa nervosità, come se fosse arrivato il momento della globalizzazione della fragilità.

IV

Il film Melancholia, di Lars von Trier, ci insegna che durante l’apocalisse una certa tonalità umorale si realizza in modo del tutto particolare. Questa tonalità è precisamente la malinconia. Contrariamente a quello che afferma Freud, la malinconia non è solo una questione di perdita o di lutto, ma prima di tutto di affetti oscuri e di torrenti di lacrime. La creatura malinconica sperimenta quella capacità negativa di cui parlava Keats, la capacità di “abitare le incertezze, i Misteri, i dubbi, senza accanirsi a cercare il fatto e la ragione”8. Ma in modo più generale, la malinconia ci rende specialisti della negatività.

In uno dei suoi quaderni, Kafka scrive che, poiché “il positivo ci è dato”, ora “resta da fare il negativo”. La creatura malinconica fa il negativo. Immergendosi nel negativo – cioè, soprattutto, nel dialogo con la morte, con i morti – si inventa un abito tutto nero che un giorno chiamerà il suo vestito della metamorfosi. In ragione di questa intimità con il negativo, la creatura malinconica si rivolge volentieri all’apocalisse. Le sue lacrime sono un diluvio apocalittico. Le sue lacrime sono un giudizio sul mondo così come l’umano l’ha fatto. Sono lacrime d’amore e di collera. Lacrime in rivolta. Lacrime in guerra.

Quando ho visto Melancholia per la prima volta, appena uscito nei cinema, sono stato letteralmente preso dalle vertigini verso la fine, quando Justine, che incarna la malinconia e si trova dunque naturalmente legata all’apocalisse, propone a suo nipote di costruire una capanna. È il momento chiave del film. Non tanto la capanna in quanto tale, che pure è magnifica, ma più semplicemente il fatto di voler costruire qualche cosa, all’ultimo momento, per contrastare con l’immaginazione la catastrofe così vicina. Più tardi, mi è sembrato di ritrovare l’esatto equivalente di questa scena in una lettera di Walter Benjamin a Gretel Adorno. In questa lettera, Benjamin racconta un sogno che gira intorno a una frase misteriosa “Si tratta di cambiare una poesia in un fazzoletto”9. Quando gli è stato assegnato il premio Adorno, Derrida ha tenuto una conferenza su questa frase. Il fazzoletto in francese è “fichu”, un pezzo di stoffa col quale ci si può coprire la testa, dunque una specie di velo protettivo. Ma “fichu” è anche ciò che è votato alla morte, a una fine ineluttabile. Dire “c’est fichu” significa dire che è finito, fottuto, che non c’è più niente da fare. Quando cambiamo la poesia in “fichu”, cambiamo anche il “fichu” in poesia. I due processi sono per così dire inseparabili. Quando Justine e suo nipote costruiscono questa capanna di cui parlavo sopra, cambiano il fichu in poesia e la poesia in fichu. Quello che appare qui, è semplicemente che l’apocalisse è una poesia, che la poesia è apocalittica, che il mondo non smette di finire e, finendo, di reinventarsi nel cuore dei cicli d’ombra formati dal desiderio. La creatura malinconica eccelle in questo piccolo gioco. Perché sì, è un gioco. È davvero un piccolo gioco.

Ciò che Justine e Benjamin mi hanno permesso di capire, è che l’apocalisse si gioca, si performa. Oggi, credo che potremmo essere sul punto di performare qualcosa di assolutamente stupefacente. Nel pianto collettivo, a poco a poco comprendiamo che queste lacrime potrebbero essere allo stesso tempo il veicolo dell’apocalisse, e la sua soluzione. Sarebbe a dire: la poesia e il fichu, la catastrofe e la capanna. Per questo ho deciso di parteggiare, in me e per me prima di tutto, per una apocalisse affettiva.

V

Amo molto i testi che si possono mettere in tasca, come un anello o come un accendino. In questo caso, ho pensato a un testo come una sorta di memorandum o vademecum per tempi difficili. Memorandum significa: cose che non bisognerebbe dimenticare. Vade Mecum: cose che bisognerebbe portare con sé. I due messi insieme potrebbero significare qualcosa come: non dimenticate di portare in tasca le idee, le immagini e le leggende che qui provo a mettere insieme. Potrebbero esserci utili. Apocalisse. Affetto. Malinconia. Arte delle lacrime. Transpassione. Rivolta. Endarkenment. Abisso. In un futuro prossimo, queste parole, in un modo o nell’altro, ci uniranno. E ce ne saranno delle altre. Altre cospirazioni, come direbbe Loup.

È proprio per questo che mi viene da descrivere la malinconia come una società segreta. Ma non è un fatto, è solo una finzione da mettersi in tasca. La creatura malinconica si unisce a una banda di congiurati, che si riuniscono nell’ombra per piangere. Sono esseri fragili. Creature patetiche. Di quelle che l’Umano probabilmente sterminerebbe. Ancora quelle “femmine urlanti” di cui parlavo sopra. Bagnandosi coi suoi simili nell’ombra e nelle lacrime, la creatura malinconica prepara qualcosa, ma anche e soprattutto lavora a un’altra cosa. A volte, questo bagnarsi prende forme sorprendenti, come una festa, una manifestazione, un gruppo di sostegno, un bicchiere bevuto la sera in una qualche rada oscura e tenera. Credo che mi sarebbe piaciuto, quand’ero più giovane, se qualcunoa mi avesse parlato di questa società segreta. Credo anche che mi sarebbe piaciuto se me l’avesse descritta come profondamente queer, profondamente nera, e anche profondamente non-umana. Avrei voluto che me ne parlassero. Magari non mi avrebbe fatto risparmiare tempo, ma forse mi avrebbe permesso di sentirmi meno solo, affettivamente. Meno solo nella mia tristezza. Meno solo nella mia rivolta. Meno solo anche nel mio desiderio. Meno solo nella teoria, nella pratica, nel pensiero, nella vita.

Se vi dico tutto questo qui e ora, è perché tutto ciò è direttamente collegato all’Antropocene: alla distruzione, alla destituzione dell’Antropocene. Da tempo sogno un’armata di creature malinconiche, e oggi, questo sogno sta diventando realtà.

VI

In questi ultimi tempi, si cita spesso la frase attribuita a Slavoj Zizek o Frederic Jameson da Mark Fisher, che afferma che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”10. Personalmente, credo che siamo sempre di più, oggi, a produrre apocalissi dentro le quali la fine del mondo è proprio la fine del capitalismo.

Mark Fisher nota peraltro che “il fallimento del futuro ossessiona il capitalismo”. Praticando l’apocalisse, le creature malinconiche convocano questi spettri e si mettono in loro ascolto. Con il loro aiuto, riapriranno il futuro distruggendo il capitalismo, e distruggeranno il capitalismo riaprendo il futuro. L’Antropocene è il momento perfetto per intessere un tessuto d’amicizia con questi spettri. Proprio perché il fallimento del futuro è diventato così tanto grande ed evidente, a trovarsi “fuori dai gangheri” non è più il tempo, come in Shakespeare (the time is out of joints), ma bensì il capitalismo stesso.

A un certo momento, ho creduto fosse giusto rinnegare l’apocalisse, con il timore che questo concetto potesse fare spaventare la gente. Solo più tardi ho capito che il mio era un errore di giudizio. Alla fine, credo che quello che serve sia impegnarsi sul terreno dell’apocalisse. Inventare la propria apocalisse. Farsi (a proprio modo, con le amiche e gli amici delle amiche) bestie dell’apocalisse. Certo, non si tratta di spaventare la gente, o di farsi venire i brividi, ma di raccontare le storie che il nostro corpo reclama, che il nostro cuore aspetta.

L’Antropocene è il nome di una guerra che ha come oggetto precisamente questo sforzo di immaginazione e di riorganizzazione del mondo che chiamiamo “apocalisse”. Dobbiamo partecipare a questa guerra. Dobbiamo prendere posizione sulle sue concezioni. Dobbiamo anche, in modo molto pragmatico, approfittare di questa guerra per farla finita con l’umano stesso nella sua versione eurocentrica (e di cui l’Antropocene è l’espressione culminante11). In questa direzione devono tendere i nostri sforzi teorici, estetici e critici. Organizzare l’apocalisse. Descrivere la vita che vogliamo. Battersi per questa vita. Il subcomandante Marcos ha detto un giorno “Se la tua rivoluzione non sa ballare, allora non invitarmi alla tua rivoluzione”. Dobbiamo dire la stessa cosa dell’apocalisse: se la tua apocalisse non sa ballare, non invitarmi alla tua apocalisse.

Racconto una storia. È una storia di affetti. L’apocalisse è un tempo iper-affettivo. Questa affettività potrebbe essere la nostra occasione. Mi piacciono tanto i momenti in cui siamo a torso nudo e tu mi insegni a ballare.

VII

Il pensiero più in voga oggi, riguardo l’Antropocene, è quello che osserva la crisi ecologica attraverso il prisma dell’azione. Secondo questo pensiero, bisogna superare l’opposizione tra il soggetto e l’oggetto e riconoscere l’agency, cioè l’agentività, la “potenza di agire”, come dice Latour12, delle creature non-umane, che siano animate o inanimate. È una buona strada che non bisogna abbandonare, per non ritrovarci ancora, senza volerlo, nell’opposizione dalla quale cerchiamo di uscire. Ma quello che voglio dire è che bisogna fare attenzione a questa categoria dell’azione, e che non bisogna fidarsi dell’impoteramento che pretende di operare. Come sottolinea l’arte delle lacrime di cui parlavo sopra, la lezione del nostro tempo è anche, e forse soprattutto, che stiamo soffrendo. Non basta rianimare la vecchia natura o dotarla di nuove qualità positive, come l’azione; bisogna anche che l’anthropos, l’umano, apprenda a soffrire. Ma cercate di capirmi bene: non parlo di una sofferenza espiatoria, anche se non nego che dobbiamo pagare per i nostri crimini o per quelli dei nostri padri. La sofferenza di cui parlo è di un’altra natura. È una sofferenza elementare e quasi cosmologica. Perché, in effetti, se ogni cosa è legata a ogni altra, se tutto si incastra ovunque, allora tutto soffre tutto, nel senso minimo del senso soffrire: sentire, subire, provare l’altro.

Una doppia rivelazione, dunque. Realizziamo che tutti gli esseri che compongono ciò che chiamiamo “Natura” sono degli agenti, degli attori, delle persone che agiscono, che inventano forme, ecc. Ma parallelamente, ci viene rivelato un altro sapere: che tutti gli esseri che compongono ciò che chiamiamo “l’Umano” o “l’Umanità” sono dei pazienti, dei passanti*, sono persone che soffrono, subiscono, patiscono, che sono prese della passione. Nella zona di affettività, il mondo rivela la sua verità, quella di essere un vero passino*. Tutto ci passa attraverso. Per questo, oggi, tutto sembra un disastro.

Appare allora, nel tempo dell’Antropocene, il desiderio crescente di raggiungere una zona situata al di là delle opposizioni binarie che costituiscono il mondo come ci è stato lasciato. Una zona situata al di là o al di qua di queste opposizioni, o forse in mezzo ai termini che le compongono. Si tratta di certo dell’opposizione tra natura e cultura, ma anche di quella tra soggetto e oggetto, tra umano e non-umano, tra dentro e fuori, e così fino a comprendere tutte le opposizioni del mondo. Attraverso i nostri occhi bagnati di lacrime, ci appare una zona interstiziale. E iniziamo a pensare che ci si vivrebbe bene. È la parte di rivelazione dell’apocalisse che si performa in questo momento, e alla quale dovremmo proprio partecipare.

Il nostro tempo somiglia a una telenovela, dove si passa da un colpo di scena all’altro. Il nostro mondo non smette di crollare. Passiamo da una pena all’altra. Abbiamo gli occhi sempre rossi e spalancati. Ci sembra di avere le allucinazioni. Ma da una catastrofe all’altra, di rivelazione in rivelazione, capiamo che tutto questo non è che un gioco, e che possiamo cambiarne le regole. Come in una buona telenovela, basta saper giocare. Come ricorda Foucault: “Bisogna […] pensare che ciò che esiste è lungi dal riempire tutti gli spazi possibili. Porre una vera sfida inaggirabile sulla questione: a cosa si può giocare, e come inventare un gioco?”13

VIII

Timothy Morton, per definire il mondo così come rivelato dal pensiero ecologista, usa il termine inglese mesh, che significa “aggrovigliare”, “intrecciare”. Haraway, invece. ha inventato lo Chthulucene, che è un anti-Antropocene davvero incantato, incantatore, come del resto è lei, Queen Donna. Da ogni parte si comincia a parlare di legami. Ci accorgiamo di avere legami con ogni genere di cose e ogni genere di persone. Possono essere legami d’amore. Ma chi ha conosciuto l’amore sa per certo che più si ama e più si soffre. L’amore condanna al piacere e alla sofferenza.

Se ci si mette ad amare le piante, gli alberi, le stelle, i batteri, vivere sarà impossibile. Voglio dire: vivere come umano diventerà impossibile. Perché la violenza che colpisce le creature che amiamo ci devasterà. Più creiamo legami con i non-umani, più aumenta la nostra sofferenza. Ma credo che proprio quella sofferenza sia la soluzione. Le nostre lacrime sono una benedizione. Soffrire non è un problema. Il solo problema è il capitalismo. Meglio ancora: è l’umano in quanto Soggetto del capitalismo. L’umano fa male. È una costatazione puramente tecnica. Tecnicamente, l’umano fa male. Io sono umano: faccio male, vado male, sono male. Ma questo punto è proprio la nostra ancora di salvezza. L’umano va così male che si sta trasformando. È da un sapere come questo che nasce l’espressione “sciogliersi in lacrime”. La creatura che piange assomiglia al burro fuso o a un golem d’argilla. Tenera e molle, quasi liquida, nelle condizioni migliori per trasformarsi.

La malinconia ci parla di questo fin dall’inizio: andare male significa cominciare a trasformarsi. La tristezza è lo strumento della muta. Piangere significa straripare verso le cose alle quali siamo affezionati. Oggi, noi straripiamo da tutti i lati, per i nostri legami, sempre più stretti, con una quantità di cose sulla terra e forse più in là. Parlavo sopra di telenovela, ma in realtà la nostra esistenza sembra sempre più un film porno indipendente, categoria cosmic bondage, intotolato Earthbound Bitches Apocalypse14. Sarebbe il film più triste e più gioioso di sempre. Migliaia di creature lo stanno girando in questo stesso momento, senza necessariamente esserne consapevoli.

Le creature che recitano in questo film non sono né del tutto attive, né del tutto passive, né del tutto agenti né del tutto pazienti. Sono solo delle creature che hanno dei corpi, solo dei corpi che sono legati ad altri corpi e che di fatto sono toccati da questi altri corpi e li toccano a loro volta. La pulsazione multipla del mondo trova la sua origine in una zona in cui queste opposizioni non esistono, in un livello sofferente e possente della passione. Aveva ragione Keats, nell’Endymion, quando ci invitava “ogni mattino, [a intrecciare] una ghirlanda di fiori / per legarci meglio alla terra”15. Queste ghirlande sono dei legami. Questi legami sono corde BDSM. Per ogni ghirlanda che intrecciamo, ci sorprendiamo a soffrire prima e godere dopo. È questo il miracolo in corso.

IX

La Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer è il libro centrale della teoria critica. In quel libro ho conosciuto le “femmine urlanti che mettono in pericolo lo Stato”. Torno ora su quel libro, perché ci fornisce un sapere del quale non abbiamo ancora preso le misure. In francese, abbiamo tradotto Aufklärung con “Ragione”, mentre il termine tedesco è l’esatto equivalente dell’Enlightenment inglese o dei Lumi francesi. Come se la traduttrice non avesse voluto ammettere – forse per semplici ragioni editoriali – che il libro si scaglia proprio contro le colonne dell’universalismo repubblicano francese. È come se in Francia potessimo prendercela con la “Ragione”, ma non con i “Lumi”, per fingere di non vedere il cielo cascare sulla nostra testa. Il vero colpo di Adorno e Horkheimer è avere capito, e averci fatto capire, che il progetto dei Lumi è un progetto affettivo o, per la precisione: anti-affettivo. La dominazione comincia con l’impassibilità. La padronanza degli altri e del mondo comincia con la padronanza di sé. Il vero Soggetto dei Lumi è il “maschio freddo e impassibile”, la cui “freddezza borghese” si è formata sul modello della “apatia stoica”. Da qui deriva che “l’idolo della società è il viso maschile dai tratti regolari e segnati dalla nobiltà”16.

Non so se lo avete notato, ma nella parola “impassibile” si nasconde la parola “passione”. Il maschio freddo e impassibile di cui parliamo qui, è l’uomo senza passione, l’uomo che agita, comanda, padroneggia, ma non soffre, non soffre più; l’uomo convinto che la sua dignità esiga che lui esca definitivamente dal cerchio della sofferenza. Solo la natura e le creature che le sono affiliate soffrono. Ecco perché, dal punto di vista della Ragione, queste creature meritano di soffrire, meritano di essere sfruttate, dominate, torturate, oppresse. Ed è proprio al livello di questa violenza che la Ragione trova il suo compimento.

Bisogna quindi prendere Adorno e Horkheimer alla lettera, quando scrivono che “la ragione progredisce senza pietà”17: la ragione è un processo spietato, un processo letteralmente disaffezionato o, meglio ancora: anti-affettivo. Il sapere non sfugge a questo processo. Ancora oggi, il pensatore compiuto prende la forma di un uomo padrone di sé stesso, il cui pensiero padroneggiato si tiene a debita distanza dal pathos che, se venisse a contatto, potrebbe corromperlo.

Mi è stato detto un giorno che avevo un “rapporto patologico con la composizione”. Nel momento in cui quelle parole furono pronunciate, non sembravano affatto un complimento, tradivano piuttosto una profonda esasperazione per la mia difficoltà a mettere ordine nel mio pensiero. Tuttavia, ora conservo quelle parole dentro di me come un tesoro. Io ho un rapporto patologico con la composizione. Ed è una cosa meravigliosa. Il pathos mi lega a ciò che compongo. O meglio ancora: io stesso sono un pathos che cerca di comporsi con il mondo e con sé stesso. Certo, questo complica di molto le cose, quando si tratta di scrivere, di produrre, di capitalizzare. Ma credo che questo genere di complicazioni possa essere invece un’occasione.

E comunque la Dialettica dell’Illuminismo resta in definitiva – ed di questo non abbiamo ancora piena consapevolezza – un libro sulla pietà. Per l’uomo toccato dalla luce della Ragione, “la pietà è sospetta”. Peggio ancora: è pericolosa. La pietà mette la Ragione in pericolo, e con lei tutto l’edificio umano: il progresso, il sapere positivo, la produzione capitalista, la dominazione del mondo, gettando la sua ombra calda e molle sul marmo freddo dei Lumi. Ma quello che qui chiamiamo “pietà” non è quello che crediamo. Se la pietà è sospetta, è perché non corrisponde, in realtà, a ciò che gli uomini hanno tentato di screditare con il nome di pietà. A essere sospetta, qui, è la stessa zona di affettività, all’interno della quale le forme si affezionano e gli affetti prendono forma. Sospetta, qui, è questa elementare plasticità, e i legami che suscita.

Lo scopo ultimo della teoria critica di Adorno e Horkheimer consiste quindi nel trovare “la formula del riscatto che sciolga il cuore di pietra dell’infinità alla fine dei tempi”18. Sciogliere alla fine dei tempi il cuore di pietra dell’eternità, è quello che tento di fare quando parlo di transpassione, di femmine urlanti o di apocalisse BDSM. Perché sciogliere un cuore di pietra, significa commuoverlo, dargli affetto, farlo fondere. In lacrime.

In questo mondo dominato dalla Ragione, “la terra intera testimonia la gloria dell’uomo”19. Questa gloria, oggi, si compie sotto il nome di Antropocene. Dal punto di vista della Ragione e dei Lumi, un punto di vista spietato, quello è un vero titolo nobiliare. Ma per fortuna oggi l’Antropocene non può presentarsi come un progetto positivo. Se della ragione è il culmine, ne è anche la catastrofe. I padroni impassibili cominciano a sudare freddo. Perché l’apocalisse in corso segna il ritorno dell’affettività che l’umano pensava di avere sconfitto.

X

Credo che farsi carico di questa affettività – ascoltarla, comprenderla, farla crescere – sia una sfida all’altezza dei nostri tempi. Ma per farlo dobbiamo passare dalla luce all’oscurità. Non significa diffondere il caos sulla terra (in effetti, il caos è già sulla terra) ma semmai proporre un progetto alternativo a quello dei Lumi, al fine di neutralizzare l’anthropos che dà il nome all’Antropocene. Ai Lumi della ragione, preferisco le Ombre dell’affetto. Alla fredda padronanza dell’Enlightenment, oppongo il pathos dell’Endarkenment. Forse sono un illuminato, ma la mia illuminazione è un oscuramento. Certo, è una finzione. Il mondo è senza soluzione.

Contro una definizione luminosa e bianca dell’umano, della quale conosciamo la pretesa di universalità, il processo di oscuramento consiste invece nel discendere nell’ombra, proprio nelle caverne dove l’umano ha rifiutato, scacciato, imprigionato tutte le categorie che giudicava indegne di lui. Esplorando queste caverne, ritrovando queste categorie decadute, siamo in grado di scongiurare le opposizioni binarie che strutturano il nostro mondo. Perché l’Endarkenment è un progetto luciferino. Lucifero, etimologicamente, è colui che porta la luce. Il suo corpo è oscuro come l’interno della terra. Ma quel corpo porta la luce. La vera luce non si oppone all’ombra. Ombra e luce viaggiano attraverso i mondi come due amiche che, sedute nella loro stanza, passano la notte a discutere, fomentano ridendo improbabili rivoluzioni, si perdono dentro mondi immaginari, e alla fine si addormentano senza rendersene conto, stanche di felicità.

All’inizio di questo testo, ho identificato tre fronti che mi sembravano essere quelli della guerra in corso: decoloniale/razziale, queer, ecologista. Il progetto critico che chiamo Endarkenment si situa all’intersezione di questi fronti lavorati dall’oscurità. Timothy Morton teorizza l’ecologia scura (dark ecology)20, Zach Blas esplora l’oscurità queer (queer darkness)21, i Black Studies investono il campo apocalittico per ripensare l’umano, ecc. Dappertutto, si comincia a capire che non è vano, come faceva Starhawk, “sognare l’oscuro”. Ma soprattutto, si comincia a capire che la questione dell’oscuro è una questione affettiva, e che le zone oscure che esploriamo corrispondono anche e soprattutto a zone di affettività22.

L’Endarkenment è un progetto critico ed estetico. Mette in campo risorse formali, pratica la performance, ma si ostina a discendere sempre più in basso, sempre più verso il buio, per scongiurare consapevolmente la maledizione contenuta nel nome stesso dell’umano. Come lo Stalker di Tarkovski, l’Endarkenment non cerca altro che “la felicità per tutti, gratis!”. Perché il progetto demoniaco che si fa largo su questo terreno sensibile è, in realtà, un progetto eudemonista23.

L’Antropocene non è che l’ultimo capitolo di una storia già molto lunga. Non parlo della storia delle creature che oggi raggruppiamo sotto il nome di umanità, ma della storia della Ragione. Non parlo della storia dei corpi che abitiamo, ma della storia dei Lumi che hanno cercato di disaffezionare questo corpo. La transpassione, della quale parlavo sopra, è un’esperienza patetica. Vi si scopre una zona di affettività che ignoravamo o che credevamo sparita. Perché l’esperienza della transpassione è al cuore del progetto critico che chiamo oggi Endarkenment.

Un altro mondo comincia a partire dalla transpassione. È un mondo che ho già cominciato a descrivere. Si chiama Infamia*, perché è un mondo scuro e senza bagliori. Un mondo in cui la terra intera non è testimone della gloria dell’uomo, ma dell’importanza della passione. Un mondo in cui i nomi positivi cadono come mosche e si mettono a turbinare nel vuoto, come nelle poesie che ami tanto e dove dici che il desiderio è possibile.

Una guerra è in corso, e dovrebbe essere prima di tutto una guerra affettiva. Non è esattamente una guerra sulla pietà, come diceva Derrida ne L’animale che dunque sono. Più che una guerra sulla passione, è sulla transpassione, su quella zona di affettività all’interno della quale ci svestiamo della nostra “umanità” per cambiare il mondo. L’Antropocene è un patocene. Il patocene è un anticapitalismo. Alcuni diranno che queste cose non portano a niente. Personalmente, preferisco dire che quel niente è già qualcosa, e che bisogna andarci.

Romain Noël

Illustrazioni: Youri Johnson

1Questo testo è stato inizialmente pubblicato nel secondo numero di Klima Magazine, nell’ottobre 2018. Per ragioni editoriali, alcuni paragrafi erano stati tagliati. Lo pubblichiamo oggi nella sua versione originale.

2Ursula K. Le Guin, “A Left Handed Commencement Address” (1983), in Dancing at the Edge of the World: Thoughts on Words, Women, Places (1989): “I hope you live without the need to dominate, and without the need to be dominated. […] And when you fail, and are defeated, and in pain, and in the dark, then I hope you will remember that darkness is your country, where you live, where no wars are fought, no wars are won, but where the future is.Our roots are in the dark; the earth is our country.”

4Theodor Adorno e Max Horkheimer, “La dialettica dell’illuminismo”.

6Paul B. Preciado, “Testo tossico”

7Deborah Bird Rose, Thom van Dooren & Matthew Chrulew (ed.), Extinction Studies : Stories of Time Death, and Generations, New York, Columbia University Press, 2017.

8John Keats, “Lettere sulla poesia”

9Walter Benjamin, sogno dell’11-12 ottobre 1939.

10Marc Fisher, “Realismo capitalista”

11A questo proposito, l’affermazione per cui “l’Antropocene è eurocentrico” è tautologica, come quando il dio della bibbia dice “sono colui che è” (non solo una tauitologia, ma anche una menzogna). Sotto le sue false arie di universalità, l’anthropos non si compie se non nell’esistenza padroneggiata, nella figura impassibile dell’uomo europeo: è la proiezione concettuale di quell’uomo.

12Bruno Latour, “La sfida di Gaia: il nuovo regime climatico”

*Non sono riuscito a trovare dei termini che rendessero con la stessa immediatezza il legame che “passeur” e “passeoire” hanno tra loro e, passando in italiano, con paziente, pathos, passione, passare nel senso di portare da un posto all’altro, da un mondo all’altro, e anche nel senso di attraversare in modo significativo un luogo o una situazione (passare la nottata, passare la montagna). Ho usato “passante” (= che opera un passaggio) e “passino” (= colino) per mantenere la coerenza dei suoni e il richiamo del concetto di “pathos”, sperando che sia efficace.

14“L’Apocalisse delle cagne terrestri”

15John Keats, “Endymion”

16Theodor Adorno & Max Horkheimer, “La dialettica dell’illuminismo”

17Ibid.

18Ibid.

19Ibid.

20Timothy Morton, Dark ecology:for a logic of future coexistence, New York, Columbia University Press

21Zach Blas, « Queer Darkness », in Carolin Wiedemann, Soenke Zehle (dir.), Depletion Design : A Glossary of Network Ecologies, Amsterdam, Institute of Network Cultures, 2012, p.127-132.

22È precisamente ciò che manca, secondo me, buona parte di quel pensiero che si ritrova sotto il nome di “realismo speculativo”. È una questione sulla quale tornerò.

23Dal greco antico εὐδαιμονισμός, eudaimonismos (“augurio di felicità”) derivato da εὐδαίμων, eudaímôn («buon genio»).

*Romain Noël utilizza “Infamia” non solo nel senso della “fama compromessa”, ma anche in quello – meno immediato – che deriva dalla radice del termine: “fama”, dal greco “pheme” (voce) legato a “phanai”, parlare: quindi l’infame come persona senza voce, che non ha storia o la cui storia non deve essere raccontata. L’accezione precisa, come mi ha spiegato, è quella che Michel Foucault ha usato nel suo progetto “La vita degli uomini infami”, raccontato su “Materiali Foucaultiani”. In questa utopia infame, però, c’è anche un qualcosa di infimo: sporco, basso, scuro. Ringrazio tantissimo l’autore per il chiarimento!

 

Comments are closed.