Queering the Dancefloor: tempo, spazio e corpi in discoteca

Torniamo con un’altra traduzione, sempre a proposito della Disco. In questo caso, l’autore parte da un punto di vista situato negli Stati Uniti, in un saggio che copre tantissimi aspetti della cultura Disco, riflettendo sul modo in cui la Disco era concretamente vissuta. Quello che è più interessante, dal mio punto di vista, è l’accento sulla dimensione orizzontale di questo fenomeno, il fatto che sia basato fortemente sulla relazione tra le persone. Nella pista da ballo le persone non si rapportano in quanto coppie o potenziali coppie, ma come individui che, tuttavia, non sono a(u)tomizzati ma in costante relazione di comunità. La direzione verticale che caratterizza la musica europea (la gerarchia che vede in cima la sacralità dell’opera, poi la genialità e capacità tecnica dell’artista, e in fondo il pubblico, il cui ruolo è solo quello di assistere con devozione) viene sovvertita in una scena dove tutti gli elementi – la musica, la figura del o della DJ, le persone sulla pista da ballo – sono tutti fondamentali. Una delle caratteristiche fondamentali della musica afroamericana è l’importanza data alla performance piuttosto che alla perfezione assoluta dell’esecuzione: questo deriva sia dalla filosofia africana importata dalle persone schiavizzate nel continente americano, sia dalla reazione di queste alle condizioni materiali di sfruttamento e disumanizzazione alle quali venivano sottoposte.

La risignificazione degli spazi, dei tempi, degli strumenti musicali, della fisicità stessa del/la musicista e della persona che riceve la musica, sono parte della cultura afroamericana e che ritroviamo anche nelle culture che da essa derivano e nelle quali il “discorso” del blues e del jazz continua nelle sue varie forme.

Il titolo originale del saggio di Tim Lawrence è “Disco and the Queering of the Dancefloor”, e si può trovare sul suo sito ufficiale qui: https://www.timlawrence.info/articles2/2013/7/16/disco-and-the-queering-of-the-dance-floor-in-queer-adventures-in-cultural-studies-a-special-issue-guest-edited-by-angela-mcrobbie-cultural-studies-25-2-2011-230-243

Quando pensiamo alla Disco, di solito la associamo a un immaginario molto commerciale e reazionario, come lo Studio 54 e Saturday Night Fever. Tuttavia, il movimento che li ha preceduti, resistendo a queste articolazioni in un suo percorso parallelo, era queer nel suo rifiuto sia della normatività straight che di quella gay. Le radici queer della cultura disco stanno nella base sessualmente mista delle feste private di New York e delle discoteche pubbliche, che sono l’argomento principale di questo articolo. Terremo in considerazione quattro aree chiave della queerità: la rottura operata dalla Disco con il tradizionale ballo di coppia come base della danza sociale, e il riposizionamento queer del corpo danzante come luogo di intensità affettive che consolida una forma di socialità collettiva; la pratica messa in atto da* DJ di attraversare i generi e creare un set musicale in accordo con la gente che ballava; la costruzione del suono della disco music, e in particolare la sua componente polimorfa; e l’esperienza alternativa del tempo e dello spazio sul dancefloor, così come l’impatto destabilizzante della gamma di tecnologie usate. In questa analisi saranno importanti i lavori di Gilles Deleuze, Félix Guattari, Richard Dyer e Jack Halberstam. L’articolo si conclude con un’analisi della reazione politicizzata contro la Disco alla fine degli anni 70.

Parole chiave: disco; queer; musica dance; ballo sociale; eterosessualità

Come possiamo analizzare la relazione tra la sessualità e la pista da ballo nella cultura Disco degli anni 70, una cultura spesso ridicolizzata, ma che per molti aspetti è stata progressista e continua ad avere un’influenza sull’attualità grazie alle sue innovazioni nelle pratiche di DJ, remix, ballo e sound system*? È diventato di senso comune leggere la Disco come la sede di un conflitto binario tra gay e etero: che la Disco sia emersa come continuazione della Ribellione di Stonewall nel giugno del 1969 e si sia dispiegata come sottocultura soprattutto gay maschile; che il movimento venne in seguito cooptato, mercificato e addomesticato da film come Saturday Night Fever (1977), che lo imposero come luogo privilegiato dell’approccio etero; e che gli eccessi commerciali dovuti al successo del film sfociarono in una reazione apertamente omofoba verso la latente gayness che veniva percepita1. Piuttosto che ripetere questa narrativa, però, voglio parlare dei modi in cui le concezioni dominanti di sessualità non rendono conto appieno del fenomeno della Disco, e cercherò di dimostrare che le condizioni che hanno contribuito a creare il dancefloor degli anni 70 hanno rivelato il potenziale queer della disco – ovvero il potenziale di un’esperienza sociale e affettiva del corpo che eccedeva le concezioni normative della sessualità gay ed etero. Nell’analisi che segue, mi riferirò alle pratiche realizzate negli Stati Uniti, in particolare nel centro di New York, dove la queerness della disco era più marcata, sebbene la Disco abbia di certo avuto un respiro internazionale. Per affermare la significatività queer della Disco, è necessario notare che i balli sociali che hanno preceduto la Disco – il Waltz, il Foxtrot, il Lindy Hop (o Jitterbug), il Texas Tommy e il Twist – erano, pur se in misure diverse, patriarcali ed eterosessisti. Questa affermazione può sembrare un po’ rozza e sbrigativa, ma bisogna ricordare che per partecipare a quei balli era richiesto l’accompagnamento di partner del sesso opposto, e che in questa situazione la guida maschile era di fatto data per scontata. Non per questo, però, erano irrimediabilmente conservatrici. Intanto perché le regole dell’ideologia di genere le disciplinavano né più né meno di quanto facessero con l’ambiente sociale nel quale esistevano, e nei balli sociali queste norme, oltre che imposte, potevano anche essere sfidate. Come hanno notato storiche della danza come Katrina Hazzard-Gordon (1990) e Marshall e Jean Stearns (1994), le danze popolari fornirono alle comunità afroamericane una ragione per riunirsi e per canalizzare la propria espressività, mentre le poco studiate culture del drag ball, che risalgono alla Harlem Renaissance, sfidavano apertamente ruoli e significanti di genere2. Col tempo, questi balli permisero di aumentare sempre più lo spazio fisico tra la coppia che ballava, consentendo alla parte femminile di essere più indipendente dalla guida maschile. Tuttavia, ancora alla vigilia degli anni 70, prima della svolta che si sarebbe poi definita Disco, la crescente autonomia della donna nei balli come il Twist continuò a essere moderata dal ruolo sempre maschile di guardiano del dancefloor. E anche se agli uomini gay veniva concesso di saltare la fila all’entrata di locali come Arthur (una discoteca di Manhattan di mentalità relativamente aperta) perché si riteneva portassero vivacità sul dancefloor, una volta dentro potevano starci solo all’interno di una modalità strettamente di coppia eterosessuale, e le stesse restrizioni erano applicate alle donne lesbiche. Arthur chiuse nel giugno 1969 non perché Stonewall rese queste pratiche arcaiche, ma perché la passione per le discoteche degli anni ’60 era ormai passata. In questo momento storico particolare, le pratiche del dancefloor non avevano ancora risentito delle lotte dell’attivismo femminista e queer. Ma invece di scomparire del tutto, il ballo sociale prese una nuova forma all’inizio degli anni ’70 con l’emergere più o meno simultaneo di due locali molto influenti. In uno di questi, David Mancuso tenne la prima di una lunga serie di feste private che divennero famose come “il Loft” nel suo appartamento vicino a Houston Street, il gioron di San Valentino. Nell’altro, due imprenditori gay noti come Seymour e Shelley, molto influenti nella scena dei bar gay del Greenwich Village, acquistarono un insulso locale etero chiamato il Sanctuary che si trovava nel quartiere di Hell’s Kitchen a Manhattan. Questi locali contribuirono insieme a forgiare un tipo di relazione tra DJ (o ‘ospite musicale’, come preferiva dire Mancuso) e pubblico ancora oggi fondamentale nelle pratiche della cultura di ballo contemporanea. E sebbene gli uomini gay fossero una presenza maggioritaria importante sia al Loft che al Sanctuary, le persone che partecipavano (inclusi coloro che si autodefinivano uomini gay) non li consideravano locali gay. Il Loft metteva insieme diversi elementi: la tradizione del rent party che risaliva alla Harlem degli anni 20; la vita nei loft del centro di New York, che emerse tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60 quando l’industria leggera cominciò a spostarsi fuori città; lo sviluppo delle tecnologie audio, che seguirono l’introduzione dello stereo alla fine degli anni ’50; le feste sperimentali con la LSD di Timothy Leary; e i movimenti gay, antirazzisti, femministi e contro la guerra con i quali Mancuso aveva cominciato a identificarsi nella seconda metà degli anni ’60. Mancuso, cresciuto in un orfanotrofio a nord di New York, era abituato alle famiglie estese e instabili, e portò questa visione nelle sue feste, che attraevano una notevole proporzione di uomini gay neri, così come di donne etero e lesbiche. ‘Nessuno controllava la tua sessualità o la tua razza all’ingresso’, dice Mancuso. ‘È solo che conoscevo gente di ogni tipo’3. Poiché il Loft era gestito come una festa privata, Mancuso avrebbe potuto farne un evento esclusivamente gay maschile, ma scelse di non farlo. ‘Non era una festa nera né una festa gay’, aggiunge. ‘C’era un misto di persone diverse. Divine era tra queste. In che categoria la metteresti?’. Anche il Sanctuary era irriducibilmente eterogeneo. ‘C’era una miscela incredibile di persone’, ricorda Jorge La Torre, ballerino gay. ‘C’erano persone vestite di diamanti e pelliccia, e c’erano i ragazzi più marci dell’East Village. Tante persone etero lo ritenevano il posto più fico della città, e c’erano decisamente tante donne perché al tempo era una cosa abbastanza normale’ (perché uomini gay come La Torre avevano spesso relazioni sessuali con donne etero). ‘Direi che fin dall’inizio le donne erano almeno il 25 per cento, forse anche di più. C’erano persone di ogni estrazione culturale e percorso di vita, e questo è ciò che ha reso il posto ciò che era’. Per Seymour e Shelley sarebbe stato molto difficile, anche se lo avessero voluto, trasformare il Sanctuary in una discoteca esclusivamente gay. Per prima cosa, la legge dello Stato di New York continuava considerare illegale il ballo tra soli uomini, e le discoteche erano obbligate ad avere al loro interno almeno una donna per ogni tre uomini; la quota femminile era coperta da donne lesbiche ma anche etero che volevano semplicemente ballare senza dover subire gli approcci degli uomini etero. Secondo, anche se i proprietari del Sanctuary avrebbero potuto corrompere la polizia per superare questo problema, era comunque improbabile trovare un migliaio di gay dichiarati che riempissero il locale in questa fase di formazione della cultura queer da ballo. Infine, le persone etero volevano essere parte della nascente scena Disco, ed essendo il locale pubblico, nel senso che poteva entrare chiunque, non c’era nessun modo di identificarle ed escluderle. Non voglio limitarmi a smentire il luogo comune secondo cui la cultura Disco delle origini sarebbe stata omogenea nella sua essenza gay maschile solamente perché è un’idea semplicemente sbagliata, che contribuisce alla sistematica cancellazione di altre storie, comprese quella delle donne lesbiche. Voglio anche aggiungere che ridurre l’attenzione alla sola maschilità gay nella Disco finisce col sottostimare e perfino indebolire la spinta politica della cultura dance dei primi anni 70, che provò a creare una comunità democratica e interculturale che fosse aperta nella sua stessa formazione. Le persone che partecipavano erano consapevoli del loro carattere ibrido e della loro prossimità alla coalizione arcobaleno dei movimenti controculturali della fine degli anni 60, e avendo toccato con mano la reazione repressiva dello Stato verso l* militanti delle Black Panthers, le drag queen dello Stonewall Inn, e le manifestazioni contro la guerra nelle università statali di Kent e Jackson, volevano provare a esplorare le possibilità sociali e culturali del movimento controculturale nello spazio relativamente sicuro dei locali dance. In questi ambienti, le persone erano coinvolte in una pratica culturale che non cercava di fissare la loro maschilità o femminilità, o le loro predilezioni etero o queer, o la loro identità nera, latina, asiatica o bianca, ma le poneva invece come agenti che potevano partecipare in un rituale destabilizzante o queer che rielaborava l’esperienza del corpo attraverso una serie di vettori affettivi.

Social dance Mentre negli anni ‘60 le persone entravano in pista secondo la rigida struttura della coppia eterosessuale, negli anni ’70 si cominciava a ballare senza partner. Questa trasformazione era in linea con l’esperienza storica della sessualità gay maschile: la pratica consolidata del cruising incoraggiò gli uomini gay a muoversi autonomamente sulla pista da ballo, mentre le restrizioni legali ancora vigenti sul ballo tra uomini li incoraggiavano a ballare da soli – almeno finché la legge non venne abrogata dallo Stato di New York nel dicembre del 19744. Allo stesso tempo, però, il passaggio al ballo solitario era stato già parzialmente inaugurato nei festival degli anni ’60, dove donne e uomini ondeggiavano al suono della musica rock. Per questo, le persone etero che venivano al Sanctuary, e avevano partecipato a eventi come Woodstock, erano già abituate all’idea di ballare da sole, mentre altre magari avevano già conosciuto altrove questo stesso discorso di liberazione che allora era molto diffuso. Come cantava George Clinton nel 1970, ‘libera la tua mente e il culo seguirà’. Nella pista, la gente non percepiva il superamento del ballo di coppia come un preludio individualistico e isolazionista all’era neoliberista, nella quale i principi di collaborazione e cooperazione sarebbero stati devastati, ma semmai come una nuova forma di socialità collettiva che eccedeva i confini potenzialmente claustrofobici del regime precedente. A parte l’eterosessualità obbligatoria che veniva imposta, le stesse dinamiche sociali del ballo di coppia erano necessariamente limitate, perché gli uomini e le donne che formavano le coppie dovevano concentrarsi sul* loro partner per muoversi a tempo e in modo espressivo – e anche evitare di farsi male. Di conseguenza, le coppie si concentravano verso il proprio interno, e la comunicazione con le altre persone, specie con chi suonava o metteva i dischi, era una cosa del tutto secondaria. Al contrario, chi faceva parte della rete di feste private e locali pubblici dei primi anni 70 poteva sviluppare movimenti liberi, e per questo sperimentava una crescente abilità di comunicare e ballare con partner multipl*. Come notò Frankie Knuckes, uomo gay assiduo del Loft: ‘Te ne stai in pista e a un certo punto la donna più bella che tu abbia mai visto viene e balla proprio su di te. Ti giri un attimo, e un uomo altrettanto bello fa la stessa cosa. Oppure ti ritrovi preso tra i due, o tra due donne, o tra due uomini, e ti senti del tutto a tuo agio’. L’esperienza descritta da Knuckles non è solo la sostituzione di un obiettivo sessuale (ballare per sedurre un membro del sesso opposto) con un altro (ballare per sedurre tante persone di tutti i sessi). La promiscuità bisessuale può essere più queer dell’eterosessualità monogama, ma limitarsi a questa lettura significherebbe fraintendere completamente la funzione degli scambi sulla pista da ballo, riducendoli a semplici approcci. Questi scambi, piuttosto che essere il mezzo per ottenere un fine alternativo, erano semmai l’obiettivo principale delle persone, e al contrario dei primi balli sociali, pensati per servire l’eterosessualità obbligatoria, l’ambiente da ballo emergente nei primi anni ’70 non aveva nessuna funzione equivalente. Anche se nel libero flusso della pista si poteva leggere ogni genere di contatto sessuale, in particolare quelli tra uomini gay, anche questi come tutte le persone che partecipavano hanno sempre affermato che il sesso alla fine era quasi sempre una preoccupazione secondaria. Era così anche in posti come il Saint, la festa privata per gay bianchi sorta nel 1980 sul vecchio Filmore East nel 1980, dove il sesso restava una priorità secondaria nonostante fosse possibile farlo nell’area esterna. Occupando uno spazio singolo, quindi, le persone potevano muoversi in relazione a una serie di altri corpi in un flusso quasi simultaneo, come parte di un’entità fluida e amorfa che ricorda il Corpo senza Organi di Deleuze e Guattari. (CsO). Descritto da Ronald Bogue (2004, p.115) come ‘un corpo decentrato che non funziona più come un organismo coerentemente regolato, ma è percepito come un grado zero di intensità estatico, catatonico, apersonale tutt’altro che negativo ma, al contrario, ha un’esistenza positiva’, il CsO sulla pista da ballo si differenzia nettamente da altri tipi di aggregazione: quella nei cinema, perché è fisicamente attiva e in comunicazione costante, invece che passiva e silenziosa; quella negli stadi sportivi, perché la sua attenzione non è rivolta a un evento esteriore; quella di chi partecipa a una maratona, perché in essa l’obiettivo non è rimanere con le altre persone, ma semmai lasciarle indietro; e così via. In altre parole, l’essenza stessa della pista da ballo si basava sul suo status di intensità collettiva, e mentre la sua risonanza con il concetto piuttosto asessuale di CsO potrebbe portare alcuni a metterne in dubbio la sua queerness, la sua erotica di piacere corporale – un’erotica che si intrecciava con la liberazione gay, il movimento femminista, e la rivolta controculturale verso il conformismo degli anni 50 – conferma il suo intento sessuale distruttivo.

DJ Il secondo fattore da considerare riguardo al queer in discoteca è la figura de* DJ, il cui lavoro si è trasformato con il mutare dei contorni sociali del dancefloor. Inizialmente, DJ si sentivano come inservienti che fornivano musica preparata altrove, o anche come burattinai con il potere di manipolare le persone. Qualunque fosse la loro autostima, comunque, avevano anche il compito di incoraggiare le persone non solo a ballare ma anche a lasciare la pista e andare al bar, perché era così che la maggior parte dei locali facevano i soldi. Ma come confidò il DJ del Sanctuary Francis Grasso, quando le persone che ballavano negli anni ’70 scoprirono la loro forza collettiva, si vide portato a cambiare il suo stile. Grasso è interessante perché è stato l’unico dipendente a restare quando Seymour e Shelley comprarono il Sanctuary, quindi ha toccato con mano la differenza tra suonare per la gente eteronormata e la più eterogenea e aperta clientela che arrivava nel locale all’inizio del ’70. ‘Quando il Sanctuary divenne gay non suonai più tutti quei dischi lenti [introdotti per stimolare il consumo al bar] perché ora c’era gente che beveva e sapeva come divertirsi’, dice Grasso. ‘Il calore e la musica bastava a farli bere. Il livello di energia era fenomenale. A un certo punto mi sembrava che se avessi abbassato il ritmo mi avrebbero fischiato perché si stavano divertendo troppo’. Ovviamente la gente non comunicava solo fischiando il DJ. Applaudivano e celebravano e fischiavano, e comunicavano con l’energia stessa dei loro movimenti, e il compito principale di Grasso e i suoi contemporanei era quello di leggere l’umore della folla e scegliere un disco che fosse adatto al momento. Dato che ora stavano provando sia a guidare che a rispondere, DJ contribuirono a una forma di musica antifonica che ha caratterizzato una buona parte della musica Africana Americana, e per aumentare l’efficacia del loro suonare in relazione alla gente, DJ iniziarono a perfezionare i passaggi e mixare tra i dischi per mantenere il flusso del ritmo, o comprare due copie dello stesso disco per estendere le parti che la gente apprezzava di più. Il risultato fu la nascita di una modalità illegittima di fare musica, nella quale la figura convenzionale dell’artista era superata dalla figura del* DJ che improvvisa, che poteva ricorrere a un vasto repertorio di suoni e programmarli all’interno di un’economia democratica del desiderio. Grazie all’assenza dell’artista e al relativo anonimato del DJ, la gente cominciò a rispondere all’impatto sonico della musica, più che all’immagine dell’artista, e questo circuito non convenzionale mise sottilmente in discussione le fondamenta gerarchiche dell’industria musicale, nella quale il cantante, il musicista e il produttore mantenevano una posizione elevata sopra chi ascoltava. Perché l’artista disincarnato poteva essere sentito ma non visto, chi ballava poteva anche pensare a sé stessa o sé stesso come parte dell’assemblaggio musicale generato collettivamente, e poteva scegliere di rispondere alla musica al di fuori delle relazioni gerarchiche artista-fan.

Dance music Terzo, vorrei considerare la posizione della musica campionata in questo momento di flusso e cambiamento. Ancora, il contrasto con gli anni ’60 è istruttivo, perché laddove i DJ di quell’epoca tendevano a suonare all’interno di un insieme limitato di repertorio rock’n’roll che incoraggiava un modo di ballare altrettanto limitato, e i festival/concerti di quel periodo tendevano a mettere in primo piano solo il rock, i DJ degli anni ’70 attingevano da un repertorio di suoni molto più vasto. Il termine ‘Disco music’ divenne popolare solo nel 1973, e non si riferiva comunque a un suono coerente e riconoscibile, ma alla selezione ampia di r&b, funk, soul, gospel, salsa, e rock ballabile – più dischi europei e africani – che si poteva sentire nelle discoteche di Manhattan. Anche quando il suono della disco divenne più riconoscibile, tra il ’74 e il ’75, DJ continuavano a intervallarlo con suoni contrastanti. L’introduzione del contrasto e della differenza soniche contribuirono a generare un senso di imprevedibilità e aspettativa sulla pista, e la giustapposizione di stili diversi consentiva a chi ballava di sperimentare l’esistenza come complessa e aperta invece che semplice e chiusa. In altre parole, DJ stavano creando una colonna sonora che incoraggiava a essere multipl*, fluid* e queer. Allo stesso tempo, la Disco come genere, che metteva insieme elementi che si potevano trovare nel R&B, soul, funk, gospel e altri ancora, aveva anch’essa dato vita a un’estetica queer, pur nella sua singolare incarnazione, come ha evidenziato Richard Dyer (1979/1995) nel suo articolo ‘In difesa della Disco’. Dyer svolse il suo dottorato di ricerca al Centro per gli Studi Culturali Contemporanei di Birmingham, rischiando però di ritrovarsi isolato, in quel contesto, per il suo interesse verso la sessualità gay, e forse il suo amore per la Disco; questi elementi di cultura popolare ricevevano scarsa attenzione dagli altri studiosi del Centro, la cui attenzione era rivolta alle relazioni di classe, i mods e i punks, le politiche governative, e quando Angela McRobbie (1980) alzò la voce, il genere. L’obiettivo iniziale dell’articolo di Dyer è quello di difendere la Disco dagli attacchi della sinistra che, contrapponendola al folk e ad elementi del rock, la considerano poco più di una svendita commerciale, ma la sua risposta, alla fine, diventa una critica profetica alla riluttanza della sinistra ad occuparsi della politica del piacere. Tuttavia, nel nostro caso, la parte più interessante è la sua analisi delle proprietà estetiche della disco e la loro relazione con il corpo e le concezioni della sessualità. Nell’articolo, Dyer delinea una serie di distinzioni chiave tra il rock e la Disco. Mentre il rock limita la ‘sessualità al cazzo’ ed è quindi ‘musica inevitabilmente fallocentrica’, la Disco, scrive Dyer, ‘riporta l’erotismo a tutto il corpo’ grazie alla sua ‘disponibilità a giocare con il ritmo’, e lo fa ‘per entrambi i sessi’ (1979/1995, p. 523). La Disco offriva anche la possibilità di sentire il corpo come entità polimorfa che poteva essere riprogettata secondo termini che confondevano i modelli canonici della mascolinità e femminilità, perché come aggiunge Dyer: ‘il suo erotismo ci consente di riscoprire i nostri corpi come parte di questa esperienza di materialità e la possibilità del cambiamento’ (1979/1995, p. 527). In altre parole, la Disco apriva la possibilità di sperimentare piacere attraverso una forma di sensazione non-penetrativa – e Dyer scrisse questo poco prima che Michel Foucault, dopo un viaggio negli Stati Uniti, invocasse la necessità di fare ‘del corpo il luogo per la produzione di piaceri polimorfici straordinari, allo stesso tempo distaccandosi da una valorizzazione dei genitali e in particolare di quelli maschili’ (Miller 1993, p. 269). Pubblicato su Gay Left, la rivista biennale del collettivo di uomini gay di cui faceva parte Dyer, ‘In Defence of Disco’ non suscitò una discussione più ampia sulla sessualità queer all’interno del discorso sugli Studi Culturali del tempo, ma tre decenni dopo quell’anomalia è stata corretta. La preferenza della pista da ballo degli anni ’70 per il ritmo polimorfo invece che fallico è dimostrata dal contrasto tra ‘Drums of Passion’ di Olatunji e la versione della stessa canzone fatta da Santana, intitolata ‘Jingo’. Mentre la versione rock di Santana sviluppò un ritmo rigido mettendo in primo piano la strumentazione fallocentrica della chitarra elettrica e la voce maschile, l’originale di Olatunji enfatizzava il gioco ritmico insieme a un coro di voci che sviluppavano uno scambio di chiamata-e-risposta tra di esse e con i percussionisti. In possesso di entrambi i dischi, Grasso suonava solo la versione di Santana quando metteva musica per l’ambiente etero del Sanctuary, ma dopo l’arrivo di Seymour e Shelley e la diversificazione del pubblico all’inizio del 1970 si accorse subito che poteva cominciare a suonare quella di Olatunji. Come raccontas lo stesso Grasso, ‘Mi sono detto, “se funziona quella di Santana, allora quella vera li farà impazzire!” Ero bravo a mixare un disco con l’altro quindi ho messo Santana e poi “Jin-Go-Lo-Ba”. La gente preferiva Olatunji, senza la chitarra. È stato subito un successo’. Può essere più difficile individuare la queerness nei testi, specie perché si basano pesantemente sulle tematiche fortemente etero del R&B. D’altra parte, però, grazie al sostegno della clientela gay maschile che era abbastanza ricca da spendere tanti soldi nella musica, la “diva nera” divenne una figura chiave nella Disco, e cantanti come Gloria Gaynor e Loleatta Holloway espressero il loro stupore nel vedere che uomini gay erano i loro fan più accaniti. Delusa dal suo uomo, Gloria Gaynor rappresentò perfettamente la capacità delle dive afroamericane di esprimere emozioni complesse e rabbiosa capacità di resistenza registrando ‘I will survive’, pubblicata come lato B finché la passione di Dj e pubblico non fu così incontenibile da costringere la casa discografica a ristamparla come lato A. In questo caso, vediamo la queerness non tanto nel sovvertire l’eterosessualità quanto nel sopravviverle. In altri pezzi, invece, i testi erano deliberatamente innocui, perché il loro contenuto campionato e ripetitivo era pensato per portare l’accento sul ritmo e convincere a concentrarsi sull’impatto del suono più che sul significato discorsivo, mentre c’era un terzo gruppo di dischi inconsapevolmente queer, basati su temi eterosessuali che si rivelavano però perfetti per l’appropriazione – così ‘Free man’ dei South Shore Commission, che parla di una lite tra amanti etero, prese un livello di significato diverso quando i gay lo interpretarono come un proprio inno di liberazione. A volte poi il senso straight di un testo non aveva nemmeno bisogno di essere reinterpretato perché l’impatto era già abbastanza forte di per sé, come nel caso della versione di ‘Hit and run’ di Loleatta Holloway. Nel suo remix, Walter Gibbons tolse i versi piuttosto imbarazzanti dove Holloway diceva di essere una ‘ragazza di campagna all’antica’ che avrebbe ‘saputo cosa fare’ quando ‘si trattava di amarti’. Ma quando la cantante ritornava sul tema principale, con un accompagnamento improvvisato che la versione originale aveva quasi del tutto rimosso, l’impatto era così potente che rese la banalità del significato del tutto irrilevante.

Temporalità e tecnologie Anche le strategie temporali hanno contribuito a creare nell’ambiente dance degli anni ’70 esperienze del corpo non-dominanti. La pratica di organizzare le feste a tarda notte divenne la premessa fondante di una cultura che cercava di invertire le priorità di una società organizzata intorno al lavoro diurno, e la protezione garantita dall’oscurità, così come lo spazio protetto della festa, consentivano alle persone più marginalizzate un livello di espressività che difficilmente potevano trovare durante il giorno (quello che Jack Halberstam [2005] ha commentato nel suo libro In a queer times and place). In aggiunta a questo, la marcia verso avanti del tempo teleologico – il tempo della domesticità borghese e della produttività capitalista – entrava in crisi nel mondo della discoteca, dove i ritmi ripetitivi e ciclici creavano un’esperienza di temporalità alternativa, e l’assenza di orologi lasciava che la gente ballasse muovendosi in una sfera nella quale il lavoro – il lavoro del ballare – non doveva essere necessariamente produttivo in un senso convenzionalmente economico oppure eterosessuale. Dentro questo scenario, DJ attingevano a un repertorio di dischi che attraversavano i confini temporali e spaziali per evocare e per certi versi creare un’utopia sonica radicalmente diversa. La pratica dell’uso di due copie di un disco non solo per ridurre ma anche per estendere il tempo, per esempio allungando una sezione che piaceva al pubblico – arrivando così alla creazione di un nuovo formato di disco (il singolo a 12″) che consentiva a* DJ di suonare lunghi remix fatti apposta per ballare. L’enfasi sulla lunghezza temporale era importante. Più il disco era lungo, più ci si poteva perdere nella musica, ed entrare in una dimensione alternativa dove il corpo non era tanto abbandonato quanto allineato dentro una nuova realtà sonica. La nuova realtà sonica si scopriva particolarmente potente negli spazi delle feste private (come il Loft) che non vendevano alcolici e potevano quindi stare aperti molto dopo che le discoteche, regolate dalle leggi dello Stato di New York, avevano già chiuso. Le ore prolungate incoraggiavano sessioni di ballo che erano quasi delle maratone, nelle quali il fisico aveva la priorità sul razionale, e questo apriva ai partecipanti l’esperienza del corpo come entità non chiusa e distinta, ma piuttosto permeabile e connessa. Lo spazio confinato della pista da ballo, dove si entrava inevitabilmente in contatto le une con gli altri, aumentava l’esperienza del corpo come esteso e aperto, e la combinazione di acustica, droghe e luci la accentuava ancora di più. Julian Henriques (2003) ha descritto il sound system giamaicano come una forma di ‘dominanza sonica’, nella quale il sonico ha la prevalenza sul visuale e crea una comunità basata sul suono. In queste situazioni, il suono permea il corpo, e crea quindi una situazione nella quale i limiti del corpo (spesso caratterizzato come mascolino) vengono superati, rendendo difficile tenerlo insieme come entità unica e discreta. Questa era esattamente la situazione ricercata nella Disco, dove figure come David Mancuso ma anche ingegneri del suono come Richard Long e Alex Rosner introdussero una gamma di tecnologie allo scopo di produrre un suono che fosse più puro e potente. Le droghe – specie la LSD – erano consumate per aumentare la distanza del ballo dalla vita di tutti i giorni e consentire l’ingresso in una esperienza spaziotemporale alternativa, incoraggiando il corpo a connettersi in un’alleanza con il suono. La luce era invece usata in modo parsimonioso, per lasciare che i corpi eccedessero le costrizioni della vita quotidiana in un ambiente che enfatizzava la dimensione connettiva dell’aurale più che quella separante dello scopico (perché il suono entra nel corpo con più forza della luce). Quando veniva usata, serviva a creare effetti di disorientamento, sempre per favorire l’esperienza della pista da ballo come spazio alternativo e sperimentale. Il particolare momento storico dei primi anni ’70 aveva favorito la diffusione di queste pratiche e di questi strumenti. Questo era, del resto, il periodo in cui il discorso controculturale del cambiamento, della liberazione e dell’internazionalismo continuava a risuonare; in cui sempre i gruppi di persone marginalizzate raddoppiavano i loro sforzi per conquistare spazi di libertà; la repressione dello Stato stimolava la migrazione dai pericoli della strada alla sicurezza del club; il fallimento della prima ondata delle discoteche insieme all’abbandono del centro città da parte dell’industria leggera aprì una miriade di spazi inutilizzati perfetti per il ballo; e l’industria musicale doveva ancora capire come reagire dopo il fallimento delle promesse politiche della cultura rock. Insieme al Loft e al Sanctuary, spazi come Haven, Limelight, Salvation, Tambourine e Tamburlaine offrivano situazioni notevolmente simili e coerenti fra loro nelle pratiche sociali ed estetiche. Per un certo tempo, chi partecipava aveva la convinzione di stare creando una cultura che avrebbe dato una nuova forma al mondo, e per certi versi le loro aspirazioni si sono realizzate, se non altro perché così tante delle pratiche allora nascenti resistono ancora oggi. Tuttavia il potenziale queer delle piste da ballo dei primi anni ’70 si dimostrò anche vulnerabile a varie forme di diluizione e cooptazione, e questo processo si dispiegò in tre modi particolari. Primo, alcuni organizzatori e partecipanti cercarono di dividere la scena in gruppi separati e organizzati in modo identitario, e questo portò inevitabilmente a restringere l’ampiezza demografica delle piste newyorchersi e l’emergere di una concezione più normativa e statica di quali identità potevano articolarsi nella scena dance. Di fatto, alcuni locali per soli maschi bianchi gay, come il Tenth Floor e il Flamingo, che imitavano lo stile delle feste private di Mancuso per consolidare un’autoproclamata “clientela di serie A”, sono un esempio di questo genere di pratiche. Ovviamente questi locali rispondevano a una domanda esistente, perché una parte consistente dei gay bianchi si considerava parte di una certa élite organizzata intorno a bellezza, successo professionale e intelligenza, e volevano ballare solo con uomini che consideravano propri pari5. Per giunta, i partecipanti in questa parte della cultura dance di New York percepivano le loro azioni come politicamente radicali, perché la cultura gay era storicamente marginale e le pratiche della disco erano considerate esteticamente progressiste. L’esperienza tribale restava potente e continuava a rappresentare una sfida a molte pratiche conservatrici. Ma non includeva persone che non erano bianche e maschie, mostrando come anche eventi organizzati per uomini gay potevano comunque agire secondo modalità reazionarie6. Largamente escluse da queste occasioni, le donne lesbiche aprirono la loro prima discoteca, il Sahara, nel 1976; le quattro donne lesbiche che gestivano il locale insistettero per introdurre una serata aperta agli uomini una volta a settimana. Quindi, mentre la partecipazione alla Disco era sempre più divisa e suddivisa, alcuni promoter iniziarono a selezionare quella che ritenevano la dance crowd d’élite, e questo risultò nell’introduzione di una gerarchia marcata nella scena, in particolare dal 1977 quando una serie di enormi discoteche più periferiche aprirono con l’obiettivo dichiarato di attrarre un pubblico d’élite organizzato intorno a moda, film e così via. La più famosa di queste era lo Studio 54, che nonostante alcuni improbabili legami alla cultura del Loft, aveva alla fine stabilito una politica di ingressi competitiva e gerarchica. Grandi folle si formavano fuori dal locale ogni notte, e mentre i proprietari dicevano di voler creare un ambiente democratico all’interno, prevaleva una cultura di esclusione crudele. Naturalmente, un posto così ossessionato dallo status era più interessato al visuale che all’aurale – alle luci più che ai suoni, all’essere visti come forma di validazione, e alla possibile presenza di persone famose – e così l’attività principale allo Studio 54 non era ballare ma guardare. Per le ragioni già spiegate, questo indebolì il potenziale queer del posto. Terzo, per vendere la Disco a quello che era percepito come il mercato di massa – quello suburbano, la Classe Media – gli imprenditori riformularono la disco come luogo di mascolinità patriarcale e approccio eterosessuale. L’esempio più notevole fu la produzione del film Saturday Night Fever, che uscì alla fine del 1977. Costruito sulla cultura della discoteca suburbana e la figura di Tony Manero, interpretato da John Travolta, il film rappresentava la riappropriazione della pista da ballo da parte della cultura etero maschile, nel senso che la rese uno spazio in cui gli uomini etero potevano mostrare la loro prodezza e andare a caccia di partner del sesso opposto. Il film rese popolare anche l’hustle (un ballo sociale Latino) nella cultura Disco, riportando così la coppia etero al centro della pista da ballo. Con una mossa altrettanto conservatrice, la colonna sonora era stata affidata ai Bee Gees, rischiando di far credere che la disco fosse solo l’ennesima incarnazione del pop bianco stridulo. Niente di tutto questo avrebbe avuto importanza se il film fosse rimasto nell’oblio, ma al contrario, film e colonna sonora ebbero un successo strepitoso, affermando una struttura riproducibile per la disco che era profondamente de-queerizzata nell’aspetto. Nel 1979 i tempi erano maturi per una reazione contro la disco. Seguendo l’inatteso successo commerciale di Saturday Night Fever, le grandi case discografiche avevano cominciato a investire pesantemente in un suono che la loro classe di manager bianchi non amava granché, e quando la sovrapproduzione della Disco coincise con una profonda recessione, la campagna ‘Disco sucks’ (omofoba e per molti versi sessista e razzista) culminò con un rogo pubblico di dischi nello stadio dei Chicago White Sox nel luglio 1979. L’alleanza di persone e gruppi marginalizzati, cuore della cultura Disco, veniva identificata come quella che aveva beneficiato del liberalismo degli anni ’60, che a sua volta era considerato colpevole della crisi economica degli anni ’70. Come hanno sostenuto Stuart Hall (1989) e altri, questa svolta verso un discorso reazionario contribuì e per certi fu la base della rapida svolta verso le priorità individualistiche e di mercato di quello che allora si chiamava Nuova Destra, e che oggi chiamiamo neoliberismo. Ma la reazione non segnò la fine della Disco in sé, perché il Loft e i suoi emuli, incluso il leggendario Paradise Garage, modellato sulle feste di Mancuso, continuarono a organizzare le loro serate secondo i principi comunitari ed esplorativi pensati all’inizio degli anni ’70. È così che Richard Dyer, che viaggiò spesso a New York tra il Febbraio e il Settembre 1981 e frequentò il Paradise Garage, cominciò a sviluppare la cornice filosofica che lo portò alla pubblicazione di White (1997). In effetti, il fallimento percepito della Disco era in realtà il fallimento di una forma di Disco che valorizzava il patriarcale, l’eterosessuale e il borghese, e non la Disco queer che ho delineato in questo articolo. Così, a fallire non fu tanto la queerness quanto i tentativi reazionari di imbavagliarla e appropriarsi della Disco. Questo fallimento della cultura dominante divenne più esplicito nel periodo che seguì la reazione contro la Disco, quando forme non-egemoniche di ballo continuarono a fiorire. Il fatto che nemmeno queste riuscirono a diventare egemoniche è un’altra storia ancora.

Riferimenti

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Chauncey, G. (1995) Gay New York: The Making of the Gay Male World, 1890# 1940, London, Flamingo.

Dyer, R. (1995) ‘‘In defence of disco’’, in Gay Left, reprinted in The Faber Book of Pop, eds H. Kureishi & J. Savage, London, Faber and Faber (originally published 1979).

Dyer, R. (1997) White: Essays on Race and Culture, London, Routledge. Goldman, A. (1978) Disco, New York, Hawthorn Books.

Halberstam, J. (2005) In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York, New York University Press.

Hall, S. (1989) ‘The meaning of new times’, in New Times: The Changing Face of Politics in the 1990s, eds S. Hall & M. Jacques, London, Lawrence and Wishart.

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Lawrence, T. (2003) Love Saves the Day: A History of American Dance Music Culture, 1970-79, Durham, NC, Duke University Press.

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Miller, J. (1993) The Passion of Michel Foucault, New York, Anchor Books. Saturday Night Fever (1977) Dir. J. Badham, Paramount Pictures.

Stearns, M. & Stearns, J. (1994) Jazz dance: The Story of American Vernacular Dance, New York, Da Capo Press.

White, E. (1980) States of Desire: Travels in Gay America, London, Picador.

1Albert Goldman diede inizio alla concezione binaria gay-etero della Disco nel suo libro Disco, pubblicato nel 1978, nel mezzo dell’anno commercialmente migliore per la Disco. Le premesse fondamentali di Goldman sono state riprese in tanti resoconti della cultura dance contemporanea da autori come Bill Brewster e Frank Broughton, Matthew Collin, Sheryl Garrett, Kai Fikentscher e Simon Raynolds.

2George Chauncey (1995) fornisce un resoconto parziale dell’ascesa della cultura drag ball in Gay New York: The Making of the Gay Male World, 1890-1940.

3Tutte le citazioni sono tratte da interviste fatte da me, se non riportato altrimenti. Ho intervistato David MAncuso diverse volte mentre lavoravo al mio primo libro, Love Saves the Day: a History of American Dance Music Culture, 1970-79 (Lawrence 2003 – c’è traduzione italiana sul webbe). Questo articolo mette insieme e sviluppa i punti sulla social dance in quel libro.

4La ricerca sull’abrogazione delle leggi che proibivano di ballare tra maschi non è ancora stata fatta. La posizione di avanguardia di New York sulla liberazione gay e lo sviluppo del ballo tra uomini gay suggerisce che la cittù sarebbe stata una delle prime, se non la prima, a introdurre riforme.

5Edmund White fornisce un resoconto di prima mano dell’autoformata elite che si riuniva al Flamingo in States of Desire: Travels in Gay America (pp. 269-275).

6Le politiche d’ingresso di fatto esclusioniste del Tenth Floor e del Flamingo, dove neri e latinos erano ammessi solo se partner di bianchi, o se abbastanza famosi, sono discusse in Love Saves The Day (Lawrence 2003, pp. 79-80, 139).

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