Baia di Hudson, Ontario, Canada. Foreste, acqua, immense ricchezze naturali. Ma poche settimane fa, nella First Nation nativa di Attawapiskat (2000 abitanti), 11 persone hanno tentato di suicidarsi, tutti nello stesso giorno. Non è solo una questione “artica”: la Groenlandia, poco lontana, ha il tasso di suicidi più alto del mondo, ma la notte polare non è l’unica spiegazione. In questa First Nation mancano le scuole, molti servizi pubblici, l’acqua potabile. Eppure, a poca distanza, la De Beers estrae milioni di dollari in diamanti, grazie a un trattato del 1930.Dopo gli 11 tentati suicidi, culmine di una lunga storia di disperazione, il governo canadese sembra essersi svegliato, riconoscendo la crisi e inviando personale di emergenza, mentre sui media il dibattito si è aperto.
L’emergenza suicidi
Attawapiskat non è l’unica comunità colpita: anche anche la Nazione Cree di Pimicikamak ha visto 6 suicidi negli ultimi 3 mesi e 140 tentativi nelle ultime due settimane. Dal 2009, 600 tra bambini e ragazzini hanno tentato il suicidio nei territori a ovest della James Bay, riporta al Jazeera. Il parlamentare Charlie Angus afferma: “ho perso il conto degli stati d’emergenza dichiarati”.
Infatti, nonostante le dichiarazioni di forte preoccupazione e vicinanza da parte delle autorità nazionali, il governo non sembra ancora intenzionato a impegnarsi seriamente: gli esperti inviati nella First Nation Pimicikamak di Cross Lake sono rimasti pochissimo, due giorni o addirittura otto ore, e l’infermeria può contare solo su due lavoratrici. Ma non si tratta di impreparazione, perché le prime ondate di suicidi risalgono agli anni ’70: “il governo conosce da tantissimo tempo la situazione, ma è non interviene”, ha detto ad Al Jazeera Alan Fiddler, Grande Capo della Nishnawbe Aski Nation, “non mi interessa la compassione, non voglio più scongiurare, voglio solo che il mio popolo abbia qualche prospettiva per il futuro”.
La situazione dei nativi in Canada: tre secoli di razzismo istituzionale
I nativi in Canada sono 1,4 milioni su una popolazione di 32,9 (4,3% della popolazione): di questi, la metà sono registrati come tali (“First Nations Indians”), il 30% sono Métis (riconosciuti ufficialmente come nativi meticci), il 15% sono First Nations non registrati e il 4% sono Inuit. Le comunità native, tra First Nations e bands, sono 617, parte di 50 gruppi culturali e sparse in circa 1000 comunità nel territorio canadese. I nativi, nonostante tutto, hanno la popolazione più giovane e più in crescita di tutto lo Stato.
Anche se i rapporti tra i bianchi colonizzatori e i nativi sono sempre stati regolati da trattati (24 ancora in vigore) teoricamente paritari, l’atteggiamento degli inglesi e dei canadesi è sempre stato rivolto per lo più a un apartheid di fatto, con l’esclusione dal voto e dall’accesso alla giustizia, e a una omologazione violenta, con l’imposizione di istituzioni governative su quelle native, ripetuti divieti di usare la propria lingua, e soprattutto con la rimozione dei bambini e delle bambine dalle comunità. Solo negli ultimi anni, dopo più di due secoli di oppressione, il governo federale ha iniziato a riconoscere le proprie colpe, anche con l’istituzione di commissioni d’inchiesta come quella che, nel 2015, ha concluso i propri lavori facendo luce sulla realtà delle “Residential Schools”. Pensati nell’800, ma rimasti aperti fino al 1996, questi collegi erano finanziati dallo Stato ma gestiti dalla Chiesa, soprattutto quella cattolica: la frequenza dei nativi era obbligatoria e assicurata dall’impiego di agenti federali. In tutto, 150 mila nativi sono stati costretti a frequentarli: l’uso della loro lingua era punito severamente, anche le lettere a casa dovevano essere scritte in inglese; le condizioni di vita erano spesso sotto ogni standard ed erano continuamente sottoposti ad abusi psicologici e fisici (anche oggetto di sperimentazioni nutrizionali) e sessuali. I ragazzi e le ragazze, quando riuscivano a tornare dalle loro famiglie per le vacanze, si sentivano estranei, imbarazzati per le loro radici, inutili perché non sapevano più aiutare i loro parenti. Secondo i risultati della commissione d’inchiesta, fu un genocidio culturale che fece almeno 6000 vittime, bambini e bambine morti mentre frequentavano la scuola o poco dopo averla lasciata, per malnutrizione o malattie. A parlare di “genocidio culturale” è Beverley McLachlin, vertice della Corte Suprema canadese, che ha aggiunto: “il Canada ha sviluppato un ethos di esclusione e annichilazione culturale”.
Un apartheid funzionale allo sfruttamento delle risorse
Oggi, nonostante il Canada negli anni ’80 abbia riconosciuto nella sua costituzione la difesa dei diritti dei nativi, le disparità di reddito e di condizioni di vita sono impressionanti: il 45% delle abitazioni delle First Nations ha bisogno di riparazioni urgenti, la metà delle strutture idriche che li servono è pericolosa per la salute, e come risultato, l’aspettativa di vita dei nativi è di 14 anni inferiore a quella dei canadesi. Ai problemi di tossicodipendenze e violenza il governo centrale ha risposto con il carcere: il 23% degli uomini e il 33% delle donne detenute sono nativi, nonostante questi siano solo il 4,3% della popolazione. Una situazione che, nonostante le tanto decantate differenze, sembra rispecchiare da molto vicino quella denunciata da Ta-Nehisi Coates negli Stati Uniti.
Ma i territori abitati dalle popolazioni native sono tutt’altro che poveri: non a caso, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha realizzato un rapporto proprio sugli effetti devastanti che l’industria estrattiva ha sulle popolazioni indigene in Panama, Perù e Canada, un documento che disegna un’immagine terribile del Paese nordamericano solitamente noto per il suo welfare state e la sua accoglienza nei confronti degli stranieri. Non a caso, infatti, il governo di Ottawa ha atteso un anno prima di concedere la visita ufficiale nel suo territorio all’inviato ONU James Anaya.
La Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni dice chiaramente che essi “hanno il diritto a determinare priorità e strategie per lo sviluppo e l’utilizzo delle loro terre e dei loro territori”. Ma per rendere l’idea della dimensione di ingiustizia e rapina a cui molte First Nations sono sottoposte, basta pensare che la De Beers ha estratto una quantità di diamanti pari a 392 milioni di dollari dall’area del Lago Victor, territorio sottratto alla First Nation di Attawapiskat con un’estensione del trattato del 1930; mentre solo nel 2014 è stata riaperta, dopo 14 anni, la scuola elementare. Per risolvere tutti i problemi non basta la buona volontà o gli sporadici impegni del governo: servono soldi, per riparare le case, riaprire le scuole, fornire assistenza a chi soffre per i traumi della colonizzazione. Altre nazioni native, che sono riuscite a preservare la loro cultura e la loro lingua, hanno tassi di suicidio molto più bassi.
Ma anche nelle First Nations più colpite dalla colonizzazione, non mancano le storie positive, come le iniziative auto-organizzate per creare solidarietà e comunità contro i suicidi, e i movimenti politici di protesta, come Idle No More e le recenti proteste che hanno visto per primi i giovani di Attawapiskat occupare gli uffici dell’Indian and Northern Affairs Canada (#occupyINAC). Un movimento che ha avuto anche la solidarietà di Black Lives Matters.
Da leggere:
“The Canadian first nation suicide epidemic has been generations in the making”, intervento sul Guardian di Julian Brave Noisecat: http://tinyurl.com/gkpjwuf
“The Arctic Suicides: It’s Not The Dark That Kills You”, splendido audio/articolo di Rebecca Hersher della National Public Radio sugli effetti della politica colonialista danese in Groenlandia: http://tinyurl.com/h2l3jeh
“Canada’s broken relationship with its Aboriginal Peoples”, articolo di Katie Bolongaro uscito su Al Jazeera nel 2014, dopo la pubblicazione del rapporto di James Anaya: http://tinyurl.com/mhho8rr