Nel gennaio del 2015 Brock Turner, studente a Stanford, violenta una ragazza durante una festa. Turner, che rischiava fino a 14 anni, è stato alla fine condannato a 6 mesi (!) e non ha mai riconosciuto pienamente la propria colpevolezza.
La donna che ha subito lo stupro ha scelto, alla fine del processo, di leggere una lettera rivolta direttamente allo stupratore. Si tratta di un discorso di un valore incredibile, sia dal punto di vista emotivo che politico. Qualcosa che dovrebbe essere conosciuto, letto e analizzato ovunque. Avevo iniziato a tradurlo il giorno stesso in cui l’ho letto, e anche se sta già girando una sua traduzione, voglio pubblicare lo stesso la mia. Del resto, più ce ne sono e meglio è.
Vostro onore, se è possibile, vorrei rivolgermi soprattutto direttamente all’imputato.
Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che siamo qui oggi.
Il 17 Gennaio del 2015 era un tranquillo sabato sera a casa. Mio padre aveva preparato la cena ed ero seduta a tavola con mia sorella più piccola, venuta a trovarci per il fine settimana. Io stavo lavorando a tempo pieno, e si stava avvicinando l’ora di andare a dormire. Avevo intenzione di stare a casa da sola, guardare un po’ di televisione, leggere, mentre lei sarebbe andata a una festa con amici. Poi, ho pensato che questa era la mia unica notte con lei, e non avevo di meglio da fare, quindi perché no?, c’è una stupida festa a dieci minuti da casa, potevo andare, ballare come una scema, e mettere in imbarazzo la mia sorellina. Mentre andavamo, scherzavo sul fatto che i ragazzi avrebbero avuto l’apparecchietto. Mia sorella mi prendeva in giro perché stavo andando a una festa universitaria con un cardigan beige, come una bibliotecaria. Mi sono definita “vecchia mamma”, perché sapevo che sarei stata la più vecchia lì. Ho fatto smorfie, abbassato la guardia, e bevuto alcolici troppo in fretta senza pensare al fatto che la mia tolleranza non era più la stessa dei tempi del college.
Poi ricordo solo di essermi ritrovata su una barella in un corridoio. Avevo sangue rappreso e bende sul dorso delle mani e sul gomito. Ho pensato che forse ero caduta ed ero in qualche ufficio dell’università. Ero molto tranquilla e mi chiedevo dove fosse mia sorella. Un agente mi spiegò che ero stata violentata. Rimasi calma, dicendogli che di sicuro stava parlando con la persona sbagliata. Non conoscevo nessuno a quella festa. Quando finalmente mi hanno concesso di usare il bagno, ho abbassato i pantaloni da ospedale che mi avevano dato, ho fatto per abbassare le mutande, e non c’era nulla. Ricordo ancora la sensazione delle mie mani che toccavano la pelle e non trovavano niente. L’esile pezzo di tessuto, l’unica cosa tra la mia vagina e tutto il resto, non c’era e tutto dentro di me era muto. Non ho ancora parole per quella sensazione. Per riuscire a continuare a respirare, ho pensato che forse la polizia me le aveva tagliate per raccogliere prove.
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“Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che siamo qui oggi.”
Poi, ho sentito aghi di pino che mi pungevano dietro al collo e ho cominciato a togliermeli dai capelli. Ho pensato che, magari, erano caduti da un albero sulla mia testa. Il mio cervello stava parlando al mio istinto per non farmi collassare. Perché il mio istinto mi diceva aiutami, aiutami.
Sono andata da una stanza all’altra fasciata da una coperta, aghi di pino che cadevano dietro di me, ne lasciavo una piccola pila in ogni stanza in cui mi sedevo. Mi hanno chiesto di firmare fogli che dicevano “vittima di stupro” e lì ho pensato che qualcosa era davvero successo. I miei vestiti vennero confiscati e sono rimasta nuda mentre le infermiere misuravano le varie abrasioni sul mio corpo con una riga e le fotografavano. In tre lavorammo per pettinare via gli aghi di pino dai miei capelli, sei mani per riempire una busta di carta. Per calmarmi, dicevano è solo la flora e la fauna, flora e fauna. Mi inserirono tamponi nella vagina e nell’ano, siringhe per iniezioni, pillole, una Nikon puntata dritta tra le mie gambe aperte. Ho avuto becher lunghi e appuntiti dentro di me, e la mia vagina spalmata con fredda vernice blu per cercare abrasioni.
Dopo alcune ore di tutto questo, mi lasciarono fare la doccia. Sono rimasta così, esaminando il mio corpo sotto l’acqua e ho deciso, non voglio più il mio corpo. Mi terrorizzava, non sapevo cosa c’era stato dentro, se era stato contaminato, chi l’aveva toccato. Volevo togliermelo come se fosse una giacca, e lasciarlo in ospedale con tutte le altre cose.
Quel mattino, tutto ciò che mi dissero fu che ero stata trovata dietro un cassonetto, potenzialmente penetrata da un estraneo, e che avrei dovuto rifare il test dell’HIV perché i risultati immediati non sempre sono affidabili. Ma per ora, sarei dovuta tornare a casa e alla mia vita normale. Immagina di tornare nel mondo con quella sola informazione. Mi hanno abbracciato forte e ho camminato fuori dall’ospedale indossando la nuova felpa e i nuovi pantaloni che mi avevano dato, perché mi fu concesso solo di tenere la mia collana e le scarpe.
Mia sorella mi venne a prendere, con la faccia piena di lacrime e contorta dall’angoscia. Istintivamente e immediatamente, volevo alleviarle il dolore. Le sorrisi, dicendole guardami, sono qui, sto bene, va tutto bene, sono proprio qui. I miei capelli sono lavati e puliti, mi hanno dato uno shampoo assurdo, calmati, e guardami. Guarda questi buffi pantaloni e questa buffa felpa, sembro un’insegnante di educazione fisica, andiamo a casa, mangiamo qualcosa. Lei non sapeva che sotto la tuta, avevo graffi e bende sulla pelle, la vagina dolorante e di un colore strano e oscuro per tutti gli stimoli, non avevo biancheria intima, e mi sentivo troppo vuota per continuare a parlare. Che avevo anche paura, che ero anche devastata. Quel giorno tornammo a casa e per ore, in silenzio, mia sorellina mi strinse.
Il mio ragazzo non sapeva cosa era successo, ma chiamò quel giorno e mi disse “ero molto preoccupato per te ieri notte, mi hai spaventato, sei arrivata a casa tranquilla?” Ero sconvolta. Scoprii che l’avevo chiamato quella notte quando non stavo più capendo niente, gli avevo lasciato un messaggio vocale incomprensibile, che avevamo anche parlato al telefono, ma che stavo farfugliando così male che lui si era spaventato, che lui mi ha detto più volte di andare a cercare mia sorella. Ancora, mi chiese “Cos’è successo ieri notte? Sei tornata a casa tranquilla?” Ho detto sì, e ho riattaccato per piangere.
Non ero pronta a dire al mio ragazzo o ai miei genitori che, in realtà, potevo essere stata violentata dietro un cassonetto, ma non sapevo da chi, quando, o come. Se gliel’avessi detto, avrei visto la paura nelle loro facce, e la mia sarebbe diventata dieci volte tanto, quindi ho fatto finta che tutto questo non fosse reale.
Ho provato a spingerlo fuori dalla mia mente, ma era così pesante che non parlavo, non mangiavo, non dormivo. Non interagivo con nessuno. Dopo il lavoro, andavo in un posto nascosto a urlare. Non parlavo, non mangiavo, non dormivo, non interagivo con nessuno, e mi stavo isolando dalle persone che amavo di più. Per più di una settimana, non ho ricevuto telefonate o aggiornamenti su quella notte o su quello che mi era successo. L’unico simbolo che dimostrava che non era stato solo un incubo, era la felpa dell’ospedale nel mio armadio.
Un giorno, ero al lavoro, sfogliando le notizie sul mio telefono, e ho trovato un articolo. In esso, ho letto e scoperto per la prima volta di essere stata trovata priva di sensi, con i capelli spettinati, la lunga collana intorno al collo, il reggiseno tirato fuori dal mio vestito, il vestito tolto dalle spalle e tirato fin sopra i fianchi, che ero nuda da lì fino agli stivali, le gambe spalancate, ed ero stata penetrata con un oggetto estraneo da qualcuno che non riconoscevo. Così seppi quello che mi era successo, seduta alla scrivania leggendo le notizie al lavoro. L’ho saputo nello stesso momento in cui il resto del mondo ha saputo quello che mi era successo. Ecco il perché degli aghi di pino, non erano caduti da un albero. Mi aveva tolto la biancheria, le sue dita erano state dentro di me. Non conosco nemmeno questa persona. Tuttora non la conosco. Quando ho letto queste cose su di me, così, ho detto, questa non posso essere io, questa non posso essere io. Non potevo assimilare o accettare nessuna di queste informazioni. Non potevo pensare alla mia famiglia che leggeva tutto questo online. Ho continuato a leggere. Nel paragrafo successivo, ho letto qualcosa che non perdonerò mai; ho letto che secondo quello che ha detto lui, mi era piaciuto. Mi piaceva. Ancora, non ho parole per descrivere quello che provo.
- “E poi, in fondo all’articolo, dopo aver conosciuto i dettagli espliciti del mio stesso stupro, l’articolo elencava i suoi record nel nuoto”
È come se leggi un articolo su una macchina che è stata tamponata, trovata ammaccata, in un canale. Ma magari alla macchina è piaciuto. Magari l’altra macchina non voleva farle male, solo strusciarsi un pochino. Le macchine hanno un sacco di incidenti, la gente non sempre fa attenzione, possiamo davvero dire di chi è la colpa?
E poi, in fondo all’articolo, dopo aver conosciuto i dettagli espliciti del mio stesso stupro, l’articolo elencava i suoi record nel nuoto. “Lei è stata trovata che respirava ancora, priva di sensi con la biancheria a dieci centimetri dal suo stomaco nudo, in posizione fetale. Ah, tra l’altro, lui è proprio bravo nel nuoto.” Metteteci anche il mio test di Cooper se è questo il punto. Sono brava a cucinare, scrivete anche questo, penso che la fine sia come quando elenchi le tue abilità del doposcuola per cancellare le cose nauseanti che sono successe.
La sera che la notizia è venuta fuori ho fatto sedere i miei genitori e gli ho detto di essere stata violentata, di non leggere le notizie perché erano offensive, che sapessero solo che sto bene, sono qui, tutto a posto. Ma mentre lo dicevo, mia mamma dovette tenermi su perché non riuscivo più a stare in piedi.
La sera dopo il fatto, lui disse che non sapeva il mio nome, che non mi avrebbe saputa identificare, non ha parlato di dialogo tra noi, nessuna parola, solo ballare e baciarsi. Ballare è un termine carino: schioccavamo le dita e facevamo piroette, o eravamo semplicemente due corpi che si strusciavano uno contro l’altro in una stanza affollata? Mi chiedo se il “baciarsi” fossero solo due facce viscide pressate una contro l’altra. Quando il detective gli ha chiesto se aveva intenzione di portarmi nella sua stanza, lui ha detto di no. Quando il detective gli ha chiesto come eravamo finiti dietro il cassonetto, ha detto che non lo sapeva. Ha ammesso di aver baciato altre ragazze alla festa, una delle quali era mia sorella che lo aveva spinto via. Ha ammesso che voleva rimorchiare qualcuna. Io ero l’antilope ferita nel branco, totalmente sola e vulnerabile, fisicamente incapace di difendermi, e ha scelto me. A volte penso, se non fossi mai andata, questo non sarebbe mai successo. Ma poi ho realizzato, sarebbe successo, ma a qualcun’altra. Stavi per cominciare 4 anni di accesso a ragazze sbronze e feste, e se è così che hai iniziato, allora è giusto che non continui. La notte dopo il fatto, ha detto che pensava mi piacesse perché gli ho accarezzato la schiena. Una carezza sulla schiena.
Non ha mai parlato del mio consenso, né detto se avessimo almeno parlato, una carezza sulla schiena. Ancora, nelle notizie, ho scoperto che il mio sedere e la mia vagina erano completamente esposte, il mio seno palpato, dita erano state affondate dentro di me insieme ad aghi di pino e sporcizia, la mia pelle nuda e la mia testa avevano strisciato sulla terra dietro a un cassonetto, mentre una matricola in erezione si muova sul mio corpo seminudo, privo di sensi. Ma io non ricordo nulla, quindi non posso dimostrare che non mi piaceva.
Ho pensato che non saremmo mai arrivati al processo; c’erano testimoni, c’era dello sporco nel mio corpo, lui era scappato ma era stato preso. Patteggerà, chiederà formalmente scusa, e andremo tutti e due per la nostra strada. Invece, mi dissero che aveva ingaggiato un potente avvocato, testimoni esperti, investigatori privati che avrebbero cercato e trovato dettagli della mia vita personale da usare contro di me, trovare incoerenze nella mia storia per sconfessare me e mia sorella, per dimostrare che la sua violenza sessuale era stata, in realtà, un’incomprensione. Mi dissero che avrebbe fatto di tutto per convincere il mondo che si era semplicemente confuso.
Non solo mi avevano detto che ero stata violentata, mi avevano anche detto che siccome non ricordavo niente, tecnicamente non potevo dimostrare che non fosse voluto. E questo mi ha distorto, danneggiato, quasi spezzato. È la confusione peggiore quando ti dicono che sei stata aggredita, quasi violentata, palesemente all’aperto, ma non sappiamo se questo conti come stupro. Ho dovuto combattere per un anno perché fosse chiaro che c’era qualcosa di sbagliato in tutto questo.
- “Sono stata colpita con domande circoscritte, mirate, che dissezionavano la mia vita privatal la mia vita affettiva, passata, familiare, domande vuote, che accumulavano dettagli inutili per cercare di trovare una scusa per questo ragazzo che mi ha spogliata mezza nuda prima ancora di incomodarsi a chiedermi come mi chiamassi.”
Quando mi hanno detto che dovevo prepararmi all’eventualità di non vincere il processo, ho detto, non posso essere pronta a questo. Era colpevole fin dal minuto in cui mi sono svegliata. Nessuno può togliermi con le parole il dolore che mi ha fatto. Peggio ancora, mi avevano avvertito, siccome ora sa che non ricordi niente, sarà lui a scrivere il copione. Può dire quello che vuole e nessuno lo contesterà. Non avevo potere, non avevo voce, ero senza difese. Il mio vuoto di memoria sarebbe stato usato contro di me. La mia testimonianza era debole, incompleta, e mi avevano fatto credere che forse non ero abbastanza per vincere. Il suo avvocato ricordava costantemente alla giuria, l’unico a cui possiamo credere è Brock, perché lei non ricorda. Questa impotenza era un trauma.
Invece che prendermi del tempo per guarire, dovevo perdere tempo a ricordare quella notte in tutti i suoi dolorosi dettagli, per prepararmi alle domande dell’avvocato che sarebbero state invasive, aggressive, e pensate per mandarmi fuori strada, contraddire me e mia sorella, formulate in modo da manipolare le mie risposte. Invece di chiedermi “Hai notato delle abrasioni?” mi ha detto “Non hai notato abrasioni, vero?” Questo era un gioco di strategia, come se potessi essere imbrogliata sulla mia stessa autostima. La violenza sessuale era chiarissima, e invece, eccomi sotto processo, rispondendo a domande come:
Quanti anni ha? Quanto pes? Cosa ha mangiato quel giorno? Va bene, e cosa ha mangiato a cena? Chi ha preparato la cena? Ha bevuto a cena? No, nemmeno acqua? Quando ha bevuto? Quanto ha bevuto? Da quale contenitore ha bevuto? Chi glielo ha dato? Quanto beve di solito? Chi l’ha portato a questa festa? A che ora? Ma esattamente dove? Cosa indossava? Perché ci è andata? Cosa ha fatto quando sei arrivata lì? Sicura di averlo fatto? Ma a che ora? Cosa significa questo messaggio? Con chi si scriveva messaggi? Quando ha urinato? Dove ha urinato? Con chi ha urinato all’aperto? Il suo telefono era muto quando sua sorella l’ha chiamato? Ricorda di averlo messo silenzioso? Davvero, perché a pagina 53 vorrei sottolineare che lei ha detto che era impostato con la suoneria. Beveva al college? Ha detto che era una tipa da festa? Quante volte ha perso conoscenza? Andava alle feste delle confraternite universitarie? È seria col suo ragazzo? È attiva sessualmente con lui? Quando avete cominciato a uscire insieme? Lo tradirebbe mai? Ha mai tradito qualcuno? Cosa intendeva quando haa detto che l’avrebbe ricompensato? Si ricorda a che ora si è svegliata? Indossava il suo cardigan? Di che colore era il suo cardigan? Ricorda qualcos’altro di quella notte? No? Ok, vabbè, lasceremo che ce la racconti Brock.
Sono stata colpita con domande circoscritte, mirate, che dissezionavano la mia vita privatal la mia vita affettiva, passata, familiare, domande vuote, che accumulavano dettagli inutili per cercare di trovare una scusa per questo ragazzo che mi ha spogliata mezza nuda prima ancora di incomodarsi a chiedermi come mi chiamassi. Dopo la violenza fisica, sono stata aggredita con domande pensate per attaccarmi, per poter dire visto, il suo racconto non sta in piedi, non ci sta con la testa, è praticamente un’alcolizzata, sicuramente voleva rimorchiare, del resto lui è un atleta, erano tutti e due sbronzi, vabbè, le cose che si ricorda dall’ospedale, ma lasciamole perdere, Brock ha molto da perdere quindi sta passando davvero un brutto momento adesso.
Poi è venuto il suo turno di testimoniare e ho imparato cosa significa essere ri-vittimizzata. Voglio ricordarvi, che la notte in cui è successo lui ha detto che non pensava di portarmi nella sua stanza. Ha detto che non sapeva perché fossimo dietro un cassonetto. Si era alzato perché non si sentiva bene quando all’improvviso era stato inseguito e attaccato. Poi scoprì che io non ricordavo nulla.
Quindi, un anno dopo, come previsto, emerse una nuova versione. Brock aveva una strana nuova storia, quasi come un pessimo romanzo per giovani adulti dove ci si bacia, si balla, ci si tiene la mano e ci si ama rotolandosi per terra, e soprattutto, all’improvviso spuntò fuori il consenso. Un anno dopo il fatto, si ricorda, oh sì, tra l’altro aveva detto sì, per ogni cosa, quindi.
Ha detto di avermi chiesto se volevo ballare. A quanto pare ho detto sì. Di avermi chiesto se volevo andare nella sua stanza, ho detto sì. Poi mi ha chiesto se poteva toccarmi e ho detto sì. Molti ragazzi non chiedono, posso masturbarti? Di solito c’è una progressione naturale delle cose, che si dispiega in modo consensuale, non un botta e risposta. Ma a quanto pare io avevo dato un permesso totale. Lui è immacolato. Anche in questa versione, io ho detto un totale di tre parole, sì sì sì, prima che mi prendesse mezza nuda sul marciapiede. Per il futuro, se avete il dubbio che una ragazza possa darvi il consenso, verificate se riesce a dire una frase intera. Tu non hai fatto nemmeno questo. Una semplice serie di parole coerenti. Dov’era la confusione? Questo è buon senso, decenza umana.
Sempre secondo lui, l’unico motivo per cui ero in terra è perché ero caduta. Nota: se una ragazza cade, aiutala a rialzarsi. Se è talmente ubriaca da non riuscire a camminare e cade, non salirle sopra, non toglierle i vestiti e non inserire la tua mano nella sua vagina. Se una ragazza cade aiutala a rialzarsi. Se indossa un cardigan sul suo vestito, non toglierglielo per poterle toccare il seno. Magari ha freddo, magari è per quello che lo indossa.
Proseguendo nella storia, due svedesi in bici si avvicinano a te, e tu scappi. Quando ti hanno acciuffato, perché non hai detto “fermi! Va tutto bene, chiedetelo a lei, è proprio lì, ve lo dirà lei.”. Voglio dire, mi avevi chiesto il consenso no? Ero cosciente, no? Quando la polizia è arrivata e ha interrogato il cattivo ragazzo svedese che ti ha bloccato, stava piangendo così forte che non riusciva a parlare per quello che aveva visto.
Il tuo avvocato ha detto più volte, beh non sappiamo esattamente quando ha perso i sensi. Certo, magari stavo ancora sbattendo le palpebre e non ero ancora andata. Non è mai stato questo il punto. Ero troppo sbronza per parlare in inglese, troppo sbronza per acconsentire molto prima che fossi per terra. In ogni caso, non sarei mai dovuta essere toccata. Brock ha dichiarato: “in nessun momento mi sono reso conto che non rispondeva. Se in qualunque momento me ne fossi accorto, mi sarei fermato subito.” Ecco il punto: se pensavi di fermarti solo quando sarei stata priva di sensi, allora non hai ancora capito. Non ti sei fermato neanche dopo, comunque! Qualcun altro ti ha fermato. Due tizi in bicicletta hanno notato nel buio che non mi muovevo e hanno dovuto fermarti. Com’è che non te ne sei accorto tu quando eri sopra di me?
Hai detto che ti saresti fermato e avresti cercato aiuto. Voglio che mi spieghi come mi avresti aiutata, passo dopo passo. Voglio sapere, se quei cattivi svedesi non mi avessero trovato, come sarebbe continuata la nottata. Ti sto chiedendo: mi avresti rimesso il reggiseno? Slacciato la collana che mi stringeva il collo? Avresti chiuso le mie gambe e mi avresti coperto? Tolto gli aghi di pino dai miei capelli? Chiesto se i graffi mi facevano male? Saresti poi andato da un amico a chiedergli se ti aiutava a portarmi in un posto caldo e comodo? Non riesco a dormire quando penso a come sarebbe potuta andare se quei due tizi non fossero mai arrivati. Cosa mi sarebbe successo? È questa la domanda a cui non hai mai dato una risposta decente, è questo che non riesci a spiegare un anno dopo.
E sopra tutto questo, ha detto che io avrei avuto un orgasmo dopo un minuto di penetrazione con le dita. L’infermiera ha detto che c’erano abrasioni, lacerazioni e sporco nei miei genitali. Questo è stato prima o dopo che io venissi?
Sedersi sotto giuramento e informare tutti noi che, sì io lo volevo, sì io l’ho permesso, e che tu sei la vera vittima attaccata dagli svedesi per motivi che non capisci, è tremendo, demente, egoista, pericoloso. È abbastanza per soffrire. È un’altra cosa quella di avere qualcuno che lavora incessantemente per sminuire la gravità della validità di questa sofferenza.
La mia famiglia ha dovuto vedere le foto della mia testa fissata con una cinghia a una barella piena di aghi di pino, del mio corpo nella sporcizia con i miei occhi chiusi, i capelli sconvolti, le membra curve, e il vestito tirato su. A anche dopo questo, la mia famiglia ha dovuto ascoltare il tuo avvocato dire che le foto sono state fatte dopo, che possiamo ignorarle. Per dire, sì la sua infermiera ha confermato che c’erano rossore ed abrasioni dentro di lei, traumi significativi nei suoi genitali, ma è questo che succede quando masturbi qualcuna, e lui lo ha già ammesso. Ascoltare il tuo avvocato cercare di dipingere un ritratto di me, la faccia delle ragazze selvagge, come se questo facesse pensare che me lo potevo aspettare. Ascoltarlo dire che sembravo sbronza al telefono perché sono sciocca e quello è il mio goffo modo di parlare. Precisare che nel messaggio vocale, ho detto che avrei ricompensato il mio ragazzo e sappiamo tutti cosa volevo dire. Vi assicuro che il mio programma di ricompense non è trasferibile, specialmente a un qualsiasi uomo senza nome che si rivolge a me.
- “Questa non è la storia di una ragazza sbronza al college con scarse capacità decisionali. Lo stupro non è un incidente.”
Lui ha creato un danno irreversibile a me e alla mia famiglia durante il processo e noi stiamo stati seduto in silenzio, ascoltandolo dare forma a quella sera. Ma alla fine, le sue dichiarazioni non confermate e la logica contorta del suo avvocato non hanno imbrogliato nessuno. La verità ha vinto, la verità ha parlato da sola.
Sei colpevole. Dodici giurati ti hanno dichiarato colpevole di tre reati oltre ogni ragionevole dubbio, sono dodici voti per reato, dodici sì che confermano la colpa, è il cento per cento, colpa unanime. E ho pensato finalmente è finita, finalmente si renderà conto di quello che ha fatto, si scuserà sul serio, andremo avanti e staremo meglio. Poi ho letto le tue dichiarazioni.
Se speri che uno dei miei organi imploda per la rabbia e io muoia, ci sono quasi. Ci sei molto vicino. Questa non è la storia di una ragazza sbronza al college con scarse capacità decisionali. Lo stupro non è un incidente. Per qualche motivo, continui a non capirlo. Per qualche motivo, sembri ancora confuso. Leggerò adesso parti delle dichiarazioni dell’imputato e risponderò ad esse.
Hai detto: essendo sbronzo non potevo prendere le decisioni migliori, né poteva farlo lei.
L’alcool non è una scusa. È un fattore scatenante? Sì. Ma non è stato l’alcool a spogliarmi, penetrarmi con le dita, farmi strisciare la testa per terra mentre ero quasi nuda. Aver bevuto troppo è stato un errore da dilettante che ammetto, ma non è un crimine. Ognuno in questa stanza ha passato una notte in cui si sono pentiti di aver bevuto troppo, o conosce qualcuno che ha passato una notte in cui si è pentito di aver bevuto troppo. Pentirsi di aver bevuto non è come pentirsi di uno stupro. Eravamo entrambi sbronzi, la differenza è che io non ti ho tolto pantaloni e mutande, toccato in maniera appropriata, e corso via. Questa è la differenza.
Hai detto: se avessi voluto conoscerla, avrei dovuto chiederle il suo numero, invece di chiederle di andare nella mia stanza.
Non sono furiosa perché non hai chiesto il mio numero. Anche se mi avessi conosciuta, non sarei voluta essere in questa situazione. Il mio fidanzato mi conosce, ma se mi avesse chiesto di toccarmi dietro un cassonetto, gli avrei dato uno schiaffo. Nessuna ragazza vuole trovarsi in questa situazione. Nessuna. Non mi interessa se hai il loro numero o no.
Hai detto: ho pensato stupidamente che non c’era niente di male a fare quello che tutti stavano facendo, cioè bere. Mi sono sbagliato.
Ancora una volta: non hai sbagliato a bere. Tutti quelli intorno a te non mi stavano violentando. Hai sbagliato a fare quello che nessun altro stava facendo, cioè spingere il tuo pene eretto nei tuoi pantaloni contro il mio corpo nudo e indifeso, nascosto nell’oscurità, dove nessuno poteva più vedermi o proteggermi, e la stessa mia sorella non poteva trovarmi. Il tuo crimine non è stato sorseggiare una fireball. Strapparmi e scostare la mia biancheria come la buccia di una caramella per inserire le tue dita nel mio corpo, è questo il tuo errore. Perché sto ancora spiegando questa cosa?
Hai detto: durante il processo non volevo vittimizzarla affatto. È stato il mio avvocato e il suo modo di approcciarsi al caso.
Il tuo avvocato non è il tuo capro espiatorio, lui ti rappresenta. Ha detto cose incredibilmente provocatorie e degradanti? Assolutamente sì. Ha detto che avevi un’erezione, perché c’era freddo.
Hai detto di essere in procinto di cominciare un programma per studenti delle superiori e del college nel quale parlerai della tua esperienza, per “prendere posizione contro la cultura del bere nelle università e la promiscuità sessuale che ne consegue”.
La cultura del bere nelle università. È di questo che stiamo parlando? Pensi che sia questo ciò che ho combattuto da un anno a questa parte? Non la conoscenza sulla violenza sessuale nei campus, o lo stupro, o imparare a riconoscere il consenso. La cultura del bere. Abbasso il Jack Daniels. Abbasso la Vodka Skyy. Se vuoi parlare alla gente del bere vai a un incontro di alcolisti anonimi. Ti rendi conto che avere un problema con l’alcool è diverso da bere e cercare di costringere qualcuno a fare sesso con te? Mostra agli uomini come rispettare le donne, non come bere di meno.
La cultura del bere e la promiscuità sessuale che ne consegue. Ne consegue, come un effetto collaterale, come le patate fritte insieme alla tua cena. Dove sta la promiscuità in tutto questo? Non vedo titoli che dicano Brock Turner, colpevole di aver bevuto troppo e della promiscuità sessuale che ne consegue. Violenza Sessuale nel Campus. Questa è la tua prima slide di powerpoint. Te lo assicuro, se non riesci a correggere l’argomento dei tuoi discorsi, ti seguirò in ogni scuola in cui andrai e farò una presentazione anche io.
Infine hai detto: voglio mostrare alla gente che una notte di bevute può rovinare una vita.
Una vita, una vita, la tua, hai dimenticato la mia. Lascia che lo riformuli per te. Volevo mostrare alla gente che una notte di bevute può rovinare due vite. Tu ed io. Tu sei la causa, io l’effetto. Mi hai trascinato in questo inferno con te, mi hai immerso di nuovo in quella notte ancora e ancora. Hai buttato giù entrambe le nostre torri, io sono crollata quando sei crollato tu. Se pensi che sono stata risparmiata, che ne sono venuta fuori indenne, che oggi me ne andrò cavalcando verso il tramonto, mentre tu soffrirai il colpo peggiore, ti stai sbagliando. Non vince nessuno. Siamo stati tutti devastati, abbiamo tutti cercato un significato in tutta questa sofferenza. Il tuo danno è concreto: spogliato di titoli, lauree, iscrizione. Il mio danno è interno, non visto, lo porto con me. Mi hai portato via l’autostima, la mia privacy, la mia energia, il mio tempo, la mia sicurezza, la mia intimità, la mia fiducia, la mia stessa voce, fino a oggi.
Vedi, una cosa che abbiamo in comune è che entrambi non siamo riusciti ad alzarci la mattina. La sofferenza non mi è estranea. Mi hai reso una vittima. Nei giornali il mio nome era “donna intossicata priva di sensi”, poche sillabe, e non molto di più. Per un po’, ho creduto fosse tutto ciò che ero. Mi sono dovuta forzare per imparare di nuovo il mio nome, la mia identità. Imparare che questo non è tutto ciò che sono. Che non sono solo la vittima ubriaca a una festa universitaria, trovata dietro un cassonetto, mentre tu sei il nuotatore all-american di un’università d’élite, innocente fino a prova contraria, con tante cose da perdere. Io sono un essere umano che è stato colpito irreversibilmente, la mia vita è stata messa in sospeso per più di un anno, aspettando di capire se valevo qualcosa.
La mia indipendenza, la mia gioia innata, la gentilezza e lo stile di vita che avevo sono stati distorti e resi irriconoscibili. Sono diventata chiusa, arrabbiata, troppo critica con me stessa, stanca, irritabile, vuota. L’isolamento a volte era insostenibile. Non potrai restituirmi la vita che avevo prima di quella notte. Mentre tu ti preoccupi per la tua reputazione rovinata, io mettevo ogni notte dei cucchiai in frigo per sgonfiare gli occhi dopo una notte passata a piangere. Arrivavo a lavoro con un’ora di ritardo ogni mattina, assentandomi per piangere nelle scale, posso dirti i posti migliori di quell’edificio dove piangere senza che nessuno ti senta. Il dolore era così forte che ho dovuto spiegare i miei dettagli privati alla mia principale per farle sapere perché me ne stavo andando. Avevo bisogno di tempo perché continuare così ogni giorno non era possibile. Ho usato i miei risparmi per andare avanti finché ho potuto. Non sono tornata a lavorare a tempo pieno perché sapevo che avrei dovuto prendermi delle settimane libere per gli interrogatori e il processo, che venivano costantemente rinviati. La mia vita è rimasta in sospeso per un anno, la mia struttura era collassata.
Non riesco a dormire la notte senza la luce accesa, come una di cinque anni, perché ho gli incubi in cui vengo toccata senza riuscire a svegliarmi, aspettavo che sorgesse il sole per sentirmi abbastanza sicura per dormire. Per tre mesi, sono andata a dormire alle sei del mattino.
Mi vantavo della mia indipendenza, ora ho paura a passeggiare la sera, a uscire a bere con gli amici con i quali dovrei sentirmi a mio agio. Sono diventata un paguro che ha sempre bisogno di stare accanto a qualcuno, di avere il mio ragazzo sempre accanto a me, dormendo con me, proteggendomi. È imbarazzante quanto mi sento debole, quanto timidamente mi muovo nella vita, sempre in guardia, pronta a difendermi, pronta ad essere arrabbiata.
Non hai idea di quanto ho dovuto lavorare sodo per ricostruire parti di me che sono ancora deboli. Mi ci sono voluti otto mesi solo per parlare di ciò che era successo. Non riuscivo più a connettermi con le mie amiche, con tutti quelli che erano intorno a me. Gridavo contro il mio fidanzato e la mia famiglia quando tiravano fuori l’argomento. Non mi farai mai perdonare quello che mi è successo. Alla fine degli interrogatori, del processo, ero troppo stanca per parlare. Andavo via svuotata, muta. Tornavo a casa spegnevo il telefono e per giorni non parlavo. Mi hai comprato il biglietto per un pianeta dove vivevo sola. Ogni volta che un nuovo articolo veniva fuori, vivevo con la paranoia che la mia intera città natale lo avrebbe scoperto e mi avrebbe conosciuta come la ragazza che è stata violentata. Non volevo la pietà di nessuno e sto ancora imparando ad accettare la vittima come parte della mia identità. Hai reso la mia città un posto in cui mi sento a disagio.
Non puoi restituirmi le notti insonni. Il modo in cui rompevo in lacrime senza controllo vedendo una donna che veniva ferita, per dirla con leggerezza, questa esperienza ha espanso la mia empatia per le altre vittime. Ho perso peso per lo stress, e quando la gente commentava gli dicevo che stavo facendo molta corsa. Ci sono volte in cui non voglio essere toccata, devo imparare di nuovo che non sono fragile, che sono capace, che sono integra, non solo livida e debole.
Quando vedo mia sorellina stare male, non riuscire a stare dietro alla scuola, quando la vedo senza gioia, quando non dorme, quando piange così forte al telefono da non riuscire a respirare, dicendomi ancora e ancora che le dispiace per avermi lasciata da sola quella notte, scusa scusa scusa, quando lei si sente più in colpa di te, allora io non ti perdono. Quella notte l’ho chiamata per cercarla, ma tu mi hai trovato per primo. La dichiarazione finale del tuo avvocato comincia così: “[sua sorella] ha detto che stava bene, e chi la conosce meglio di sua sorella?” Hai cercato di usare mia sorella contro di me? I tuoi obiettivi d’attacco erano così deboli, così bassi, che era quasi imbarazzanti. Non provare a toccarla.
Non avresti mai dovuto farmi questo. Non avresti dovuto farmi combattere così tanto per dirti che non mi avresti mai dovuto fare questo. Ma eccoci qui. Il danno è fatto, non si torna indietro. E ora abbiamo entrambi una scelta: possiamo lasciare che questo ci distrugga, posso rimanere furiosa e ferita e tu puoi continuare a negare, o possiamo affrontarlo di petto, io accetto il dolore, tu accetti la punizione, e andiamo avanti.
La tua vita non è finita, hai decine di anni per riscrivere la tua storia. Il mondo è grande, molto più grande di Palo Alto e Stanford, e troverai uno spazio in cui sentirti utile e felice. Ma adesso, non puoi più scuotere le spalle ed essere confuso. Non puoi fingere che non ci siano state bandiere rosse. Sei stato dichiarato colpevole di avermi violata, intenzionalmente, forzatamente, sessualmente, con cattive intenzioni, e tutto ciò che ammetti è di aver bevuto. Non parlare di come la tua vita è diventata triste perché l’alcool ti ha fatto fare cose brutte. Cerca di capire come prenderti la responsabilità per la tua condotta.
Ora, la sentenza. Quando ho letto il rapporto dell’ufficiale per la libertà vigilata, ero incredula, consumata dalla rabbia che è diventata poi profonda tristezza. Le mie dichiarazioni sono state ridotte fino a essere distorte e decontestualizzate. Ho combattuto duramente in questo processo e non lascerò che il risultato sarà minimizzato da un ufficiale che ha tentato di valutare il mio stato e i miei desideri in una conversazione di quindici minuti, buona parte della quale passata a rispondere alle mie domande sul sistema legale. Anche il contesto è importante. Brock doveva ancora rilasciare la sua dichiarazione, io non avevo letto le sue osservazioni.
La mia vita è rimasta in sospeso per più di un anno, un anno di rabbia, angoscia e incertezza, finché una giuria di cittadini ha dato un giudizio che ha riconosciuto le ingiustizie che ho sopportato. Se Brock avesse ammesso la sua colpevolezza e il suo rimorso, e avesse offerto un patteggiamento da prima, avrei potuto accettare una sentenza più leggera, rispettando la sua onestà, grata per poter tornare alle nostre vite. Invece ha scelto il rischio di andare a processo, aggiunto l’insulto all’ingiuria, costringendomi a rivivere il dolore quando dettagli sulla mia vita privata e sulla violenza che ho subito venivano brutalmente dissezionati davanti al mondo. Ha spinto me e la mia famiglia in un anno di inspiegabile, non necessaria sofferenza, e dovrebbe affrontare le conseguenze di aver messo in dubbio il suo crimine, aver questionato il mio dolore, averci fatto aspettare tanto per la giustizia.
Ho detto all’ufficiale che non volevo che Brock marcisse in prigione, ma non ho detto che non meritasse di stare dietro le sbarre. La raccomandazione di un anno, al massimo, nelle prigioni della contea è una leggera pausa, una presa in giro alla serietà delle sue aggressioni, un insulto a me e a tutte le donne. Fa passare il messaggio che un estraneo può essere dentro di te senza il tuo consenso e sarà condannato a una pena inferiore a quella minima. La libertà vigilata dovrebbe essere negata. Ho anche detto all’ufficiale che quello che davvero volevo era che Brock ci arrivasse, che capisse e ammettesse il suo reato.
Sfortunatamente, dopo aver letto il rapporto dell’imputato, sono veramente delusa e penso che non abbia mostrato sincero rimorso o riconoscimento di responsabilità per la sua condotta. Ho rispettato pienamente il suo diritto al processo, ma anche dopo che 12 giurati hanno unanimemente riconosciuto la sua colpevolezza, tutto ciò che ha ammesso è di aver ingerito alcool. Uno che non riesce a riconoscere la piena responsabilità delle proprie azioni non merita una sentenza mitigata. È profondamente offensivo che lui cerchi di diluire lo stupro con la suggestione della “promiscuità”. Per definizione, lo stupro è assenza di promiscuità, lo stupro è assenza di consenso, e mi disturba profondamente che non sappia vedere questa distinzione.
L’ufficiale per la libertà vigilata si è basato sul fatto che l’imputato è giovane e incensurato. Secondo me, è abbastanza cresciuto per capire che ciò che ha fatto è sbagliato. Quando hai 18 anni, in questo paese, puoi andare in guerra. Quando hai 19 anni, ne hai abbastanza per pagare le conseguenze di un tentativo di stupro. È giovane, ma abbastanza cresciuto per sapere cosa ha fatto.
Essendo il primo reato, capisco la questione dell’indulgenza. D’altra parte, come società, non possiamo perdonare la prima violenza sessuale e stupro digitale di tutti. Non ha senso. La serietà dello stupro deve essere comunicata in modo chiaro, non dobbiamo creare una cultura che voglia insegnare a tentativi che lo stupro è sbagliato. Le conseguenze dello stupro devono essere abbastanza severe perché le persone siano sufficientemente spaventate da pensarci due volte anche se sono ubriache, abbastanza severe da essere deterrenti.
L’ufficiale ha tenuto conto del fatto che l’imputato aveva già perso una borsa di studio ottenuta duramente con il nuoto. La velocità di Brock nel nuoto non riduce la gravità di ciò che mi è successo, e non dovrebbe consentire di ridurre la severità della sua punizione. Se un incensurato proveniente da una classe non privilegiata fosse stato accusato di tre reati, e non avesse mostrato nessun riconoscimento del suo misfatto a parte l’aver bevuto, quale sarebbe stata la sentenza? Il fatto che Brock fosse atleta in una università provata non deve essere considerato un titolo per le attenuanti, ma l’opportunità per mandare il messaggio che la violenza sessuale è contro la legge al di là della classe sociale.
L’ufficiale ha deciso che questo caso, comparato ad altri crimini di natura simile, può essere considerato meno serio visto il livello di intossicazione dell’imputato. È stato serio. Questo è tutto ciò che ho da dire.
Cosa ha fatto per dimostrare che ha bisogno di una pausa? Ha solo chiesto scusa per aver bevuto e ancora non definisce violenza sessuale ciò che mi ha fatto, mi ha ri-vittimizzato continuamente, implacabilmente. È stato riconosciuto colpevole di tre reati gravi ed è ora che accetti le conseguenze delle sue azioni. Non sarà scusato facilmente.
Sarà per sempre registrato come aggressore sessuale. È una cosa che non scadrà mai. Ma neanche quello che ha fatto a me scadrà, non se ne andrà dopo un certo numero di anni. Resta con me, è parte della mia identità, ha cambiato per sempre il modo in cui mi porto, il modo in cui vivrò il resto della mia vita.
Per concludere, voglio dire grazie. A tutti e tutte, da chi mi ha preparato la colazione quando mi sono svegliata in ospedale quella mattina, all’agente che ha aspettato con me, alle infermiere che mi hanno calmato, all’investigatore che mi ha ascoltato senza giudicarmi, ai miei difensori che sono stati sempre incrollabilmente accanto a me, alla mia terapista che mi ha insegnato a trovare il coraggio nella vulnerabilità, alla mia direttrice per essere stata gentile e comprensiva, ai miei incredibili genitori che mi hanno insegnato come trasformare il dolore in forza, a mia nonna che introduceva cioccolato nell’aula giudiziaria per darlo a me, le mie amiche che mi ricordano come essere felice, il mio fidanzato così paziente e amorevole, la mia inespugnabile sorella che è l’altra metà del mio cuore, ad Alaleh, il mio idolo, che ha combattuto instancabilmente e non ha mai dubitato di me. Grazie a tutte le persone coinvolte nel processo per il loro tempo e la loro attenzione. Grazie alle ragazze di tutta la nazione che hanno scritto lettere per me, tante persone estranee che si sono preoccupate per me.
Soprattutto, ringrazio i due uomini che mi hanno salvata, e che ancora non ho incontrato. Dormo con due biciclette che ho disegnato e attaccato sul muro sopra il mio letto per ricordare a me stessa che in questa storia ci sono degli eroi. Che ci si interessa l’uno dell’altra. Aver conosciuto tutte queste persone, aver sentito la loro protezione e il loro amore, è qualcosa che non dimenticherò mai.
E infine, a tutte le ragazze in ogni parte del mondo, sono con voi. Nelle notti in cui vi sentite sole, sono con voi. Quando la gente dubita di voi o vi sminuisce, sono con voi. Ho combattuto ogni giorno per voi. Quindi non smettete mai di combattere, io vi credo. Come ha scritto una volta Anne Lamott, “I fari non scrutano le isole in cerca di barche da salvare; stanno semplicemente lì a illuminare.” Anche se non posso salvare ogni barca, spero che il mio discorso di oggi vi abbia portato un po’ di luce, un po’ di consapevolezza che non potete essere silenziate, una piccola soddisfazione per una giustizia fatta, una piccola rassicurazione che stiamo ottenendo qualcosa, e una grande, grande consapevolezza che siete importanti, indiscutibilmente, siete intoccabili, belle, e meritate di essere stimate, rispettate, innegabilmente, ogni minuto di ogni giorni, siete potenti e nessuno ve lo può togliere. A tutte le ragazze, sono con voi. Grazie.