La maschilità è un’idea politicamente costruita

tra le varie cose che sto leggendo traducendo e scrivendo sul tema del maschile da demolire, volevo condividere la traduzione di questi “pensieri conclusivi” tratti da “Refusing to be a man” di John Stoltenberg.

L’identità sessuale maschile non è un “ruolo”.

Non è un insieme di tratti anatomici.

L’identità sessuale maschile – la credenza che uno sia maschio, la credenza che esista un sesso maschile, la credenza che uno vi appartenga – è un’idea politicamente costruita.

Significa che la mascolinità è una costruzione etica: la costruiamo con le nostre azioni, con le cose che scegliamo di fare e di non fare, con le nostre azioni consapevoli che siano le cose “maschie” da fare. Molte delle nostre scelte dipendono dalla nostra volontà di realizzare la nostra idea di maschilità, per non pensare al fatto che, in realtà, la divisione della nostra specie in due classi separate e distinte di sesso possa essere profondamente sbagliata. Molte delle nostre scelte dipendono dal dissociarci da tutto ciò che viene codificato e stigmatizzato come “femmina”. Molte delle nostre scelte derivano dalla volontà di “disidentificarci” con le donne. Molte delle nostre scelte creano la condizione di essere sessuat*.

Finché continueremo a provare ad agire in modi che ci confermano “uomini”, siamo condannati alla paralisi, alla colpa, al disprezzo per noi stessi e all’inerzia. Finché cerchiamo di agire come uomini, per continuare a essere uomini, per fare la nostra parte nella costruzione sociale dell’entità che è la classe sessuale degli uomini, condanniamo le donne all’ingiustizia: l’ingiustizia che risiede nell’idea stessa che esistano due sessi.

L’identità sessuale maschile è costruita attraverso le scelte che facciamo e le nostre azioni. Non possiamo continuare a costruirla e al tempo stesso considerarci pienamente femministi. Non si può restare aggrappati al proprio genere come cuore del proprio io, e pensare di essere in qualche modo utili alla battaglia. Bisogna cambiare il centro del proprio io, perché sappia amare la giustizia più della maschilità [One must change the core of one’s being. The core of one’s being must love justice more than manhood.]

 

da “Refusing to be a man”, di John Stoltenberg, p.182 dell’edizione Fontana (UK) del 1990.

Le femministe non sono responsabili dell’educazione degli uomini

di Cecilia Winterfox

Sono una femminista rumorosa, con molti, amabili e intelligenti amici maschi, e mi imbatto spesso nella loro indignazione quando scelgo di non confrontarmi con loro sul femminismo. Oh, certo, se ci tenessi davvero a cambiare la nostra cultura di discriminazione e ineguaglianza, dovrei provare a cambiare gli uomini! Non è questo il lavoro di un’attivista? Le femministe non dovrebbero essere grate quando gli uomini ci rimbalzano le domande, perché mostrano di stare almeno provando a capire?

Veniamo estenuate e sviate dall’aspettativa che dobbiamo essere noi a dover spiegare cose basilari a uomini che non si sono mai scomodati a pensare al loro privilegio. Gli uomini non hanno il diritto di aspettarsi che siano le femministe a educarli. Il vero cambiamento arriverà quando gli uomini accetteranno che l’onere dell’educazione è su di loro, non sulle donne.

by Tatsuya Ishida

Poco tempo fa, ho gentilmente rifiutato di discutere con un amico: rimasto perplesso, ha insistito mandandomi alcuni consigli ben intenzionati sul come sarei potuta essere una femminista più efficace. Non avendo mai pensato molto al femminismo prima, disse, proprio non trovava i miei post sui social interessanti. Troppo urlati e accademici. Ciò di cui avevo bisogno era di spiegare le cose in un modo invitante per gli uomini.

Considerando sé stesso come il genere di tizio che ‘potrebbe essere parte della soluzione’, mi mandò opportunamente un link a un TEDtalk di 12 minuti che conteneva, parole sue, “un semplice test sì/no” per la misoginia insieme a delle proposte di azioni per risolvere il problema. Con notevole presunzione mi suggerì, per la prossima volta che mi venisse chiesto di educare un uomo sinceramente interessato a sapere di più sul femminismo, di mandare questo agile audiomessaggio che aveva appena trovato per me.

È impressionante che al 50% della popolazione venga così regolarmente richiesta una strategia di marketing per liberarsi dallo svantaggio strutturale e la violenza sistemica.

Ecco quale è il problema nel vedersi accollare il ruolo di tenere la manina di ogni singolo uomo, mentre scopre la possibilità che, nonostante il suo considerarsi buono e di oneste intenzioni, sia il beneficiario della oppressione strutturale verso le donne: fa veramente male. Il patriarcato colpisce le donne ogni giorno. Ma per quanto sia traumatico discutere la cultura dello stupro, per esempio, viviamo nella speranza che mostrando agli uomini quanto faccia male loro cominceranno a capire e diventeranno nostri alleati. Quando gli uomini sembrano interessarsi al discorso femminista, entra in azione questa speranza. Ma mentre loro possono giocare all’avvocato del diavolo, snocciolare ipotesi totalmente disconnesse dalla loro realtà e poi chiamarsene fuori alla fine, per le donne queste discussioni richiedono di esporsi ed essere vulnerabili; sono la condivisione della nostra concreta esperienza vissuta.

L’argomento più comune è: Se Non Mi Educhi Come Posso Imparare. Funziona così. Il sedicente Bravo Ragazzo si inserisce nella discussione con un sincero appello alle femministe perché si confrontino con le sue opinioni personali. Dopo aver superato a fatica il suo pungente disagio per l’atteggiamento acido, risentito e aggressivo delle femministe (ma non senza aver sottolineato questo suo sacrificio) Bravo Ragazzo è sconvolto dal fatto che le sue teorie non vengano discusse immediatamente e in maniera ragionevole e non arrabbiata. Nonostante le centinaia di risorse sull’argomento che potrebbe, come tutte noi, andarsi a leggere, Bravo Ragazzo si aspetta che le donne smettano di fare quello che stanno facendo, e condividano con lui le loro esperienze di oppressione e rispondano alle sue domande. Ironicamente, Bravo Ragazzo non si rende conto che chiedendo alle donne di usare le loro forze per gratificare immediatamente i suoi capricci, sta rinforzando le dinamiche di potere che dice di voler capire.

È ovvio che non c’è niente di male nell’avere delle semplici domande sul femminismo. Decifrare qualcosa di così complesso e insidioso come il patriarcato, in particolare quando richiede un’analisi del proprio stesso privilegio, non è facile. Ma diventa problematico quando sei così convinto che le tue domande siano COSÌ TANTO IMPORTANTI che fai di tutto per inserirti e deviare le discussioni tra femministe perché siano ascoltate.

Prendo in prestito l’analogia di un’altra donna:

“È come se entrassi nell’aula di un seminario di dottorato di matematica, urlando “Ehi, come potete usare numeri immaginari se non sono nemmeno reali?”. E ses qualcuna distrattamente ti indicasse un libro del primo anno, lo sfogliassi senza leggere per un paio di secondi e dicessi “non sono d’accordo con alcune di queste definizioni — e comunque non mi avete risposto. Nessuna vuole discutere con me?!!”

Questa incredulità è solitamente accompagnata da una sonora sgridata per essere state sarcastiche, irragionevoli, illogiche, ingrate e acide. Ora, come donna cresciuta sotto il patriarcato sono stata educata a reagire all’approvazione e alla stima degli uomini. Avendo sofferto le conseguenze della disapprovazione degli uomini, il conflitto è contro-intuitivo per me. È allettante l’idea di cedere al desiderio di essere riconosciute come femminista “buona” che prende del tempo per spiegare le cose in modo educato, divertente, brillante. Ma, colpo di scena!: il femminismo educato non solo non funziona, è veramente controproducente.

Spendere tempo ed energie a nutrire gli uomini nel loro viaggio di auto-scoperta non è solo incredibilmente inutile, ma serve proprio a rinforzare le dinamiche di potere esistenti e ci distrae dall’unirci come donne e portare avanti il vero cambiamento.

Il mio consiglio agli uomini che davvero voglio conoscere il femminismo è questo: leggete e ascoltare le voci delle donne quando spiegano cos’è la misoginia e come funziona. Non chiedete alle donne di trovare risorse per voi; seriamente, iscrivetevi alla biblioteca, o abbonatevi a internet. Non interrompete per controbattere o sviare usando esempi singoli di donne in posizioni di potere o citando situazioni che vi sembrano “sessismo inverso” (ecco una dritta: la “misandria” non esiste).

Parafrasando Audre Lorde:

“Quando ci si aspetta che le persone di colore mostrino ai bianchi la propria umanità, che le donne educhino gli uomini, che le lesbiche e i gay educhino il mondo eterosessuale, gli oppressori mantengono la loro posizione e fuggono dalla responsabilità per le loro azioni”.

Se fai parte di un gruppo che ha i vantaggi strutturali di stipendi, sicurezza, salute ed educazione — quando hai praticamente vinto la lotteria della vita solo essendo nato — è tua responsabilità educare te stesso. E davvero, non dire alle donne di essere gentili. Siamo arrabbiate. Ne abbiamo tutte le ragioni. Sinceramente, dovresti esserlo anche tu.

(traduzione mia — tratto dalla raccolta “No nacemos machos — Cinco ensayos sobre la masculinidad”, liberamente scaricabile qui https://edicioneslasocial.files.wordpress.com/2017/03/masculinidades-web.pdf)

“Bar Bahar – In between”: libere, disobbedienti e belle

“Bar Bahar – In between”, maldestramente tradotto in italiano come “Libere, disobbedienti e belle”, è un film che racconta le vicende di tre ragazze palestinesi che vivono a Tel Aviv.

Leila e Salma sono coinquiline e amiche: all’inizio del film le vediamo divertirsi nel privée di un discobar, tra alcol e cocaina, insieme ai loro amici gay. Leila è un’avvocata penalista, spregiudicata nel lavoro e nel divertimento; Salma lavora in un ristorante, è lesbica e proviene da una famiglia rurale cristiana alla quale ha sempre nascosto la propria identità. Il loro stile di vita urbano ed elettrico viene messo in crisi dall’arrivo di Nour, cugina del loro amico Rafeef, che ha chiesto alle ragazze di ospitarla mentre studia per l’ultimo semestre di informatica. Nour è una ragazza molto tradizionalista, fidanzata con l’attivista integralista Wissam che non vede di buon occhio il fatto che lei viva nella peccaminosa Tel Aviv e che Nour voglia lavorare invece di stare a casa.

Per non rivelare niente fermo qui il racconto per parlare invece di quello che, secondo me, colpisce nel film. “In between” è diretto dalla regista palestinese Maysaloun Hamoud, nata in Ungheria e cresciuta in Israele; è girato e prodotto in Israele dalla stessa regista e da Shlomi Elkabetz, finanziato da Deux Beaux Garçons Film e dalla Israeli Film Production. Leggendo queste informazioni nei titoli di testa, e conoscendo a grandi linee la trama, ho pensato a un’ennesima operazione di pinkwashing. Dopo aver visto il film, non ne sono così convinto.

Leila, Salma e Nour vivono in Israele: lo sappiamo soprattutto perché Tel Aviv è menzionata spesso. Non si parla mai del conflitto tra israeliani e palestinesi, ma c’è un accenno notevole nella scena in cui Salma, lavorando nel ristorante, scherza coi colleghi in arabo (nota: il film è recitato tutto in arabo, i pochi dialoghi in lingua ebraica sono sottotitolati e non doppiati in italiano) finché entra il loro supervisore che li ammonisce: “vi avevo detto di non parlare arabo qui dentro, lo sapete che ai clienti dà fastidio”.

In tutto il resto del film Israele è praticamente inesistente: gli amici delle ragazze sono tutti palestinesi, gli israeliani sono solo personaggi di contorno. Ma la cosa più importante è che dalle vicende difficili che le coinvolgono, Leila, Salma e Nour ne escono da sole. Il film, quindi, non presenta la solita cornice narrativa in cui le povere ragazze arabe vengono salvate dall’occidente non-musulmano e democratico; al contrario, come ha detto la regista Hamoud in un’intervista, “L’ipocrisia è dappertutto, non soltanto nel mondo mussulmano […] il mio [film] affronta un tema piuttosto universale, non è solo sulle donne arabe. Questi comportamenti e questi problemi attraversano tutto il mondo, l’Europa, il Medio Oriente, gli Stati Uniti, l’America Latina, l’Africa. Il mondo occidentale può pensare di essere migliore ma le statistiche sulle donne non mentono!”.

Non solo: “Bar Bahar – In between” è un film nel quale non ci sono protagonisti maschili positivi, con la parziale eccezione della figura vagamente positiva del padre di Nour. Ancora Hamoud spiega: “Nel mio film non ci sono uomini buoni o cattivi, solo esseri umani che si comportano a seconda delle tradizioni da cui provengono […] Certi comportamenti nei confronti delle donne non sono una questione di provenienza religiosa. Il padre di Salma, che è un arabo cristiano, reagisce esattamente come farebbe un ebreo o un mussulmano”. Quello che più mi ha colpito, e che non è usuale ritrovare nei film o nei libri, è che le ragazze, appunto, si destreggiano da sole; e per quanto il finale non sia un perfetto lieto fine, la sensazione che resta è quella di tre protagoniste effettivamente libere perché capaci di autodeterminarsi pur tra mille difficoltà, disobbedienti a modo loro, e in definitiva sì, anche belle. Ma di una bellezza che si distacca dalla figura della donna pura, autorevole, immacolata combattente: Leila Salma e Nour sono forti, magari anche poco amabili, piene di difetti, ma assolutamente vere.

Qui il trailer italiano su MyMovies: http://www.mymovies.it/film/2016/inbetween/

Lettera di una donna all’uomo che l’ha stuprata

Nel gennaio del 2015 Brock Turner, studente a Stanford, violenta una ragazza durante una festa. Turner, che rischiava fino a 14 anni, è stato alla fine condannato a 6 mesi (!) e non ha mai riconosciuto pienamente la propria colpevolezza.

La donna che ha subito lo stupro ha scelto, alla fine del processo, di leggere una lettera rivolta direttamente allo stupratore. Si tratta di un discorso di un valore incredibile, sia dal punto di vista emotivo che politico. Qualcosa che dovrebbe essere conosciuto, letto e analizzato ovunque. Avevo iniziato a tradurlo il giorno stesso in cui l’ho letto, e anche se sta già girando una sua traduzione, voglio pubblicare lo stesso la mia. Del resto, più ce ne sono e meglio è.

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Foto: Yoz Grahame (Flickr)

Vostro onore, se è possibile, vorrei rivolgermi soprattutto direttamente all’imputato.

Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che siamo qui oggi. Continue reading

“Sex and the teens”: ma che davero???

The movie "Quadrophenia", directed by Franc Roddam.  Seen here from left, Leslie Ash as Steph and Phil Daniels as Jimmy.  Initial USA theatrical release November 2, 1979.  Screen capture. © 1979 The Who Films Ltd. Credit: © 1979 The Who Films Ltd. / Flickr / Courtesy Pikturz.  Image intended only for use to help promote the film, in an editorial, non-commercial context.

The movie “Quadrophenia”, directed by Franc Roddam. Seen here from left, Leslie Ash as Steph and Phil Daniels as Jimmy. Initial USA theatrical release November 2, 1979. Screen capture. © 1979 The Who Films Ltd. Credit: © 1979 The Who Films Ltd. / Flickr / Courtesy Pikturz.
Image intended only for use to help promote the film, in an editorial, non-commercial context.

In quel gioiello di album che è “The miseducation of Lauryn Hill”, alcune canzoni sono introdotte da dialoghi registrati probabilmente in una scuola. Non ne ho la certezza, ma l’impressione è che Hill sia andata (insieme a uomini, cosa da non sottovalutare) nelle scuole a parlare con ragazzi e ragazze di amore e, probabilmente, anche sesso. In “Doo wop (that thing)”, Hill parla direttamente a loro, prima chiedendo alle ragazze di rispettare sé stesse (“Don’t be a hardrock when you’re really a gem, Babygirl, respect is just a minimum”), perché “it’s silly when girls sell their soul because it’s in”, ma senza atteggiamenti di superiorità (“Now Lauryn is only human, Don’t think I haven’t been through the same predicament”). Poi si rivolge ai ragazzi, “more concerned with his rims and his Timbs than his women, him and his men come in the club like hooligans” e spiega: “Money taking, heart breaking, now you wonder why women hate men, the sneaky silent men the punk domestic violence men” e conclude “stop acting like boys and be men”. Ma non rinuncia a rivolgere un messaggio rivolto a tutt*: “guys/girls you better watch out, some guys/girls are really about that thing”. Senza indugiare nella più facile delle morali, Hill ricorda di non farsi illudere dalle promesse d’amore di chi vuole solo that thing.

Ho pensato subito a questo dopo aver visto “Sex and the teens”, “inchiesta” video pubblicata da Sky e curata da Beatrice Borromeo. Ho visto questo “documentario” ispirato dalla critica letta su NarrAzioni differenti, ma a differenza della blogger vorrei portare un diverso punto di vista, quello di uno che ha fatto il giornalista, che vorrebbe continuare a farlo e che nell’attesa si interroga costantemente sul significato di questa professione. Continue reading

Maschi e femmine

Un post stupido, generico, magari superficiale, che parla dei maschi e delle femmine. E, nello specifico, dell’essere maschio. E’ difficile scrivere di ciò, perché il timore è sempre quello di trovare un genio che ti dice “ma le donne sono tutte troie”, o una femminista dalla cultura immensa che ti massacra concettualmente. Il che è probabile, perché dal punto di vista delle “questioni di genere”, sono veramente ignorante.

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