Se vogliamo superare il concetto di “alleati” e portare la lotta nel nostro campo dobbiamo trovare una forma concreta e visibile per farlo. Ma come si può provare a decostruire il nostro stesso genere, a incarnare un’alterità alla norma che noi stessi rappresentiamo?
Questo vale in particolare per noi uomini, cis e etero. Ogni corpo è disciplinato da regole e divieti, ma nel nostro caso, queste sono intrecciate profondamente con il privilegio che le accompagna. La norma etero ci “reprime” ma ci gratifica con il potere. Dobbiamo scoprire, coltivare e rendere visibile il nostro “aspetto imprevisto”, far venire fuori la nostra “soggettività repressissima”, rinunciare alla gratificazione del privilegio, spezzare il circolo della complicità e portare discordia e disordine nel nostro campo.
Questo discorso è particolarmente importante adesso che i movimenti femministi e lgbtq sono tornati nel dibattito collettivo, e viene posta – spesso in maniera conflittuale – la questione dello spazio degli uomini, nei primi, e delle persone etero, specie uomini, nei secondi. Spazio che sembra essere più preteso, come questione di principio, che non davvero sentito necessario per portare un contributo; come i gatti quando pretendono che gli si lasci la porta aperta anche se non vogliono davvero entrare. Il problema ovviamente non sta in una volontà di discriminare (l’inesistente sessismo al contrario) ma nel fatto che spesso questo spazio viene usato per riportare la norma eterosessista all’interno del campo alternativo. Senza nascondere che sia già difficile, anche per le soggettività più represse, disidentificarsi dalla norma, lo è a maggior ragione per chi come detto quella norma la incarna e, in verità, spesso non ha nemmeno la volontà di allontanarsene. A questo contribuisce, forse, l’azione ‘inclusiva’ delle forze economiche e politiche dominanti, volta a neutralizzare la carica rivoluzionaria dei movimenti femministi e lgbtq, proponendo una maggiore inclusione e anche una tutela da parte dello Stato e delle aziende, a patto che non ne vengano messe in discussione le premesse – famiglia, matrimonio, competizione ecc. In questo contesto culturale, queste entità si pongono come alleate delle donne e delle soggette lgbtq nella battaglia contro le forze fondamentaliste; il risultato è che molte persone si sentono legittimate a sentirsi alleate pur facendo davvero pochissimo, senza interrogarsi sulla complessità della norma eterosessista e i modi in cui essi la incarnano.
Non si tratta infatti soltanto di ‘accettare’ una ‘diversità’. L’imposizione dell’eteronormatività poggia proprio sulla facilità con la quale siamo abituati a pensare che esistano un limite e una gerarchia tra ciò che è vero e ciò che è falso, come tra ciò che è puro (razionale) e impuro (irrazionale), quindi tra ragione e follia, oggi potremmo aggiungere anche: tra decoro e degrado. C’è ovviamente un filo che lega l’ansia di ‘pulizia’ delle città e l’inclusione omologante offerta ad alcune soggettività marginalizzate: in entrambi i casi, solo chi risponde a certe condizioni, adeguandosi alla norma pur da ‘diverso/a’, può avere diritto di cittadinanza, chi si rifiuta è considerato indecoroso, pazza, eccedente, con tutta la forza che il portato di queste parole ha nel nostro immaginario ‘razionale’. Così si decide che i rapporti omosessuali hanno diritto di cittadinanza solo se si conformano alla norma etero dell’amore romantico che punta al matrimonio, alla privatizzazione degli affetti e dell’eros, mentre restano escluse tutte le forme di socialità e affettività non conformi che pure fanno parte della storia della comunità Lgbtq. Da parte nostra sarebbe scorretto contestare chi fa una scelta di ‘quieto vivere’ di fronte alla possibilità di vivere ancora un’esistenza marginalizzata; ma possiamo semmai pensare di rivoluzionare i nostri modi di vivere le relazioni e in generale di stare al mondo.
Il collegamento tra il discorso del vero e l’oppressione eteronormativa non è semplice da spiegare: lo ha fatto Monique Wittig nel suo saggio “The Straight mind”. La parola ‘straight’ è difficile da tradurre in italiano senza perdere le sfumature: ‘straight’ significa ‘dritto’, nella direzione giusta, e per estensione anche eterosessuale. Scrive infatti Wittig: “il discorso eterosessuale ci opprime nella misura in cui ci impedisce di parlare, a meno che non parliamo nei suoi termini. Tutto ciò che lo revoca in dubbio è presto liquidato come elementare”. Il nostro atteggiamento è quindi quello di selezionare tra ciò che possiamo tollerare come diversità e quello che dobbiamo escludere e disprezzare perché osa creare da sé le proprie categorie per raccontare la propria esperienza: questo è ciò che succede quando ci sentiamo in diritto, da maschi e da bianchi, di discutere cosa siano il razzismo e il sessismo di fronte a chi è colpitx da queste oppressioni. Se pensiamo il nostro essere ‘alleati’ come uno sforzo razionale nel nome del politicamente corretto, ci stiamo al tempo stesso arrogando il diritto a decidere fino a che punto siamo disposti a farlo.
D’altra parte è evidente che se restiamo saldamente all’interno del nostro privilegio, razzismo e sessismo non ci colpiranno mai. Se “sostengo la parata ma mi piace la patata” significa che non ho intenzione di mettere in discussione né la mia percezione delle persone LGBTQ (identificate unicamente come uomini attratti solo da uomini: basterebbe poi un piccolo sforzo per capire che in mezzo a persone bisessuali, lesbiche, trans e non binarie, essere attratti dalle donne non è un’esclusiva degli uomini etero) né il modo in cui penso le persone da cui sono attratte (la patata, il buco, l’idea della penetrazione come unica modalità di relazione). Mettere in discussione la nostra eterosessualità – intesa in senso stretto – non significa reprimere o nascondere l’attrazione fisica o romantica, ma smettere di darla per scontata e normale, e considerarla in modo critico.
Rosemary Hennessy parla di ‘disidentificazione’ come rivendicazione della “collettività di coloro la cui eccedenza di bisogni umani il capitalismo ha messo fuori legge”. Dobbiamo chiederci quindi se esiste in noi questa eccedenza e se vogliamo rivendicarla e viverla appieno, oppure reprimerla per restare nel conforto del nostro privilegio. È vero che agli uomini sono concesse diverse forme di mascolinità, dall’uomo felicemente sposato allo scapolo libertino fino all’asceta lontano (in apparenza) dai desideri carnali. Rifugiarsi in una di queste modalità significa reprimere la nostra eccedenza senza provare a confrontarsi con la carica erotica imprevista e imprevedibile di altri tipi di relazione – che mischiano amicizia, fisicità, fratellanza/sorellanza nella vita e nella lotta politica. Abbracciando la nostra eccedenza riusciremo forse a comprendere cosa intende Wittig quando parla della “violenza esercitata attraverso i discorsi in tutti gli ambiti della società”, quella che ti dice “tu non hai nessun diritto di parlare perché il tuo discorso non è fondato”.
Questo non vuole essere un manuale del perfetto “woke”, ma un tentativo di trovare le parole e i modi per essere concretamente solidali alle compagne e ai compagni femministe e queer, per provare a fare spazio nel nostro campo alla loro rivolta.