La città è vuota. Le poche persone in giro non parlano d’altro. Il relativo isolamento, forse, ripara dal contagio, ma per quanto possiamo fingere indifferenza, le locandine dei giornali ce lo ricordano ogni momento: c’è un’epidemia, ci sono contagiati in terraferma, c’è disagio.
Disagio è troppo poco. Non sappiamo cosa fare. La fisicità della città autorizza la finzione di trasformare le faccende da sbrigare come se fossero piccoli lavori: vado a comprare il pane, vado a farmi l’abbonamento del vaporetto, vado a pagare la bolletta. Non ci crediamo molto neanche noi.
Quando la marea si è alzata, a novembre, una certa inquietudine era naturale: ma l’acqua poi passa. Scende e si ritorna a vivere. Oggi è diverso, le vacanze sono cancellate perché non si vuole venire qui, perché non si può venire qui. Ci raccontiamo che bisogna diffondere ottimismo, mostrare che non c’è niente da temere a venire qui, ma con il contagio che si allarga – e le misure di contenimento che si estendono in tanti paesi – questo sembra più un modo di incanalare la disperazione.
La città vive di turismo: non c’è altro. Vado a comprare il pane con il salario che mi arriva dal turismo. Compro un maglione con quei soldi, ci pago l’abbonamento del vaporetto e la palestra. Quello che ha portato tante veneziane e tanti veneziani a scappare, perché fare i check-in delle locazioni turistiche o aprire l’ennesimo franchising che dura una stagione non è il massimo delle ambizioni, si sta manifestando nella sua cruda realtà. Università ed eventi artistici e culturali non basteranno a mantenere nemmeno le poche persone che hanno resistito alla fuga degli ultimi decenni – quasi 100 mila abitanti in meno dal secondo dopoguerra a oggi – e siamo qua, locals e migranti privilegiati, con un’angoscia che cresce sempre di più.
Marzo è il momento in cui, dopo il piccolo reflusso post-carnevale, la giostra inizia a girare di nuovo. In primavera sono soprattutto le gite scolastiche: siamo abituate a vedere queste marmaglie insopportabili che parlano francese, spagnolo o dialetti italiani vagare per la città, le malediciamo a denti stretti, cominciamo ad abituare il corpo e la mente alla stagione affollata che verrà. Il corpo e la mente, proprio: l’assenza di macchine aumenta la percezione delle sensazioni fisiche, quelle spaziali, quando dai Santi Apostoli prendi la calletta verso San Bortolo il corpo si restringe da solo, consapevole che dovrà passare in mezzo alla fiumana, farsi largo tra autoscatti e indecisioni davanti alle vetrine, un’apnea che dura almeno fino a San Luca o alle calli meno trafficate intorno a San Marco. La sensazione oggi invece è quella di muoversi nel vuoto: di più, quella di una assenza che ti si appiccica addosso. Quante volte ci ripetiamo tra noi che c’è troppa gente, che non si può andare avanti così, che la città deve riprendere i suoi spazi: è giusto, è vero e lo sarà anche quando – e se – tutto questo finirà. Oggi la realtà è però un’altra: camminare nel vuoto sembra più faticoso perché quello stesso vuoto ti rammenta ogni secondo il crollo di tante certezze. Stendiamo la lavatrice, ci facciamo una zuppa con le verdure di Sant’Erasmo, chiacchieriamo e ci abbracciamo, ma non ci sentiamo bene.