articolo originale sul numero 21 della rivista Harz-Labour di Rennes
“Il rimorso non è la prova del crimine, ma solo di un animo facile da soggiogare”
Marchese de Sade, Justine
La debolezza è quella condizione che ognuna di noi ha purtroppo conosciuto in un momento o l’altro della sua vita. È quella fatica che può spingere a scopare, perché non si ha la forza di giustificare un no, è quella puntuale rassegnazione che ci fa ignorare la mano sul culo al bar, è in tutte quelle situazioni in cui il reale rinvia brutalmente ogni donna alla sua condizione di corpo messo a disposizione. Ma al di là dei vissuti singolari, la debolezza è il prodotto della differenziazione sessuata, ed è costruita come una proprietà intrinsecamente femminile. Giustificata anatomicamente dai medici con la cavità del sesso femminile, rinforzata politicamente dall’idea di uno stato di minorazione delle donne, essa legittima l’insieme del funzionamento patriarcale.
La debolezza femminile è l’insieme della caratterizzazione del femminile: appoggiandosi all’idea di una fragilità biologica e sociale, di una incoerenza tutta femminile, è ciò che rende le donne delle piccole cose fragili che bisogna proteggere.
Di conseguenza, si situa al centro del regime politico eterosessuale: imponendo l’idea della necessità di proteggere le donne da sé stesse, rinviandole al biologico e alle loro funzioni riproduttrici, fonda la loro dipendenza dai poteri che devono prenderla in carico e le rinchiude nella sfera domestica. L’idea di debolezza, lasciando intendere un’incapacità al governo di sé, richiede la regolazione dei comportamenti. È la messa a disposizione del corpo femminile alla possenza mascolina, perché se si tratta di proteggere, si tratta anche di addomesticare. Per farla breve, la debolezza femminile è ciò che priva le donne delle loro vite e le rende governabili.
“Lungi da essere un principio di eguaglianza o di reciprocità tra i sessi, l’eterosessismo è un sistema di pensiero che, attraverso la stessa coniugalità o la maternità, conferma la dominazione maschile nei rapporti di sesso. Incatena le donne nell’idea che la loro lodevole e generosa dolcezza le destina naturalmente al servizio dell’uomo e della famiglia e, parallelamente, conforta gli uomini nel sentimento che la donna gli è dovuta per natura, secondo l’ordine delle cose, e in ragione anche della loro “valenza”, oscura convinzione che giustifica confusamente e a priori le aggressioni e le molestie sessuali di ogni genere, perpetrate a volte in totale quiete e anche, stranamente, in uno spirito di relativa legittimità, che fa credere a una forma estrema di cinismo, mentre si tratta forse piuttosto di una specie di ingenuità paradossale, per quanto intollerabile.”.
Louis-Georges Tin, Qu’est-ce que l’heterosexisme? Précisions sur un mot important [Cos’è l’eterosessismo? Precisazioni su una parola importante]
Le infinite capacità di adattamento del liberalismo gli permettono di integrare simultaneamente eteronormatività e femminismo nelle tecniche di governamentalità. La debolezza, nell’offrire una presa sulla nuda vita, permette dunque di proteggere, reprimere e regolare. La debolezza diventa così una forza politica dalla pretesa egemone.
Questa dialettica performativa che chiamiamo politica della debolezza è l’espressione di un certo femminismo liberale, che sappiamo bene non essere l’unico né quello maggioritario. Nella moltitudine eterogenea, individui con identità singolari e oppressioni specifiche si uniscono e si spaccano, si alleano e si odiano. In questa somma di “io” incapaci di formare un “noi”, la debolezza diventa una risorsa politica, e l’essere vittima uno status sociale portato come una bandiera. Tutta la forza della debolezza, e tutte le sue possibilità di egemonia nel microcosmo militante1, poggiano sui tentativi di rinviare ogni presa di posizione politica divergente a una violenza inflitta insopportabile. “Tu mi fai violenza” e “sto male” soffocano ogni potenziale conflittuale e fecondo. E, in uno spazio dove la legittimità politica poggia sull’identità, ogni voce dissonante è per forza la voce del nemico, dell’oppressore, sistematicamente singolare perché tutto è sempre una questione di “individuo”.
La politica della debolezza, essendo un prodotto del liberalismo, è una politica del sentimento individuale. In effetti, concentrarsi sull’individuo astrandolo da ogni legame sociale non è particolarmente originale: è il cuore del liberismo. Peraltro, l’immaginario liberista dell’individuo imprenditore di sé stesso si ritrova in pieno nel rapporto che la politica della debolezza ha con l’identità. Dove le lotte femministe e LGBT precedenti, in tutte le loro diversità, hanno pensato le categorie politiche (donna, uomo, lesbica, gay, trans, ecc) come prodotti dei rapporti sociali, come categorie esplicative e di lotta, la politica della debolezza promuove l’autodefinizione. Le identità politiche, nelle lotte femministe in senso lato, possono essere il luogo di incontro delle persone con vissuti comuni e possono rappresentare ciò per cui è possibile rapportarsi a una lotta. Non si vuole negare ciò che le identità politiche possano portare in termini di sovversione della norma, ciò che hanno permesso e permettono ancora nella costruzione di comunità di accoglienza per le persone marginalizzate in ragione delle loro identità di genere e sessuali. Tuttavia, la definizione identitaria può comportare la chiusura nelle lotte specifiche all’interno dei rapporti esistenti, più che la rimessa in causa di un quadro normativo, politico ed economico globale. In ogni caso queste identità sono costruite in rapporto al reale e a partire dall’essere. Ma nella politica della debolezza, l’individuo non è più uomo/donna/gay/trans/lesbica/bi/non binario, ma “si sente”. Se lasciamo gli esempi più caricaturali a conservatori e reazionari che non hanno altre risorse per provare a legittimare la loro critica al femminismo, non possiamo che constatare che questa politica del sentimento individuale è simultaneamente il risultato e una delle cause della debolezza delle lotte. Ne è il risultato, perché quando le lotte non hanno più la forza di proporre un comune condiviso, è difficile sentirsi legatx a una potenza collettiva, e non resta che l’individuo, tristemente solx davanti a sé stessx e a un mondo desolato. Quando la possibilità di legarsi a un “noi” tangibile e incarnato si sgretola, il liberismo offre identità tanto più confortevoli quanto più sono ridotte alla loro espressione minima e astrazione massima. Poco importa che le nostre pratiche siano eterosessuali, è sufficiente sentirsi pansessuali per raggiungere la comunità delle oppresse, rompere l’isolamento che ci caratterizza e sentirsi di nuovo legate a qualcosa, per quanto concretamente inesistente. Ma queste identità disincarnate diventano la causa della debolezza delle lotte quando l’espressione di sé ne diventa la fine e il mezzo. È evidente che le lotte devono diventare davvero più inclusive, ma questo si può fare solo in concreto e non in teoria. Rompere i codici dell’assemblea per pensare una fluidità di parola è un imperativo. Farlo con un insieme di regole che appesantiscono un dispositivo già abbastanza pesante di suo, produrrà l’effetto inverso, escludendo chiunque non ne padroneggi i codici. Tanto più quando viene posta la premessa del presupposto di verità assoluta di ogni parola dominata. In altre parole, in un movimento in cui l’identità non è pensata a partire dal reale, ma dal sentimento, questo genera di fatto un sovra-investimento sulla “disgrazia” che genera la legittimità a parlare.
“La categoria di sesso è una categoria politica che fonda la società in quanto eterosessuale. In questo non è una questione di essere ma di relazioni (perché “donne” e “uomini” sono il risultato di relazioni). La categoria di sesso è la categoria che stabilisce come ‘naturale’ la relazione che è la base della società (eterosessuale) e attraverso la quale la metà della popolazione – le donne – sono “eterosessualizzate” (la fabbricazione delle donne è simile alla fabbricazione degli eunuchi, alla crescita di schiavi e di animali) e sottomesse a una economia eterosessuale.”
Monique Wittig, La pensée straight
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La politica della debolezza si costruisce su un paradosso fondamentale: rivendicando una logica di guerra contro gli oppressori, l’identità politica si costruisce solo in negativo, rispetto cioè a ciò che altri hanno fatto. In questo rapporto dialettico, possono esistere solo due figure: quella dell’oppressa, qui le donne, e quella dell’oppressore, gli uomini. Mentre il femminismo materialista ha almeno il merito di porre la contraddizione in termini colletttivi (la classe degli uomini vs quella della donne) e di vedere la soluzione sotto un prisma strutturalista, la politica della debolezza pone il problema in termini individuali. Tutto questo sarebbe poco più che aneddotico se questa pretesa egemonica non tendesse a chiuderci in una ri-essenzializzazione delle identità politiche, che si afferma come il nuovo modo di discriminazione del nemico. Così, tutte coloro che rifiutano di radunarsi nella categoria delle oppresse sono sistematicamente rinviate all’oppressore, al maschile. In questa prospettiva, il discorso femminile parte necessariamente da una posizione di vittime e non si può esprimere se non come sentimento, affetto, sensibile, singolare e sentimentale. Ci sarebbe, quindi, un solo modo legittimo di essere donna, che si definirebbe a partire dall’impotenza. Il gesto fondatore di Simone de Beauvoir, ciò che conferisce tutta la potenza, è invece proprio l’affermare che essere donna non è un’essenza ma si costruisce nell’esistenza, con le possibilità di sovversione che questa offre. Logicamente, se ogni trasgressione alla norma portata dalla politica della debolezza è concepita come rottura col femminile, la categoria “donna” non può che ridursi alla sua espressione più povera e triste, quella di vittima del patriarcato. Di conseguenza, cesseremmo dunque di essere donne nel momento in cui rifiutiamo di definirci a partire da una condizione di vittime, riconoscendoci sconfitte dalla presa che questo lascia sulle nostre vite. Quando scegliamo la nostra potenza collettiva come punto di partenza, e non la nostra debolezza, cerchiamo di tirarci fuori dal rapporto dialettico col maschile, e affermiamo la nostra indipendenza. Questa affermazione di indipendenza, se non ci tira del tutto fuori dai rapporti di genere, è la condizione di possibilità di un rapporto alla lotta che non sia una reazione perpetua alle aggressioni subite, ma al contrario l’affermazione delle nostre volontà. Non si tratta di contestare che in un regime politico eterosessuale la posizione femminile è tutt’altro che invidiabile: si tratta invece di rifiutare di lasciarci rinchiudere in essa. E se, in questo preciso regime politico, e non in un assoluto che non esiste, sembra difficile disertare totalmente la categoria “donne”, se non altro perché produce effetti concreti sulle nostre vite, dobbiamo almeno non essenzializzarla. Quando Wittig afferma che “le lesbiche non sono donne”, precisa che è perché si sottraggono alla norma eterosessuale. Di conseguenza, quello che può essere un punto di partenza (una posizione subalterna e la legittima rivolta contro i rapporti di potere che si esercitano sulle nostre vite) non può essere né un punto di arrivo, né risolversi con un semplice rovesciamento della norma, fondati sulla morale del sentimento. Ed è questo che si produce quando definiamo amico e nemico secondo un essenzialismo binario.
“La rivolta degli schiavi nella morale comincia quando il sentimento stesso diventa creatore e genera valori: il sentimento di questi esseri, ai quali la vera reazione, quella dell’azione, è proibita e che non trovano compensazione se non in una vendetta immaginaria. […] Questo rovesciamento dello sguardo — questo punto di vista necessariamente ispirato al mondo esterno invece di riposare su sé stesso — appartiene al sentimento: la morale degli schiavi ha sempre prima di tutto bisogno, per nascere, di un mondo opposto ed esteriore: gli serve, per parlare fisiologicamente, uno stimolo esterno per agire; la sua azione è fondamentalmente una reazione.”
Friedrich Nietzsche, La généalogie de la morale
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La morale del sentimento si intreccia nella dialettica del padrone e dello schiavo. In effetti, dal momento in cui costruiamo la nostra posizione sociale subalterna come identità politica, ci definiamo sempre a partire dall’altro, e a partire da ciò che questi fa a noi. Come non si può avere padrone senza schiavo, per esistere, al figura dell’oppresso ha bisogno dell’oppressore. E di conseguenza, non ci può essere oppressore senza oppresso sul quale esercitare la propria oppressione. Se da un lato la politica della debolezza non prevede altra linea di fuga se non la risoluzione classica della contraddizione dialettica in cui lo schiavo prende il posto del padrone; dall’altro, tende paradossalmente a fissare le figure della vittima e del boia astrandole da qualunque rapporto d’oppressione. Nelle nostre lotte, questo si materializza nella morale indebolente in cui tutto ciò che viene espresso da una posizione minoritaria cerca di imporsi, fuori da ogni incarnazione concreta, come verità e come norme assolute. La figura del “dominato” diventa così quella dell’innocenza originale, misura del Bene e del Male, privata di ogni responsabilità di quello che accade, in nome della colpevolezza del dominante. Chiunque parli a partire del suo sentimento ha il dovere di essere ascoltato, a rischio di perdere ogni potenzialità collettiva. Chiaramente razzismo, sessismo, omofobia, transfobia non devono più trovare spazio nelle lotte, e chiaramente devono essere rese visibili perché noi possiamo avere presa sui processi. Tuttavia, la ricerca costante del più piccolo comune denominatore, troppo spesso senza legami col reale, ridotto a dichiarazioni di intenti o a un concorso di virtuosità nella padronanza dei codici militanti, tende a produrre più esclusione che inclusione frenando ogni possibilità di incontro o elaborazione comune. Se è essenziale rimettere in causa le logiche dei nostri spazi e ciò che possono avere di escludente, questo non deve paralizzare ogni possibilità di azione. Questo è ciò che accade quando si considera che il sentimento individuale debba dare la misura alla voglia collettiva e che ogni posizione minimamente ferma o elaborata, che non si appoggi sull’essere vittima, sia di una violenza insopportabile. Tanto più che, in caso di disaccordo, non c’è davvero altra prospettiva che il concorso alla “oppressione più grossa”, che non è solo di una mediocrità avvilente, ma mette in concorrenza i vissuti singolari al posto di offrire una prospettiva comune. L’egalitarismo attraverso la debolezza e la fragilità, la messa in scena di identità individuali che si scontrano in uno spazio di lotte, si oppongono di fatto a una politica attiva della costruzione di legami che non siano basati sulla pietà, e ci impediscono di prenderci realmente cura gli uni delle altre. Riconoscere il dolore altrui non è un gesto politico in sé, è al massimo una premessa a un gesto che non sia disincarnato dal reale. Essere soddisfatti del proprio ruolo di alleato in paziente attesa delle istruzioni è una spossessione politica totale, e peggio ancora, una deresponsabilizzazione assoluta. Sarà sempre facile per un uomo imparare i codici del discorso non-oppressivo, mettere pubblicamente in scena la sua decostruzione, tacere in assemblea e sostenere le proposte fatte dalle donne. Obbedire alla morale, seguire le regole, partecipare alla riproduzione delle norme, anche se in un rovesciamento normativo, tutto questo non ha niente di sovversivo e non cambierà nulla, se non vagamente qualche posizione singolare. Per paradossale che possa sembrare, sotto pretesto di essere inclusivo, egalitario, e di non ferire nessun sentimento, la repertoriazione dei comportamenti “problematici” e la focalizzazione su norme, quasi sempre di linguaggio, ha di solito come solo effetto quello di operare una distinzione tra chi “sa” e chi “non è decostruitx”, e in fine di respingere fuori da certi spazi militanti coloro che non padroneggiano i codici. La decostruzione individuale, oltre a permettere di occupare uno spazio dimostrando che si conoscono i codici del posto, ha la capacità pratica di non obbligare a confrontarsi con l’azione politica. Fare la lista dei propri “privilegi” non è in nessun caso un’azione di nessun genere, non mette in gioco che sé stessi… di fronte a sé stessi. E di fronte all’alterità, non può che essere un’operazione di comunicazione, un modo di vendersi simile a una lista di competenze sul CV. Come l’individuo moderno si prende cura del sé, dell’es e del super io colpevolizzandosi sul divano dello psicologo, il militante 2.0 si permette la propria introspezione decostruendosi davanti al suo computer. Questo permette peraltro di lavarsi le mani di una presa in carico collettiva delle questioni del sessismo in nome della priorità “alle più colpite”. Questo è perfettamente compatibile con il fatto di essere uno stronzo nel privato, ma permette di essere uno stronzo consapevole di esserlo. Non si tratta dunque di piangere su una presunta perdita di potere degli uomini, che potrebbe farci piacere, ma non possiamo né desiderare né accontentarci che la nostra sola prospettiva politica sia l’inversione della norma.
“È a questo punto, precisamente, che si rivela tutta la complessità della confusione tra amicx e nemicx, con la quale il femminismo si trova sempre a confrontarsi. Una vera trasformazione non verrà dall’adozione di un codice di comportamenti irreprensibili, ma dall’attenzione sempre rinnovata all’altrx e ai segni che invia, alla circolazione del potere, alla complessità e alla profondità delle relazioni.”
Primi passi su una corda tesa
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Tanto più che questa inversione tutta discorsiva delle norme si fa più che altro performativa, nel momento in cui impone al gruppo forme “inclusive” di regolamenti interni, e una regolazione tanto più forte dei comportamenti che si ritiene incontestabile. Chiunque abbia vissuto un’occupazione recente di facoltà ha grandi possibilità di essersi trovato, in uno spazio determinato o anche in tutti gli spazi occupati, di fronte a una lista di comportamenti proibiti. Nel nome del safe, letteralmente, della sicurezza. Ed è forse uno dei punti più insopportabili della politica della debolezza, che tenta di conciliare simultaneamente un discorso che poggia su una posizione di dominata, che avrebbe bisogno di un’agenza specifica, e una logica pseudo-guerriera contro la classe degli uomini. La sua traduzione concreta si traduce troppo spesso in misure securitarie, seguito logico della prospettiva dialettica, e non possiamo che constatare che è qui che si uniscono, in modo palese, liberismo e politica della debolezza. Creare senza sosta nuove categorie sempre più strette, restringere all’infinito la griglia, proscrivere i comportamenti devianti, regolare ogni gesto, riaffermare in modo coercitivo nuove norme, questo è proprio delle formazioni di potere liberiste che la politica della debolezza cerca di ridipingere come sovversive. Corollario dell’ingiunzione liberista al buonumore, il benessere diventa la finalità delle lotte, senza che siano mai pensati i rovesciamenti positivi che si operano quando si osa mettersi in gioco nel collettivo. Il rifugio confortevole dello spazio safe uccide di fatto l’espressione dei nostri desideri collettivi, i loro sviluppi e le loro affermazioni politiche. Le nuove forme di polizia riportano all’ordine chiunque cerchi di rompere la routine delle lotte insipide e sciocche, normate, codificate, che non fanno che riprodurre su altri spazi il grigiore quotidiano. Ricreano le prigioni normative che ci ostiniamo ad attaccare senza sosta. Paradossalmente, quando gli spazi di lotta potranno essere quelli dei nostri incontri su basi volontarie e non subite (come a scuola o al lavoro), le polizie del comportamento oppressivo tendono a ricreare le istituzioni che ci rinchiudono. Non preoccuparsi che delle microaggressioni, attaccare ogni parola deviante, annichilisce la fluidità di una reazione in contesto, e proporzionata alla gravità dei fatti. Se ogni azione è messa sullo stesso piano, se ogni frase sessista è trattata come un’aggressione sessuale non potremo agire né sull’una né sull’altra. Inoltre, è illusorio credere che la norma e la coercizione possano regolare tutti i comportamenti e non è nemmeno desiderabile. Partire da sé per incontrare l’altro nel quadro delle lotte, non è imporgli le nostre regole, ma al contrario, accettare di confrontarsi, di lasciare una parte di sé nella relazione che si intreccia. Alla gogna soffocante del safe, non possiamo che opporre il brivido collettivo che si esprime quando osiamo affermare insieme le nostre volontà.
È il sapore di ognuna delle nostre vittorie, quello del luogo abbrancato alla sua funzionalità primaria per diventare spazio di sperimentazione, quello della forza delle marce notturne non miste che permettono di affermare una presenza negli spazi che ci erano rifiutati, quella di una complicità fatta nel pericolo condiviso.
È la gioia intensa che ci prende quando ci lasciamo travolgere dalla voglia comune, invece di cercare di addomesticarla a ogni costo in nome della morale. Liberarsi dei codici morali, accettare di abbandonarsi alla situazione, pensare le nostre reazioni nel contesto e non in un assoluto teorico svuotato di ogni significato, è lasciarsi la possibilità di agire in modo concertato, e tanto più forte quanto in relazione con il reale.
“Spesso, l’approccio legato all’identità e allo stile di vita è seducente perché crea l’impressione di essere impegnat3 in una pratica.” Nonostante questo, dentro un qualunque movimento politico che vuole trasformare radicalmente la società, la pratica non può riassumersi unicamente nel creare spazi dove persone supposte radicali sperimentino la sicurezza e il supporto. Il movimento femminista per mettere fine all’oppressione sessiste coinvolge attivamente le sue suoi partecipanti in una lotta rivoluzionaria. E una lotta raramente è safe e piacevole”.
bell hooks, ain’t I a woman
1Per definizione, lo status minoritario, pensato a partire dalla debolezza, condanna a restare minoranza sociale.