Dalla maschilità all’anti-maschilismo: pensare i rapporti sociali sessuati dalla posizione dell’oppressore (Léo Thiers-Vidal)

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Nota di traduzione: l’autore si rivolge principalmente agli studiosi uomini che vogliono compiere ricerche sulla maschilità con l’intenzione dichiarata o sentita di collaborare alla causa femminista. Per indicare queste persone, usa la locuzione “ricercatori-uomini impegnati”: trovandola un po’ pesante nella traduzione italiana, ho usato il termine ricercatori, aggiungendo “uomini” o “impegnati” quando mi pareva più necessario specificarlo. Inoltre, ho tradotto “genré” come “di genere” perché in italiano non esiste una traduzione accettabile di questa accezione (genré come gendered in inglese, cioè condizionati o prodotti dal genere), e “rapports sociaux de sexe” come “rapporti sociali sessuati” perché “di sesso” mi suonava male in italiano. Un’ultima cosa che vorrei aggiungere, da persona che è stata sempre distratta quando si spiegava filosofia al liceo: quando si parla di epistemologia, termine che ricorre in questo testo, si parla del modo in cui si conoscono le cose.

In questo articolo propongo una riflessione sul modo in cui i ricercatori, impegnati nella lotta contro l’oppressione delle donne da parte degli uomini, possono migliorare la loro efficacia politica e scientifica nell’analisi dei rapporti sociali sessuati1. Quando questi uomini cercano di produrre analisi pertinenti e prive di pregiudizi, si trovano di fatto ad affrontare una doppia difficoltà: da una parte, quella di comprendere pienamente le analisi femministe, che designano la loro esistenza come fonte permanente di oppressione delle donne; dall’altra, quella di imparare a gestire i conflitti interiori che ne derivano, in modo da permettere loro uno sguardo sull’oppressività della loro costruzione e azione che sia produttivo e coinvolto invece che distaccato. Lo studio dei rapporti sociali sessuati pone con insistenza la questione del legame tra il soggetto conoscente e l’oggetto di ricerca: a causa del radicamento identitario, affettivo, sessuale e corporale generato dall’organizzazione specifica dei rapporti sociali sessuati, ogni messa in questione politica e teorica implica che i ricercatori rivedano la loro costruzione e il loro vissuto personale. In quanto membri del gruppo oppressore, devono imparare che la loro soggettività è strutturata dalla posizione maschile, cioè dal fatto che beneficiano di ricchezze materiali, libertà sociali, qualità della vita e rappresentazioni androcentriche nella misura stessa in cui opprimono le donne. I ricercatori devono allora, per produrre analisi pertinenti e senza pregiudizi, elaborare una coscienza anti-maschilista2: una coscienza della loro strutturazione soggettiva particolare in quanto oppressori, e la consapevolezza di dovere sviluppare dei modi per comprendere pienamente le conseguenze di questa strutturazione, per non riprodurre dei pregiudizi maschilisti. Da questa consapevolezza emerge una questione fondamentale: in che modo la posizione dominante prodotta dall’azione oppressiva struttura il rapporto epistemologico rispetto al soggetto stesso dei rapporti sociali sessuati? In altre parole, in che modo le analisi sui rapporti sociali sessuati sono influenzate, ossia limitate, dall’appartenenza dei ricercatori al gruppo sociale degli uomini?

Analisi dei rapporti sociali sessuati: il distacco di genere

Diverse ricercatrici femministe hanno riflettuto sul legame tra la posizione sociale delle donne e l’analisi femminista dei rapporti sociali sessuati. Così scrive Christine Delphy nel 1975: «L’oppressione è una concettualizzazione possibile di una situazione data; e questa concettualizzazione non può venire che da un punto di vista, cioè da un luogo preciso in questa condizione: quello dell’oppresso (al maschile nel testo, ndt)» (1998, p.281). Tuttavia, pochi ricercatori hanno tenuto conto di questo aspetto. Al massimo, lo considerano in modo selettivo, ricordando una certa idea differenzialista della complementarità: gli uomini sarebbero meno adatti a pensare il vissuto dell’oppresso, ma sarebbero al contrario più capaci di pensare il vissuto dell’oppressore, da cui la necessità di una maggiore presenza maschile nelle ricerche femministe (Welzer-Lang, 1999). Mi sembra cruciale approfondire questo nodo epistemologico, perché esso condiziona il rapporto dei ricercatori rispetto ai rapporti sociali sessuati. Analizzare gli effetti della posizione sociale sulla produzione del sapere può avere delle ripercussioni importanti sull’immaginario maschilista del “soggetto di conoscenza neutro, autonomo e razionale”, che nega la particolarità legata al vissuto maschile. Questa analisi può allo stesso modo trasformare il modo di inserirsi nella ricerca maschile impegnata: di fronte alle analisi femministe, i ricercatori hanno spesso l’impressione di dover scegliere tra riprendere queste analisi in modo mimetico e colpevolizzante, o sviluppare un proprio discorso indipendente in senso liberatorio (Welzer-Lang, 1996). Porre la questione epistemologica del legame tra posizione sociale maschile e analisi dei rapporti sociali sessuati consente, al contrario, di uscire da questa falsa scelta per pensare in modo innovativo l’inscrizione nella ricerca maschile impegnata.

Le analisi femministe sono una fonte di riflessione cruciale sul peso epistemologico del vissuto, e la partecipazione alla militanza femminista permette di arricchire questa riflessione. È sufficiente partecipare a qualche dinamica militante, non controllata dagli uomini, perché lo slogan “il privato è politico” acquisisca pienamente senso, sebbene in modi opposti per le femministe e per gli uomini impegnati. Durante un campeggio anti-patriarcale, organizzato qualche anno fa ad Ariège, i gruppi di discussione separatisti e misti hanno subito fatto emergere una asimmetria dei vissuti tra donne e uomini, e dunque delle tematiche considerate e dei modi di trattarle. Nel giro di poco tempo si sono evidenziate queste opposizioni: gli uomini impegnati uscivano felici dai laboratori separatisti maschili, dove avevano affrontato, ad esempio, le prime esperienze sessuali, le fantasie, l’espressione delle emozioni, mentre le femministe uscivano appesantite da discussioni dove avevano parlato delle violenze sessuali e delle conseguenze sulla loro sessualità e integrità. Durante queste giornate, la distanza è cresciuta fino a provocare una discussione: le femministe hanno preteso che gli uomini prendessero coscienza di questo distacco, legato all’oppressione vissuta dalle donne, e della gerarchia delle posizioni di genere. Nonostante la collera e il dolore, le donne hanno scelto un approccio molto pedagogico, ma gli uomini hanno, invece, rifiutato di proporre una risposta collettiva e di accettare questa mano tesa. Oltretutto, le donne hanno segnalato un crescente ostracismo nelle interazioni miste, trovando in esse sguardi sfuggenti e non più la convivialità che si respirava prima.

Prendiamo un altro esempio: durante le discussioni, le feste e gli incontri proposti dai gruppi femministi radicali lionesi, alcuni uomini hanno imparato col tempo, grazie a uno scambio costante tra pratica e riflessione, che la parole delle femministe in materia dei rapporti sociali sessuati era più pertinente della loro. Gli uomini non riuscivano, spesso, a comprendere pienamente le tematiche discusse, né a identificare correttamente gli annessi e connessi delle questioni poste, né a comprendere ciò che era invece evidente per le femministe radicali. Tuttavia, di fronte a questo distacco di genere, la maggioranza degli uomini sviluppò questo pensiero: considerare che la parola femminista è più pertinente di quella degli uomini impegnati nel movimento significa «essere colpevolizzati, alla mercé delle femministe», ossia “castrati”; opporsi invece a questa imposizione significa «essere critici, sostenendo le femministe ma stando attenti a non essere sottomessi». Nemmeno in questo caso viene realmente posta, dagli uomini, la questione del legame tra la posizione sociale di genere e l’analisi dei rapporti sociali sessuati, e questa resistenza blocca ogni dinamica costruttiva con le femministe.

Il distacco di genere apparso in queste dinamiche militanti – le concettualizzazioni opposte dei rapporti sociali sessuati come oppressione – non è dovuto a una mancanza di informazioni da parte degli uomini, da colmare per ritrovare una sorta di equilibrio. Le persone presenti disponevano di informazioni relativamente varie e di prima mano: erano eterosessuali e omosessuali, militanti di vecchia data e nuovi, universitari e non universitari… Se solo le femministe hanno sviluppato un’analisi imperniata sulle questioni di potere, è proprio perché, per loro e a causa del loro vissuto, le informazioni e le esperienze condivise risuonavano proprio così. «Perché anche se le parole sono comuni, le connotazioni sono radicalmente diverse. È così che tante parole hanno per l’oppressore una connotazione di godimento, e per l’oppresso una connotazione di sofferenza» (Rochefort, in Mathieu, 1991:132). Il distacco manifestatosi tra le femministe e gli uomini impegnati è dunque una conseguenza persistente dell’oppressione: mentre la posizione strutturale delle femministe nei rapporti sociali sessuati produce delle tematiche politiche comuni, che mettono in discussione la realtà in termini di potere, quella degli uomini produce tematiche ugualmente comuni al gruppo, ma che al contrario nascondono i rapporti di oppressione.

Posizione sociale, androcentrismo e capacità d’analisi

Se questo distacco di genere persistente tra femministe e uomini impegnati non è una questione di informazione, ma al contrario di vissuto a partire da posizioni sociali gerarchiche, è possibile descrivere in modo ancora più preciso questo legame di genere tra soggetto e oggetto di conoscenza? Lo studio dell’epistemologia femminista dello standpoint (Hartsock, 1998) permette di fare emergere due linee di riflessione principali. La prima gira intorno alla questione dell’androcentrismo, definito come egocentrismo affettivo, psicologico e politico maschile, la seconda riguarda la capacità di analisi, determinata da una specifica competenza maschile.

Sul legame di genere tra soggetto e oggetto di conoscenza, il primo ragionamento parte dalle rispettive motivazioni delle femministe e degli uomini impegnati. Le femministe presenti al camping hanno interpretato in modo politico le loro esperienze, perché solo la politicizzazione rispondeva al loro interesse obiettivo: potere elaborare strumenti concettuali che consentano di agire efficacemente contro una realtà oppressiva. Ciò che ha motivato queste donne è precisamente il fatto che qualificare gli uomini come oppressori e la loro azione come oppressiva significa parlare della realtà che vivono – e che questo è fonte di emancipazione. Al contrario, gli uomini non avevano politicizzato le loro esperienze perché questo li avrebbe rinviati a una realtà maschile costituita da violenze, sfruttamento, appropriazione e mancanza di empatia verso le donne. Gli uomini, se vogliono conservare la loro qualità di vita materiale, psicologica, sessuale e mentale, hanno interesse a nascondere a loro stessi il carattere oppressivo dei loro rapporti con le donne. Ciò che li motiva a partecipare a queste dinamiche di gruppo è il poter parlare di sé stessi, «ciò che li preoccupa, è l’uomo, cioè loro stessi, ancora e sempre» (Mathieu, 1999: 308). Allora tematizzano volentieri il “ruolo di genere” o il “fardello” maschile – cioè qualcosa di cui possono anche loro dirsi vittime – o le altre oppressioni che vivono, passando in sordina le loro proprie azioni oppressive. Quindi, a caratterizzare le dinamiche e le analisi maschili impegnate è proprio l’androcentrismo: un egocentrismo affettivo e psicologico, che concede uno spazio smisurato ai propri sentimenti e vissuti, e un egocentrismo che usa il femminismo come strumento per migliorare la propria vita. Visto dall’interno, da uomo che ha partecipato a gruppi “pro-femministi” in diversi paesi, questo egocentrismo affettivo e psicologico si esprime prima di tutto con un rifiuto di empatizzare con le donne. Qualsiasi menzione della violenza dagli uomini alle donne, quando non è direttamente messa da parte per non lasciare che l’ordine del giorno sia “dominato” dalle femministe, viene distorta in tanti modi: usata per parlare delle proprie sofferenze (“ma anche io soffro!”), rinviata su altri uomini o un qualunque sistema astratto che li sovrasta (mascolinità egemonica, patriarcato), sia rigirata contro le donne (“ma pure loro ci troveranno qualcosa no?”), oppure sminuita con una colpevolizzazione di sé stessi che permette di restare al centro della scena (“è terribile, come soffro di essere dominante!”). Sembra sia impossibile, per la maggioranza degli uomini che si vogliono impegnare, accettare semplicemente che la (qualità della) vita delle donne è minacciata, se non annichilita, dalle azioni degli uomini. Il loro rifiuto di empatizzare può essere spiegato con l’ipotesi che, per loro, è come se riconoscere pienamente l’esistenza delle donne arrivasse a minacciare la loro stessa esistenza. Ma l’androcentrismo si traduce anche in un egocentrismo politico: evocare i rapporti tra gli uomini e le donne li porta a parlare dei loro vissuti personali, escludendo progressivamente quelli delle donne presenti in concreto nelle loro vite. Il femminismo funziona allora come uno strumento terapeutico, destinato a migliorare la qualità della vita maschile: gli uomini utilizzano l’analisi femminista per trasformare la loro vita nel senso del benessere; quando non funziona, lo rigettano.

Grazie a questa prima linea di riflessione sul legame di genere tra soggetto e oggetto di conoscenza, possiamo identificare l’ostacolo principale, che impedisce la produzione di saperi pertinenti sui rapporti sociali sessuati a partire da una posizione sociale maschile. La difesa egoista degli interessi propri e del proprio gruppo sociale motiva gli uomini impegnati a escludere dalla loro analisi il vissuto oppresso delle donne, e a restare concentrati su sé stessi. Rifiutare di empatizzare con le donne consente di restare legati strettamente al gruppo sociale più ampio degli uomini. Solo un lavoro teorico, politico e personale su questo aspetto della soggettività maschile permetterà di rompere il legame con il gruppo sociale degli uomini ed elaborare una coscienza anti-maschilista.

La seconda linea di riflessione riguarda la capacità di analisi propriamente detta. Si tratta di considerare in che modo il fatto di vivere in una posizione sociale oppressiva strutturi il modo di essere al mondo. L’epistemologia femminista dello standpoint permette di capire che vivere da donna o uomo, in una società gerarchizzata produce “competenze” asimmetriche, in forma di coscienze pre-politiche del funzionamento dei rapporti sociali sessuati. La nozione di competenza (“expertise” nel testo originale, ndt) mette l’accento sul fatto che donne e uomini sono soggetti conoscenti attivi, che agiscono in una struttura sociale data, che gestiscono informazioni e analisi che permettono loro di tracciare una mappa e orientarsi. Si distingue dai concetti di ruolo, disposizione, socializzazione o performatività, perché mette in evidenza la coscienza pratica dei rapporti sociali di forza elaborata da attrici e attori sociali. Queste competenze sono asimmetriche, nella misura in cui le donne accumulano informazioni, sentimenti, intuizioni e analisi che partono dalle conseguenze violente dell’oppressione che subiscono, per risalire alla fonte di esse, elaborando così delle conoscenze sui rapporti concreti che vivono. Nella misura in cui il vissuto femminile è in permanenza segnato dagli effetti dell’oppressione questa competenza prende un posto importante, resta spesso cosciente e riguarda la dinamica oppressiva in quanto tale. Al contrario, gli uomini accumulano fin dall’infanzia informazioni, sentimenti, intuizioni e analisi sul mantenere e migliorare la loro qualità di vita, perché non hanno, in quanto uomini, da “rendere servizi” o sottomettersi alle donne. Anche quello che apprendono quotidianamente sui loro rapporti con le donne resta imperniato su sé stessi: un ascolto più attento delle donne potrebbe rimettere in causa i loro comportamenti, costare energia fisica e affettiva, o anche l’abbandono o la perdita di vantaggi concreti; svelare come funziona la propria affettività può servire a fornire mezzi di resistenza alle donne, ma può anche portare agli uomini supporto e sostegno terapeutico da parte di esse; saper dosare freddezza e coraggio scoraggia l’iniziativa da parte delle donne, mentre l’espressione di interesse e attaccamento permette di ottenere alcuni servizi affettivi e sessuali. In breve, gli uomini hanno tutto un repertorio di comportamenti destinati consapevolmente a ottenere questo o quel risultato nei loro rapporti con le donne. Si può dire che la loro competenza è egoriferita. È meno ingombrante della competenza relazionale delle donne, perché essere oppressori permette proprio di interessarsi ad altre cose: studi, carriera, tempo libero, militanza. Questa competenza maschile è cosciente a momenti, soprattutto nell’infanzia, ma si trasforma progressivamente in una sorta di intuito maschile. Gli uomini costruiscono allora questa competenza sui mezzi concreti dell’oppressione (Mathieu 1991): imparano a testare la funzionalità e l’efficacia di certi comportamenti, attitudini, parole o silenzi e sentimenti nei loro rapporti con le donne.

Ed è in questa asimmetria che si trova il salto qualitativo epistemologico che rappresenta la competenza che nasce dal vissuto delle donne: esse costruiscono una competenza importante, cosciente e relazionale, informata dal vissuto oppresso permanente, che riguarda la dinamica dell’oppressione, mentre gli uomini la costruiscono non-relazionale, basata sui mezzi di oppressione, incentrata su loro stessi e dalla quale il vissuto femminile è quasi assente. Questa asimmetria di competenze pre-politiche, elementi che costituiscono modi di essere al mondo condizionati dal genere, permette di comprendere meglio la persistenza del distacco di genere tra femministe e uomini impegnati e il legame di genere tra soggetto e oggetto di conoscenza. Se le femministe concettualizzano i rapporti sociali sessuati come oppressione, contrariamente agli uomini impegnati, è perché esiste una asimmetria di capacità di analisi dei rapporti sociali sessuati. Questa asimmetria deve essere pensata, in definitiva, come privilegio epistemologico per le femministe e svantaggio epistemologico per gli uomini. Questa condizione epistemologica particolare è da tenere in considerazione perché struttura il rapporto epistemologico dei ricercatori-uomini con i rapporti sociali sessuati. Sarà allora importante che le ricerche impegnate che partono da una posizione sociale oppressiva utilizzino la competenza specifica maschile, ma tenendo conto della capacità minore dei ricercatori di pensare la dinamica dell’oppressione.

Come l’egocentrismo maschile, il particolarismo epistemologico maschile è un ostacolo centrale alla produzione di analisi pertinenti sui rapporti sociali sessuati. Questi ultimi strutturano la soggettività maschile comune e dunque condizionano, in modo specifico, i rapporti con l’oggetto di ricerca. I due ostacoli che abbiamo descritto possono spiegare perché così pochi uomini si impegnano in questo campo, ma anche perché il modo in cui trattano la questione dei rapporti sociali sessuati resti spesso di parte, nonostante una buona conoscenza delle analisi femministe. Questa strutturazione particolare è prima di tutto uno svantaggio: data la loro appartenenza al gruppo sociale oppressore, non c’è quasi niente che motivi i ricercatori, né che permetta loro di rimettere profondamente in causa ciò che fonda la loro esistenza. Sarebbe allora necessario trasformare la soggettività maschile, perché integri pienamente l’esistenza delle donne e il loro vissuto oppresso, implicando per gli uomini una rimessa in discussione personale e una rottura con il loro gruppo sociale e con la maschilità. Ma ciò che prima di tutto costituisce uno svantaggio, permette però agli uomini di contribuire all’analisi di certi aspetti dei rapporti sociali sessuati se e quando il loro contributo è inquadrato nelle teorizzazioni femministe.

Trasformare la nostra soggettività: due tempi

Propongo di identificare gli elementi che permetterebbero ai ricercatori-uomini di trasformare la loro soggettività particolare. Considero due momenti distinti, che non sono necessariamente così separati nella realtà, ma che permettono così di comprendere meglio questo lavoro di trasformazione permanente. Mentre il primo concerne la comprensione adeguata delle teorie femministe, il secondo riguarda la partecipazione alle pratiche femministe militanti, che consente di rendere più salda questa comprensione.

Il primo momento di una trasformazione della soggettività maschile consiste nel leggere e analizzare in modo approfondito le teorie femministe. Esse permettono di trasformare gli schemi di percezione e analisi dei rapporti sociali sessuati, elementi cruciali della soggettività. In questo, i lavori fondamentali di Christine Delphy (1998, 2001), Colette Guillaumin (1992), Nicole-Claude Mathieu (1991), Paola Tabet (1998) e Monique Wittig (2001) restano imprescindibili, perché pongono con chiarezza le diverse dinamiche oppressive, le basi metodologiche ed epistemologiche per un femminismo e un lesbismo radicale materialista, e permettono un investimento intellettuale, affettivo, politico e personale radicalmente innovativo. La comprensione adeguata di queste tesi rappresenta una sfida importante per rompere intellettualmente con la visione maschilista del mondo. Trasformando gli schemi di percezione e di lettura dei rapporti sociali sessuati, i ricercatori apportano una rottura del legame tra sé stessi e il loro gruppo sociale. Logicamente, di fronte a una simile rottura nascono resistenze forti, che danno luogo a diversi modi di investire nella ricerca. Secondo David Kahane (1998), possiamo identificare quattro modalità di impegno. Il poser vuole tanto essere percepito come “pro-femminista”, ma si impegna in modo superficiale e si rifiuta di applicare queste analisi alle proprie tendenze teoriche e pratiche. L’insider si impegna nel progetto femminista, ma vuole mantenere una immagine positiva di sé, non rimette in causa il suo comportamento di genere e proietta il patriarcato sugli altri uomini. L’umanista percepisce il patriarcato come fonte di benefici ma anche di danni per gli uomini, e cerca di imporre un ordine del giorno maschile, dando precedenza al malessere e ai dolori che sarebbero legati alla maschilità. Infine, l’autoflagellatore unisce una conoscenza relativamente approfondita delle tesi femministe a un’intolleranza per l’ambiguità: caratterizzato da colpevolezza e intransigenza, finisce col ritirarsi molto presto in uno dei tre tipi precedenti. Queste quattro modalità di impegno ci ricordano gli elementi già discussi riguardo ai ricercatori uomini: la falsa scelta tra ripresa mimetica e colpevolizzata ed elaborazione di un ordine del giorno maschile sembra una dicotomia tra l’umanista e l’autoflagellatore, mentre l’egocentrismo affettivo, psicologico e politico attraversa in modi diversi tutte le quattro modalità. Di fatto, una concentrazione su di sé e le proprie resistenze psicologiche continuerà a predominare, perché questa è una fase intellettuale e spesso individuale. Questa categorizzazione delle attitudini, durante la prima fase di comprensione, classifica prima di tutto i diversi gradi di “lutto” ai quali arrivano i diversi individui, riguardo l’immaginario e la visione del mondo maschilista.

Nella misura in cui questo primo tempo permette una trasformazione intellettuale, pur limitate, della soggettività maschile, una seconda fase permette di superare queste modalità di impegno. Essa consiste finalmente nel partecipare alle dinamiche collettive e militanti, sotto lo sguardo delle femministe. Se le ricercatrici femministe hanno spesso messo in cima la necessità di impegno politico, mi sembra ancora più importante per i ricercatori-uomini perché questo impegno – che sia informale nella vita quotidiana oppure formalizzato e organizzativo – permette di comprendere meglio le questioni dei rapporti sociali sessuati. La partecipazione a dinamiche di gruppo come il camping anti-patriarcale, ma soprattutto alle lotte e al lavoro di base con le femministe contro diversi aspetti dell’oppressione, permette di trasformare ulteriormente la soggettività maschile, e di percepire concretamente le (micro)dinamiche oppressive: la solidarietà maschile contro le donne e le strategie elaborate, così come il carattere generale organizzato e intenzionale dell’azione oppressiva degli uomini. Per fissare in modo concreto nozioni teoriche come il sessaggio (Guillaumin, 1992), lo sfruttamento domestico (Delphy, 1998), il fatto di cedere alle insistenze senza però consentire, l’invasione mentale e l’eterosocialità (Mathieu, 1991), è necessario permettere di essere messi di fronte agli effetti dell’oppressione, come la paura, la destrutturazione psichica, il dolore, le cicatrici, la povertà ma anche la collera, l’impotenza e le strategie di resistenza. In questo secondo momento, bisogna astrarsi da sé, abbastanza spesso e per abbastanza tempo da creare in sé un luogo affettivo e psicologico che non sia annesso e subordinato al vissuto delle donne. Questo implica una ripetizione di abbandoni momentanei del punto di vista oppressore, per fare un posto intellettuale e affettivo più importante e permanente ai punti di vista oppressi. Ed è precisamente questo “decentramento” – la rinuncia all’egocentrismo – che permette di superare quelle modalità di impegno politico limitate da una comprensione puramente intellettuale delle teorie femministe. Il riconoscimento davvero sentito del vissuto oppresso delle donne, un’analisi basata sull’empatia neutralizzano le resistenze maschili alle teorie femministe e aprono la via a un investimento di altro genere, più impegnato nello studio dei rapporti sociali sessuati.

I due tempi di trasformazione, comprensione intellettuale delle teorie e partecipazione alle dinamiche militanti femministe, costituiscono una pre-condizione per i ricercatori che vogliono sia arrivare a comprendere meglio la dinamica dell’oppressione maschile, collegando sentimenti sensazioni, intuizioni e pensieri, sia impegnarsi in modo meno condizionato nella ricerca. Non si tratta solo di identificare strategie e tecniche usate da altri uomini, ma di analizzare in che modo noi stessi continuiamo a utilizzarle, anche all’interno dei contesti femministi. È necessario prendere coscienza dei conflitti impliciti in una simile trasformazione della soggettività maschile, per arrivare a disertare la solidarietà con il proprio gruppo sociale e di ciò che lo caratterizza: la maschilità e il maschilismo. Dopo questa diserzione, il ricercatore potrà in seguito eventualmente produrre analisi più pertinenti e meno condizionate, nella misura in cui prendano in considerazione il suo svantaggio epistemologico.

Prospettive pertinenti di ricerca impegnata

Fino ad ora, ho cercato di dimostrare a che punto il legame tra soggetto di conoscenza ‘uomo’ e oggetto di ricerca ‘rapporti sociali sessuati’ sia strutturato dalla posizione oppressiva e l’appartenenza al gruppo sociale degli uomini. Lungi da essere ‘soggetti di conoscenza neutri, autonomi e razionali’ come vorrebbe l’immaginario maschilista, i ricercatori uomini sono di fronte a numerosi ostacoli che gli impediscono di contribuire in modo utile all’analisi dei rapporti sociali sessuati. Le due fasi di trasformazione della soggettività maschile permettono di contenere gli effetti negativi dell’egocentrismo affettivo, psicologico e politico maschile e della condizione di svantaggio epistemologico, tuttavia non indicano quale sia il modo di condurre le ricerche impegnate. In questa ultima parte, provo a formulare degli spunti di riflessione sul modo in cui i ricercatori possono tenere conto, in concreto, della loro particolare soggettività nella scelta e nell’indagine dei loro oggetti di ricerca, e concretizzo questa riflessione con l’esempio della socializzazione maschile.

Logicamente, le ricerche maschili sui rapporti sociali sessuati sono segnate dagli pregiudizi che si trovano nelle dinamiche dell’attivismo maschile, che consistono in: «[evitare] di affrontare il rapporto con l’altro sesso e alla realtà di questo rapporto» (Dagenais e Devreux, 1998: 11). Gli autori lo evitano dando priorità al vissuto maschile, senza metterlo in rapporto a quello femminile, sottostimando questo rapporto, ignorando volontariamente gli aspetti intenzionali, coscienti, organizzati e interessati dell’azione oppressiva maschile. Questo pregiudizio deriva, tra le altre cose, dall’idea diffusa secondo la quale i ricercatori contribuirebbero in modo sufficiente a pensare i rapporti sociali sessuati a partire dalla loro posizione sociale, scegliendo come tematica il vissuto maschile, il gruppo sociale degli uomini e la maschilità. In ragione del loro egocentrismo e svantaggio epistemologico, questa scelta tematica non permette di fare emergere nell’analisi l’azione oppressiva degli uomini. È necessario un lungo lavoro di presa di distanza da tutto ciò che crea senso – intuizioni, impressioni, pensieri e sensazioni – perché questo senso maschilista impedisce in modo molto concreto di percepire diversamente il vissuto maschile. Nello stesso modo in cui, per trasformare la soggettività maschile, i ricercatori avranno abbandonato diverse volte il loro punto di vista per sperimentare quello delle donne, si tratta di estraniare in modo progressivo ma radicale l’oggetto di ricerca per poterlo interrogare diversamente. Contrariamente alle ricercatrici femministe, per le quali la competenza pre-politica sulla dinamica dell’oppressione costituisce una risorsa importante per interrogare questo senso maschilista, i ricercatori non dispongono di una simile base di partenza. La sola pratica che può permettere loro di compiere la stessa rottura epistemologica è quella di muovere regolarmente il proprio pensiero tra l’oggetto di ricerca e il senso femminista. Progressivamente, questo percorso di andata e ritorno verso il senso femminista permette di arrivare alla prospettiva di interrogazione dell’oggetto di ricerca, e al ricercatore di formulare questioni sul legame tra la strutturazione particolare del vissuto maschile e l’utilità di una simile strutturazione per migliorare la qualità di vita maschile a scapito delle donne. Esaminando tutti gli aspetti della modalità maschile di agire, di essere al mondo e di vederlo dall’angolatura dei benefici che gli uomini ottengono nei loro rapporti con le donne, i ricercatori possono analizzare il potere nella sua dimensione di genere. Solo dopo avere realizzato questa rottura possono mobilitare le loro competenze pre-politiche sulle tecniche usate dagli uomini per opprimere le donne, appoggiandosi sulle proprie esperienze, impressioni e percezioni. È in questo momento che la riflessione diventa realmente anti-maschilista e può fornire elementi sul modo in cui gli uomini strumentalizzano le donne.

Mi sembra che, procedendo in questo modo, i ricercatori possano contribuire in modo pertinente all’analisi dei rapporti sociali sessuati, imperniando la loro analisi del vissuto maschile in rapporto all’altro sesso e i diversi aspetti che costituiscono questo rapporto oppressivo. Il lavoro di analisi del vissuto maschile non è quindi da pensare come derivante o appartenente solo ai ricercatori uomini. Loro lo vedono dall’interno; non è un angolo migliore dalle donne, che lo vedono dall’esterno ma ne subiscono gli effetti, è solo differente. L’incontro tra la teoria femminista delle ricercatrici e della teoria anti-maschilista dei ricercatori sarà allora l’incontro tra una teorizzazione privilegiata dal punto di vista epistemologico, ma sprovvista di uno sguardo dall’interno, e una teoria svantaggiata ma che nasce da uno sguardo interno.,

Per concretizzare, prendiamo l’esempio della socializzazione maschile. Numerosi ricercatori impegnati la analizzano prima di tutti come un luogo di violenza per gli uomini, che crea diverse forme di mascolinità e produce delle “catene” che imprigionano gli uomini, e solo dopo come fonte di violenza verso le donne. Questo tipo di analisi concepisce male, secondo me, il legame tra causa ed effetto, esagerando spesso gli effetti negativi sugli uomini. Analizzare la socializzazione maschile privilegiando gli effetti negativi sugli uomini (senso maschilista) impedisce in effetti di pensare che questa socializzazione ha come obiettivo, e come effetto, quello di insegnare a una generazione di bambini a diventare attori dell’oppressione sulle donne (senso femminista). E se l’apprendistato di un modo di essere al mondo e di una visione del mondo maschilista può avere dei costi secondari, permette però prima di tutto di godere di privilegi strutturali incomparabili, per il resto della propria vita. La rottura epistemologica resa possibile dal processo di defamiliarizzazione permette, al contrario, di interrogare in quale modo questa socializzazione sia benefica e perfino cruciale per il mantenimento del potere degli uomini sulle donne. Ad esempio, imparare a non esprimere emozioni, o esprimerle selettivamente e in momenti precisi, rafforza gli uomini nel loro rapporto con le donne: «esprimere le emozioni tende fortemente a ridurre la posizione di potere, che ha stretti legami con la non-espressione della vulnerabilità» (Monnet, 1998: 197). La tematica di alcuni ricercatori, quella di favorire l’espressione di emozioni, sembra come l’apprendimento di uno dei mezzi di potere. I ricercatori devono, al contrario, pensare la socializzazione maschile come costituente di diversi modi di imparare, spesso con piacere e godimento, a costruirsi una soggettività, una corporalità, una sessualità che permette loro di servirsi delle donne e di non provare fastidio né rimorso.

La sfida epistemologica delle ricerche impegnate a partire da una posizione maschile, e nonostante questo coerenti con le teorie femministe, è dunque di produrre, a partire dalle analisi femministe della dinamica dell’oppressione, dei saperi che documentino dall’interno tutte le dimensioni dell’azione oppressiva maschile. Questo lavoro si può realizzare se i ricercatori uomini restano vigili sulla loro soggettività e azione oppressiva verso le donne. Non può essere pensato né messo in pratica in modo isolato o tra oppressori, non può nemmeno essere fondato unicamente sulle “buone intenzioni”. È dunque necessario per noi, ricercatori uomini impegnati, stabilire con le femministe interazioni regolari fuori dal controllo del gruppo degli uomini, per verificare la pertinenza teorica e politica del nostro lavoro. Coscienti dell’egocentrismo affettivo, psicologico e politico e della condizione di svantaggio epistemologico, è importante rendere conto alle persone coinvolte, le donne, per evitare i tanti ostacoli già documentati, tra i quali quello di una nuova esclusione delle femministe dalle ricerche maschili sui rapporti sociali sessuati. Di fatto, se i ricercatori possono analizzare dall’interno i mezzi dell’azione oppressiva maschile, non si tratta di creare un nuovo bastione maschile dove l’appartenenza al gruppo sociale oppressore si trasformi in privilegio epistemologico contro le donne.

Bibliografia

disponibili in italiano:

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Colette Guillaumin, “Sesso, razza e pratica del potere”

Monique Wittig, “Il pensiero eterosessuale”

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in francese:

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Le Doeuff, Michèle (1989). L’étude et le rouet. 1. Des femmes, de la philosophie, etc. Paris : Seuil.

Mathieu, Nicole-Claude (1991). L’anatomie politique. Catégories et idéologies du sexe. Paris : Côté-Femmes.

Monnet, Corinne (1998). « A propos d’autonomie, d’amitié sexuelle et d’hétérosexualité ». In Corinne Monnet et al. (Ed.), Au-delà du personnel. Pour une transformation politique du personnel (pp. 31-46). Lyon : ACL.

Tabet, Paola (1998). La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps. Paris : L’Harmattan.

Thiers-Vidal, Léo (2001). Rapports sociaux de sexe et pouvoir. Une comparaison des analyses féministes radicales avec des analyses masculines engagées. Genève/Lausanne : Mémoire de DEA Femmes/Genre.

Welzer-Lang, Daniel (1996). Les hommes violents. Paris : Côté-femmes.

Welzer-Lang, Daniel (1999). Et les hommes ? Etudier les hommes pour comprendre les changements des rapports sociaux de sexe. Toulouse : Dossier d’habilitation Université Toulouse 2 – Le Mirail.

1Questo articolo si basa sulla mia tesi di dottorato. Tengo a ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato a sviluppare meglio questa riflessione, in particolare Christine Delphy, Marie-Josèphe Dhavernas-Lévy, Sandrine Durand, Judith Ezekiel, Françoise Guillemaut, Rose Marie Lagrave, Corinne Monnet, Sandrine Pariat, Patricia Roux et Martine Schutz-Samson.

2La nozione di maschilismo è stata introdotta in Francia da Michèle Le Doeuff: «questo particolarismo, che non solo non vede altro che la storia o la vita sociale degli uomini, ma rafforza questa limitazione con un’affermazione (solo loro, e il loro punto di vista, contano)» (1989:55). Intendo con “maschilismo” l’ideologia politica dominante, che struttura la società in modo da produrre due classi sociali: gli uomini e le donne. La classe sociale degli uomini si fonda sull’oppressione delle donne, fonte di una migliore qualità di vita-. Con “maschilità” intendo una serie di pratiche – che producono un modo di essere al mondo e una visione del mondo – strutturate dal maschilismo, che sono fondate sull’oppressione delle donne e la rendono possibile. Con “uomini” intendo gli attori sociali prodotti dal maschilismo, il cui tratto comune è costituito dall’azione oppressiva verso le donne.

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