Non ci vuole un genio

Leggo con occhi ancora assonnati questo articolo di Gilioli, scritto all’indomani delle elezioni amministrative di due giorni fa.

Un articolo di opinione forse, per alcuni, dirompente, nel quale l’autore ammette di aver “goduto” nel vedere la tanto odiata candidata del Pd venire sconfitta dal berlusconiano Toti in Liguria. Gilioli si spinge perfino a dire che “con l’etichetta di sinistra può fare cose di destra con meno contrapposizione sociale”, e che “se la cosiddetta sinistra finisce per fare quelle cose di destra che la destra in quanto destra non riusciva a fare, è chiaro che il meccanismo ‘voto comunque sinistra per fermare la destra’ va a farsi benedire […] proprio pragmaticamente, a benedire”, e “forse il Paese è andato più a destra con un governo cosiddetto di sinistra che con i governi che si dicevano di destra”.

Bum!

Di certo colpisce leggere simili parole su una testata di un gruppo non certo massimalista, che per quanto aperto e spesso interessante, è stato ingranaggio portante del meccanismo che oggi Gilioli indica con malcelato disprezzo. La Repubblica è stata in prima linea nel bombardamento di intercettazioni e supposizioni che hanno (finalmente) fatto fuori Berlusconi e gettato tutti noi, nostro malgrado, nel delirio che ha portato a Monti, Letta e infine Renzi.

Ma quello che dice Gilioli oggi è precisamente ciò che da almeno 10-15 anni, forse di più, hanno detto tutt* coloro che hanno abbandonato i partiti di sinistra, soprattutto Rifondazione e le sue strampalate strategie che hanno portato la falce e martello invariabilmente a sostegno dei più impresentabili colonnelli destroidi. Personalmente sono stato un ritardatario, per cui non pratico nessun autocompiacimento nel dire: ci voleva poi tanto a capirlo?

Non ci voleva un genio per capire in quale direzione si stava andando. Riforme della scuola, dell’università, del lavoro, leggi anti-migranti e partecipazioni del tutto acritiche a missioni di guerra all’estero sono tra gli highlights dei governi “chelidevivotaresenovincebberlushconi”. Mentre un territorio sempre più mangiato dal cemento e ucciso dall’inquinamento, un panorama culturale desolante e avvilente, tangenti e corruzione a tutti i livelli, ordine pubblico gestito con la stessa violenza di sempre e razzismo in crescita esponenziale, sono tra le caratteristiche di uno Stato, quello italiano, che negli ultimi 20 anni ne ha visti circa una decina con i governi di cui sopra. Senza contare, poi, le innumerevoli e preponderanti esperienze di amministrazione locale, tradizionale specialità di casa della “sinistra” e oggi incolore sede per periodici test elettorali e gradino di un cursus honorum sempre più sciocco e avulso dalla realtà.

Non è certo colpa nostra se la politica stessa è cambiata radicalmente e globalmente negli ultimi 20 anni; ma la ‘nostra colpa’ è stata quella di aver alimentato una speranza malata, quella di vedere tutti i nostri problemi risolti vincendo le elezioni.

Vedere queste parole e questi concetti, che un tempo segnalavano fastidioso marxismo-leninismo o inverecondo anarchismo, espressi da ‘borghesissimi’ personaggi, in un certo senso colpisce e stupisce. Non solo ci si chiede quale sarà l’obiettivo a breve o lungo termine di questo parziale ammutinamento anti-renziano, ma nel vedere tutta questa gente seduta dalla parte del torto il disagio è naturale. Ma c’è una grande differenza tra chi si è fermato in attesa del nuovo messia e chi si è definitivamente liberato da questa malattia chiamata speranza, tra chi è pronto a essere deluso da Civati e Landini e chi costruisce l’alternativa a partire da sé stess@.

Del resto non ci vuole un genio neanche per rendersi conto che la politica elettorale ‘non basta’, ché in qualche modo tutt* sono consapevoli del fatto che bisogna lavorare sul territorio, costruire le lotte, essere presenti eccetera. Invece, forse è arrivato il momento di chiedersi se la politica elettorale non sia dannosa, corrompente, devastante e quindi non supporto ma ostacolo.