Quando parlo di maschilità come un problema non mi riferisco al semplice ‘nascere’ in un corpo considerato maschile. Il maschilismo non nasce dalla genetica né da fantomatiche essenze innate: sono solo alcuni tratti corporali che ci inseriscono in un certo tipo di educazione e di ruolo. Questa non dovrebbe essere una novità: parafrasando Simone De Beauvoir, “non si nasce uomini”. Per essere riconosciuti come tali è necessario un lavoro di adesione a un modello più o meno standard, che comprende i caratteri sessuali secondari, il modo di parlare e di vestire, e anche un certo modo di relazionarti con il mondo, di ragionare, di desiderare.
Dal nostro punto di vista, il modo in cui storicamente la maschilità è stata ed è rappresentata fa parte di uno spettro di possibilità che ogni persona può esplorare, e che può essere in quanto tale oggetto di attrazione o desiderio: questo va detto per evitare di colpevolizzare chi si identifica in tutto o in parte nell’immaginario maschile o che ne è attratto – sono diverse, poi, le vie attraverso le quali ci si identifica o si desidera. Ma va anche detto che quello che noi chiamiamo “uomo” non esiste, come concetto, al di fuori di una gerarchia: «…non esiste alcun sesso. Esistono solo un sesso oppresso e un sesso oppressore. Ed è l’oppressione a creare il sesso; non il contrario […] Il primato della differenza è tanto strutturalmente costitutivo del nostro pensiero da impedirgli di operare quel ritorno riflessivo su di sé che sarebbe necessario per mettersi in questione e capire il fondamento su cui si basa.» (Monique Wittig, “La categoria di sesso”, qui).
È fuorviante, quindi, pensare una relazione “pacificata” tra i sessi, a meno di non farne un discorso di buona creanza che, implicitamente o meno, considera naturale che l’uomo, in quanto tale, esista e abbia il dovere di imparare a comportarsi bene. Ma se “gli uomini devono parlare agli uomini” non è possibile pensare di farlo al di fuori di quella complicità che si crea, da un lato, riconoscendosi come tali e cioè eterosessuali, in cerca o all’interno di una relazione monogama, in qualche modo lavoratori e cittadini perbene, e soprattutto, dall’altro lato, attraverso il modo stesso di affrontare la questione. La buona creanza, il comportarsi bene, fanno parte di un discorso che mira a razionalizzare i femminismi, allo stesso modo di una teoria scientifica la quale è confutabile e falsificabile; e per quanto pensieri e pratiche femministe siano sicuramente aperte alla possibilità di essere studiate, analizzate, criticate, non è sulla base della razionalità che si misura il loro valore.
Se così fosse, si dovrebbe pensare che i femminismi non sono che dei contributi che mirano a migliorare questa società, mentre sono al contrario proposte per un cambiamento radicale di essa. Razionalizzarli, normalizzarli apre spazi di manovra a quelle ideologie che, con le stesse armi – ma in maniera spudorata e furbesca – cercano di combatterli.