“Gli italiani sono bianchi?”

“I bianchi non sono sempre stati «bianchi» e non lo saranno per sempre. Si tratta di un’alleanza politica. Le cose cambieranno” (Amoja Three Rivers)

Grazie al libro “Gli italiani sono bianchi? Come l’America ha costruito la razza” (di Salvatore Salerno e Jennifer Guglielmo) è possibile ricostruire in modo illuminante un processo storico poco considerato. Le persone che dall’Italia andavano negli Stati Uniti in cerca di lavoro e fortuna venivano messe, all’arrivo, in una posizione ambigua: considerate bianche, sì, ma con riserva. Era necessario che dimostrassero la loro bianchezza.

do-the-right-thing-02.jpg - Quotidiano Piemontese

“Do the right thing” (“Fa’ la cosa giusta”) di Spike Lee è un film che racconta molto bene il rapporto difficile tra persone di colore e italiane negli Stati Uniti

Molte di queste persone, infatti, si trovavano a lavorare e vivere insieme a quelle di colore: nelle piantagioni di zucchero della Louisiana, nelle fabbriche e nei cantieri del nord-est, nei quartieri di New York e nei villaggi rurali del sud. In queste esperienze di vita comune nascevano anche solidarietà politiche e, probabilmente anche per questo, linciaggi e discriminazioni di vario tipo erano diretti verso italiani e italiane, pur se in misura inferiore rispetto a quanti erano sistematicamente diretti in particolare verso le persone nere.

L’immigrazione italiana godeva, infatti, di privilegi dovuti alla “bianchezza”: la possibilità di muoversi, arricchirsi, sposarsi liberamente. La marginalizzazione, o la minaccia della stessa, ha avuto quindi la funzione di una spinta all’omologazione: e la scelta, progressivamente, fu quella di accettare questa alleanza e “diventare” bianchi.

A questa scelta contribuirono, probabilmente, anche il razzismo e il colonialismo interni allo stato italiano: molte delle persone emigrate dall’Italia provenivano infatti dal Meridione, ed erano considerate dalla classe dirigente e intellettuale inadatte alla civiltà: stupide, barbare, sporche, e per niente virili – e possiamo ben capire l’effetto che questa accusa può avere verso una cultura che, come tante altre, era profondamente maschilista.

Quando si parla di emigrazione italiana emergono spesso due discorsi apparentemente opposti: da un lato si dice che “noi lavoravamo sodo, rispettavamo le leggi e nessuno ci regalava niente”, dall’altro si risponde che “abbiamo portato la mafia” oppure che “non possiamo essere razzisti perché il razzismo colpiva anche noi”. Questa è una risposta sterile e fuorviante a una affermazione falsa: italiani e italiane sono state protagoniste di rivolte sindacali e di azioni dirette contro lo stato e il capitale, ma soprattutto la loro condizione di partenza negli Stati Uniti era resa più vantaggiosa grazie alla subalternità forzata delle persone di colore (di origine africana, ma anche latina, mediorientale e asiatica). La posizione per certi versi intermedia ricoperta dagli italiani consentiva di sfruttare la propria vicinanza alle persone di colore – nel commercio e nella fornitura di servizi, ad esempio – ma quando, col passare del tempo, la solidarietà interrazziale ha cominciato a essere scoraggiata e severamente sanzionata, cinismo e individualismo hanno portato alla scelta di far valere la propria condizione di “bianchezza”.

È importante conoscere queste storie, per capire i modi sottili ma anche brutali con i quali viene costruita la nostra soggettività: come funziona e agisce il confine labile tra il margine e il centro. E anche per osservare come razzismo e patriarcato istituzionalizzati interagiscono con la volontà di ogni persona: la società ci costruisce ma siamo anche noi a costruire la società.

(Potete scaricare il pdf del libro qui, dove trovate anche il punto di vista di Moju Manuli:

GLI ITALIANI SONO BIANCHI? Come l’America ha costruito la razza – pdf

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