Per il colonizzato, la vita non può nascere che dal cadavere in decomposizione del colono

Se presentassi questo articolo come una disamina della “mentalità razzista nel movimento ecologista” sarei sicuramente riduttivo e fuorviante. In questo lungo saggio/pamphlet si parla, più esattamente, di come il pensiero ecologista – quello bianco e occidentale, si intende – possa essere, di fatto, veicolo di colonialismo attraverso i suoi concetti e le sue pratiche.
Tra i tantissimi spunti presenti, la chiave per comprendere questo scritto è stata, per me, soprattutto la critica al concetto di wilderness.Con questo si intende l’idea di una natura intatta, pura, appunto selvaggia: il concetto nasce nel contesto dell’invasione bianca dell’America del Nord – quella che noi chiamiamo “la conquista del West”. Per fare un esempio concreto: il primo parco naturale della storia, quello di Yellowstone, viene creato nel 1872, proprio accanto agli stermini e agli sfollamenti delle Prime Nazioni (in questo caso, le Shoshone, Niitsitapi e Apsaalooke), e all’avanzare del degrado industriale e dell’accaparramento di terre.
Questa sua contestualizzazione storica mostra come la wilderness, lungi dall’essere un concetto neutro o tanto meno positivo, abbia avuto la funzione di estirpare la presenza umana dai territori rendendo possibile, allo stesso tempo, la separazione concettuale di cultura e natura, cioè di umano e non-umano. In altre parole, il concetto di natura incontaminata e selvaggia nasce da una falsità, quella che non riconosce il ruolo dell’azione umana in alcuni luoghi come, ad esempio, foreste a torto considerate “vergini”. In questo modo, lo sguardo coloniale separa radicalmente l’umano dal non-umano, rendendo quest’ultimo – la natura – nient’altro che il piacevole sfondo del progresso umano. Il pensiero colonialista propone quindi l’idea di una natura morta, inerte, la cui unica relazione possibile con l’umano è quella di essere guardata, razionalizzata e preservata o rinchiusa nel suo mito virginale.
Questa mentalità coinvolge anche i movimenti ecologisti bianchi. Fin dall’inizio, l’idea della conservazione della natura è nata nel contesto della colonizzazione, sistemando accanto al mito della natura virginale quella delle popolazioni autoctone selvagge e, per questo, incapaci di gestire al meglio le risorse naturali. Dalla missione civilizzatrice dell’occidente alle pratiche odierne di accaparramento e sfruttamento turistico delle “terre di nessuno”, nei sud come nelle periferie del nord del mondo, questo ecologismo è stato ed è strumento di conquista coloniale.
Come scritto nell’introduzione originale all’articolo, lo strumento dell’analisi decoloniale consente di “mettere in discussione alcune certezze (in questo caso, la fascinazione occidentale per la natura vergine e selvaggia oppure lo sviluppo sostenibile) e di misurare i discorsi e le pratiche (in questo caso ecologiste) rispetto alle realtà che pretendono di trasformare.”
Quello che questo articolo racconta è infine la necessità di rifiutare l’assoluto e accogliere la relazione come modalità di analisi e di lotta. Secondo gli autori, per esempio, le pratiche di lotta dei Gilet Jaunes, in particolare l’occupazione delle rotonde, sono molto più idonee a ottenere risultati pratici perché legano le persone tra loro e al territorio nel quale vivono, interrompendo al tempo stesso il flusso incessante delle merci. Piuttosto che continuare nell’astrazione delle lotte attraverso gesti simbolici, che consentono allo Stato e al capitale di espandere il proprio raggio d’azione mortifero, è necessario ripensare nel complesso il proprio rapporto con quello che ci circonda: “dobbiamo produrre nuove relazioni con le entità viventi e quelle minerali, per alimentarci e affermare la nostra autonomia non solo in una campagna immaginaria, ma soprattutto nei cumuli di cemento che chiamiamo case o città: dobbiamo strapparle alla loro funzione di ghetti nei quali l’unimondo ci rinchiude.”
articolo pubblicato originariamente da lundi.am qui: https://lundi.am/La-vie-ne-peut-surgir-que-du-cadavre-en-decomposition-du-colon
il titolo è una citazione da Frantz Fanon

Un missile all’interno del poligono militare interforze del Salto di Quirra (Sardegna)

“Dobbiamo abbattere, una volta per tutte, questa ecologia e il suo mondo”

Nei movimenti ecologisti c’è una questione rimossa: il razzismo. Questo ci fa pensare che, di fronte al disastro ecologico, siamo tuttə sulla stessa barca. Le tematiche affrontate dalle organizzazioni ecologiste non ci permettono di riconoscerci in quanto persone razzizzate. Perché mostrare solidarietà con la polizia, mentre la polizia uccide i nostri fratelli e le nostre sorelle? Perché parliamo di migrazioni climatiche nel futuro, se già oggi ci sono migrantə che dormono nelle strade? Perché prevedere una catastrofe ecologica oggi, nel 2020, se è sempre stata presente, come razzismo ambientale, nelle colonie e nei quartieri popolari e di immigrazione? Perché continuiamo a celebrare Jacques Ellul, razzista accertato, nei media ecologisti? Questo scollamento tra le nostre realtà e quelle dei nostri fratelli e delle nostre sorelle bianchə si chiama frattura coloniale1. Diverse persone che se ne occupano, tra cui Modibo Kadalie2, Daiara Tukano, Fatima Ouassak3, Seumboy4 o Malcom Ferdinand5, hanno provato a proporre ecologie diverse, che prendono in considerazione le nostre realtà e le nostre aspirazioni in quanto persone razzizzate che lottano per emanciparsi: delle ecologie decoloniali. Gli ambienti ecologisti militanti non sono esenti da un latente razzismo, del quale l’immaginario ecologista è il vettore più potente.

Le riserve naturali sono percepite dalla maggior parte delle persone occidentali, tra cui militanti ecologistə, come degli spazi dalla forte identità, dove la vita è preziosa. Così, in un mondo globale che distrugge tutto ciò che vive, i parchi o le riserve naturali sarebbero un paradiso terrestre: un’utopia per tutte le persone sensibili al “vivente”. In realtà, sono luoghi molto lontani dallo stereotipo da cartolina: i parchi o le riserve naturali portano con sé una storia pesante, fatta di popolazioni sfollate e ripetutamente derubate. Lungi dall’essere frutto della sfortuna, questa storia è il risultato di una politica che, fin dall’inizio, ha escluso ed esclude alcune popolazioni, accusandole falsamente di essere, loro stesse, la causa dell’esaurimento delle risorse. Le politiche di conservazione hanno sistematicamente accusato le popolazioni locali di essere responsabili della distruzione dell’”opera divina” della natura: nel Maghreb, per giustificare la colonizzazione, l’amministrazione francese dipinse le popolazioni del Sahara come colpevoli della desertificazione6. L’uso della categoria di “selvaggio” è stata ed è ancora utilizzata per mettere in cattiva luce gli stili di vita e soprattutto i molteplici rapporti con il territorio delle popolazioni locali, in modo da rendere accettabile la pretesa di dominio e gestione del mondo da parte dei colonizzatori europei. Le persone furono ridotte in schiavitù, esibite nei parchi e negli zoo umani, come reliquie di una mitica epoca pre-coloniale dove la civilizzazione non era ancora arrivata. Questo argomento servì quindi come giustificazione per l'”opera coloniale”, pensata come l’unica adatta a stabilire le modalità di gestione per fare un uso “ragionato” delle risorse, per il bene di tutti e di tutte, e sempre migliore delle popolazioni autoctone. Perché abbiamo parlato di razzismo? Perché è una categorizzazione degli individui in un gruppo chiamato razza secondo caratteri soggettivi, e che ne fa conseguire una gerarchia su scala globale nella quale la razza bianca domina le altre. Riconoscere questa storia delle riserve naturali è necessario, e richiede l’umiltà necessaria a poter comprendere come questi meccanismi razzisti e coloniali persistano ancora oggi all’interno delle istituzioni ecologiste e dei nostri immaginari militanti.

Anche se le razze non hanno alcuna realtà biologica, continuano comunque a dare forma alla percezione della realtà degli agenti sociali e della società in favore di un mondo bianco. Fratelli e sorelle bianchə, avvicinarsi a questa storia significa confrontarsi con sé stessə, e quindi con una ecologia politica bianca che non è mai stata tenera con coloro che non rientravano nelle norme razziste. Per fare giustizia, bisogna far cadere il velo che nasconde i privilegi.

Questa storia racconta le colonie come luoghi di nascita delle riserve naturali, la produzione di una “natura selvaggia” e dell’assegnazione delle popolazioni alla categoria di “selvaggio”, e il peso di questo marchio che ci tortura ancora. Ripercorrere questa storia è un lavoro di elaborazione del lutto. Serve soprattutto a svelare quali siano i meccanismi responsabili degli scarsi risultati ottenuti in 30 anni di movimenti ecologisti francesi, e allo stesso tempo, a intrecciarsi con le lotte che hanno fatto emergere altri mondi. Serve a riconoscere l’azione profondamente ecologica delle lotte di emancipazione, avanguardia di una ecologia sociale e popolare. Tocca a noi celebrarle, non in un rituale religioso colpevolizzante, ma nelle nostre forme di lotta per l’affermazione di un mondo più giusto. Non ci accontenteremo della concessione di spazi minuscoli destinati a sparire: bisogna abbattere il mondo capitalista e colonialista, la sua natura e i suoi parchi naturali. Perché è con l’espansione di questo mondo che i parchi sono nati, perché è con l’espansione della sua cultura che si mantiene, e solo la crescita di altri mondi, diversi, può farlo sparire.

1 . L’espansione di un mondo: la natura come motore della colonizzazione.

L’idea della civilizzazione europea e quella dell’ecologia sono strettamente legate, perché questo concetto e questa scienza nascono nelle colonie7. Per le imprese e le politiche coloniali, si è trattato di legittimare un sistema schiavista e conquistatore attraverso la pretesa di una civiltà superiore, e al contempo, di studiare nel dettaglio questi ambienti e la ripartizione delle specie a livello globale per sfruttarle al meglio. Lo sfruttamento è stato talmente intenso che proprio nelle colonie, per frenare la deforestazione, nascono le prime politiche di conservazione. In questo contesto il biologo Ernst Haeckel fonda l’ecologia scientifica, sostenendo che tutte le specie siano in lotta tra loro per lo spazio vitale e le risorse. In realtà, l’ecologia di Haeckel è piuttosto la descrizione della società coloniale e schiavista, basata sulla violenza e la dominazione, mentre rende invisibili tutte le relazioni e interazioni, soprattutto la solidarietà, tra le specie (vedi la posizione di Elisée Reclus8). Haeckel essenzializza e naturalizza il progetto politico della colonizzazione. Il paradosso sta nel fatto che dei progetti percepiti come naturali siano però considerati portatori di una missione culturale civilizzatrice, il tutto mentre le istituzioni coloniali continuano a proiettare l’immagine del “selvaggio” per legittimare le loro conquiste. È ciò che è successo negli Stati Uniti, dove per la prima volta emerse l’idea della “natura selvaggia” (wilderness), da cui nacquero le prime riserve naturali.

Dalla natura selvaggia alle riserve naturali.

Il colono e giornalista O’Sullivan, nel suo discorso sul “destino manifesto” nel 1845, propone una visione della “natura” percepita come una terra meravigliosa che bisogna possedere. Promuove la conquista dell’Ovest da parte di una popolazione di esseri superiori. Alcuni avventurieri, come Lewis e Clark, creano delle vie per conquistare dei territori più a Ovest. Nell’immaginario americano compare il personaggio dell’uomo bianco valoroso e coraggioso, pronto a sfidare una natura pericolosa e perfino mortale. Sviluppando la nozione e il gusto del rischio, anticipa i primi self-made men.

Tra i coloni, in reazione a questa natura sfruttata, emerge un’altra visione: quella di una natura da proteggere. Così, parallelamente all’espansione dei luoghi degradati dall’industrializzazione, si sviluppa una rete di luoghi naturali che vengono preservati per la loro qualità, la loro bellezza o la loro ricchezza biologica. La loro protezione, assicurata dal diritto ambientale, venne presa in carico e attuata dagli Stati. Il più antico parco naturale, Yellowstone, creato nel 1872, nasce con lo sfollamento delle tribù Shoshone, Niitsitapi e Apsaalooke.

Questa messa sotto protezione della “natura” nasce da un’ideologia: la wilderness. In reazione alle logiche di sfruttamento legate alla colonizzazione dell’interno del continente nord-americano, il concetto di wilderness serve allora a indicare la “natura vergine” rispetto agli uomini. Le Prime Nazioni erano state largamente decimate dallo shock batteriologico, dalla violenza delle battaglie e dei massacri portati dalla colonizzazione europea del continente americano. Vengono raccontate erroneamente come culture nomadi, dedite alla caccia e alla raccolta e non all’agricoltura, e i coloni non le considerano parte della “civiltà”. Gli europei e le europee, segnatə da una visione dualista molto profonda che oppone “natura” e “cultura”, associano immediatamente coloro che chiamano “indiane” e “indiani”** – indipendentemente dai loro costumi locali e dalla loro autodefinizione – alla natura. Ne fecero così un “popolo senza cultura”, cioè parte della natura selvaggia. La creazione dei parchi naturali testimonia quanto l’idea della wilderness avesse influenzato il primo ambientalismo. L’idea di costituire dei parchi naturali in America del Nord nasce dalle volontà di conservare “una traccia del passato”, creare uno status symbol (il turismo dei parchi era riservato ai più ricchi) e alimentare un nazionalismo americano basato sull’idea che la natura sia solo la cornice esteticamente piacevole del progresso umano. Allo stesso tempo, le Prime Nazioni vengono rinchiuse nelle “riserve indiane”, per continuare meglio la conquista e lo sfruttamento delle terre. Permettendo così di assegnare alle popolazioni autoctone l’etichetta di selvagge, arretrate, ferme al passato, e inferiori.

I primi parchi naturali nascono con l’espulsione delle Prime Nazioni dalle loro terre. Le popolazioni autoctone si vedono assegnare un territorio in modo arbitrario, rinchiuse nelle riserve “indiane” create dal governo americano senza tenere conto delle relazioni preesistenti che esse avevano con questi spazi. Gli sfollamenti delle popolazioni sono metodi e trattamenti etnocidi: come il Sentiero delle Lacrime negli anni ‘30 dell’800 (un terzo delle 14mila persone sfollate non sopravvisse), o ancora l’episodio di Wounded Knee nel 1890 quando furono massacrate donne e bambini. Nonostante questa e altre storie ancora più brutali, la natura selvaggia resta ancora oggi un concetto centrale nelle correnti ecologiste, utilizzato per pensare l’alterità radicale dei viventi.

La natura selvaggia oggi: continuazione coloniale o riparazione, bisogna scegliere

Alcune popolazioni native e correnti anticolonialiste hanno a lungo studiato e combattuto il concetto di selvaggio e di natura selvaggia. Il problema principale di questo concetto è la designazione di luoghi che vengono prodotti socialmente come vergini e immacolati. Questo mito virginale fa presa ancora oggi: le foreste tropicali a torto considerate come “vergini” sono di fatto il risultato di attività agroforestiere spesso centenarie9. La nostra percezione diversa è dovuta all’immaginario coloniale.

D’altra parte, non riconoscere o minimizzare sistematicamente il lascito di certe società su un territorio permette di immaginare che esistano effettivamente delle “terrae nullius” (territori di nessuno). Attraverso questo concetto, ogni territorio che non sia sottomesso alla gestione di uno Stato può essere rivendicato da un altro Stato. Il processo di privatizzazione fondiaria si è storicamente sviluppato parallelamente nelle società europee, con le enclosures10, e nelle colonie. Nei territori colonizzati, l’interesse per il concetto di terra nullius nasce da tre motivazioni. In primo luogo, è lo strumento che serve a dispiegare l’organizzazione di tipo statale su tutto il globo, anche dove le società pensavano e si organizzavano in maniera differente, se non contraria, all’emergere dello Stato11. Inoltre, il concetto di terra nullius ha permesso di continuare la privatizzazione iniziata in Europa, senza che venisse messo in discussione il modello di appropriazione privata unilaterale, come in Brasile, la cui economia si basa sulla messa a coltura di grandi spazi rubati all’agroforesta tropicale e alle savane tropicali (cerrados); in breve: serviva ad accaparrare i territori delle popolazioni autoctone. Infine, permette di rispondere a un bisogno ontologico di queste società ancora molto cristiane, facendo di queste “terre di nessuno” la prova che il Paradiso terrestre esiste ancora.

La volontà di preservare questo Eden immaginario si ritrova ancora oggi nei movimenti ecologisti a proposito delle riserve naturali. Per proteggere le briciole di questo “Eden” viene riabilitato il concetto di wilderness. Virginie Maris ne Il lato selvaggio del mondo12 traccia un collegamento tra i grandi spazi “selvaggi” e ciò che “resta del selvaggio”. L’idea è che per lottare contro la commercializzazione del mondo, tutti gli spazi e dunque le alterità umane o non-umane dovrebbero tornare selvagge. Questa “nuova” wilderness sarebbe, così, perfettamente ripulita dalle sue vergogne razziste e colonialiste. Wallace Stegner suggerisce che “esiste un mondo di cui non siamo responsabili, la wilderness ci può insegnare una profonda umiltà e il rispetto tra noi e verso la terra”13. Ma il mito della wilderness resta problematico e gravato da una storia pesante. A che scopo riabilitare questo concetto, quando altre filosofie non-occidentali propongono già da anni delle relazioni e diversità di affezioni ai territori che non sono vettori di colonialismo?

Del resto, il potere di designare uno spazio come selvaggio è allo stesso tempo il potere di designare come tali le persone che ad esso si associano o vengono associate. Ma queste popolazioni sono perfettamente capaci di decidere di definirsi come “selvagge” o meno, e tutte le collettività che vivono nei luoghi definiti selvaggi non desiderano altro che il riconoscimento dei loro particolarismi e l’autodeterminazione.

La riappropriazione positiva di termini come “indigeno” o la “n-word”14 si realizza a partire dall’interno delle comunità interessate che lottano contro il colonialismo. La “neo” wilderness nega l’esistenza dei rapporti basati su queste categorizzazioni, e mantiene il prisma coloniale “civilizzato/selvaggio” perché rifiuta la questione politica della riparazione. Ma se la riappropriazione deve avere luogo, devono farla le persone che vivono il marchio dell’assegnazione al selvaggio, e non coloro che hanno il privilegio di definirsi o meno come tali. Non stupisce, dunque, che la natura selvaggia sia così ammirata dalle persone bianche, inconsapevoli dei loro privilegi soprattutto nell’ambito militante ecologista, o nelle correnti come la Deep Ecology. La “neo” wilderness assicura la riproduzione del colonialismo, sempre pronto a dispiegarsi di nuovo. Si tratta di una battaglia politica. Non dovrebbe esserci nessuna assegnazione, né al civile, né al selvaggio; si tratta piuttosto di abolire questo schema di pensiero dualista. Il selvaggio non esiste e nemmeno il civile.

Le lotte per l’autodeterminazione parlano semmai di modalità diverse di legarsi alla terra e ai mondi che producono, attraverso il “ragionare con il cuore” zapatista, il buen-vivir (sumak kawsay in lingua Kichwa) della Bolivia, il sentire-pensare delle popolazioni afro-discendenti colombiane15. Queste rivendicazioni non nascono solo dall’America del Sud, ma da tante popolazioni, come quella xeer issa della Somalia16. L’ecologia politica promossa dalla “neo” wilderness lascia intendere che ci sarebbe un selvaggio universale, ma al contrario, la sola universalità concreta è l’oppressione normativa: fredda e malsana proprio perché pretende di essere universale, cercando di abolire ogni singolarità situata.

Il mito della natura selvaggia racconta molto più l’Europa che non i mondi di cui pretende essere la descrizione. Appartiene alle conquiste coloniali che, benché abbiano trovato delle resistenze, sono riuscite a mantenersi per secoli fino a oggi.

2 . La conservazione di un mondo: lo sviluppo sostenibile è colonialismo.

La lotta per la decolonizzazione e il riconoscimento delle popolazioni autoctone emerge con forza negli anni ’50. Nonostante la repressione, le popolazioni resistevano da diversi secoli a quel disastro organizzato su scala mondiale che chiamiamo colonizzazione: etnocidio, genocidio, schiavitù, carestia organizzata, rapimenti e stupri di massa. Schiavə fuggivano e formavano delle comunità chiamate cimarrone, alimentando l’immaginario delle lotte per la libertà. Tante donne schiave preferivano abortire piuttosto che arricchire i padroni con nuovi schiavi. Le sollevazioni venivano duramente represse e spente con la pura e semplice esecuzione di tutte le persone ammutinate. Ma c’erano anche vittorie, come ad Haiti, dal 1804 il primo paese decolonizzato. Purtroppo, dopo le indipendenze, ottenuto il diritto all’autodeterminazione, il sistema coloniale ha saputo mantenersi con un insieme ampio di processi di discriminazione e di sfruttamento: svalutazione delle lingue, razzismi, assegnazioni di identità come “il buon selvaggio” o “barbaro” e la messa a disposizione delle donne razzizzate. Questo sistema implicito continua a esistere attraverso un debito imposto (gli Stati africani sono stati costretti ad acquistare la loro indipendenza dalla Francia), una moneta controllata (il franco CFA), e l’influenza sulle politiche interne attraverso la Banca Mondiale o i progetti di sviluppo che quasi mai sono pensati insieme alle popolazioni locali. Per rispondere a queste critiche e affrontare la questione ecologica, il capitalismo ha dato vita allo Sviluppo Sostenibile durante il Summit della Terra a Rio nel 1992: serviva a risolvere definitivamente le proprie contraddizioni interne. Avrebbe permesso inoltre di continuare lo sfruttamento delle terre e delle popolazioni, ma tenendo formalmente in considerazione il diritto alla dignità e all’autodeterminazione. Da allora, non si è più parlato di governare per le popolazioni, ma di gestire con le popolazioni. Come se dare un nuovo nome a 500 anni di rapporti di dominazione interiorizzati e istituzionalizzati potesse bastare per cambiare tutto. Il colonialismo è dunque ancora oggi vivo e vegeto: che sia nella creazione di riserve naturali, portando avanti logiche di conquista sotto la forma di fronti ecologici, oppure nei progetti di sviluppo sostenibile che assoggettano le popolazioni a interessi capitalisti, bianchi e borghesi.

I fronti ecologici

I fronti ecologici17 sono processi di appropriazione dell’ambiente che si realizzano a danno delle popolazioni locali e della loro autonomia politica, con l’obiettivo di creare riserve naturali, o in senso più lato, degli spazi basati sulla natura, come gli ecoquartieri o i territori ecoresponsabili. A differenza dei fronti che perseguono una logica di sfruttamento, i fronti ecologici si formano intorno a concetti estetici forti, come la maestosità del paesaggio, e alla definizione del valore ecologico, reale o costruito, di un territorio: l’obiettivo degli eco-coloni è gestirne la conservazione sottraendola alle popolazioni locali.

In effetti, chi porta avanti i fronti ecologici sente di avere una missione, solitamente quella di proteggere la natura. Questa missione può anche prendere una piega violenta: nel 2017, il WWF ha attuato un’azione genocida contro il popolo Baka per stabilire una riserva nel loro territorio18. Questo approccio è in stretta continuità ideologica con l’idea della missione civilizzatrice dell’occidente, che vuole imporre una cultura bianca (cioè eurocentrica) e borghese di gestione dell’ambiente alle popolazioni, arrivando ad amministrare direttamente se gli eco-coloni le giudicano incapaci di farlo nel modo giusto. A El Kala in Algeria, la popolazione si è vista proibire la raccolta dei coralli rossi19 – utilizzati nella bigiotteria – con l’istituzione di un’area marina protetta, dalla quale sarebbe dipesa la loro sussistenza. Questa interdizione è stata imposta senza alcuna consultazione o parere scientifico, sebbene l’area in questione fosse uno degli ultimi luoghi del mediterraneo dove i coralli rossi non erano minacciati, proprio grazie a una comprensione raffinata della loro ecologia. Questa operazione di greenwashing a spese delle popolazioni è stata portata avanti dallo Stato algerino per migliorare la propria immagine presso la comunità internazionale, e attrarre investimenti stranieri, dopo un lungo periodo di violenze. La creazione di aree protette è utile all’immagine e alla legittimità degli Stati nelle diverse negoziazioni internazionali sull’ambiente e non solo.

Così gli eco-coloni realizzano una conquista ideologica, perché si tratta di conquistare gli animi, convincendo le popolazioni di essere i più titolati ad amministrare quello spazio. Vengono messi in atto i procedimenti di definizione, o demonizzazione, del “nemico della natura” contro il quale bisogna proteggerla. E quando le popolazioni locali non possono essere definite “nemiche della natura”, allora si parla della loro “stupidità” come causa della supposta cattiva gestione del territorio. Quindi, la colonizzazione non passa più solo attraverso la propaganda religiosa della Chiesa, o la “missione civilizzatrice” dello Stato, ma attraverso le istanze internazionali come le ONG, i programmi dell’ONU (UNESCO, FAO) di sviluppo sostenibile, gli appelli a donare per i progetti di salvaguardia della biodiversità. Come riassume bene Françoise Vergès20: “siete sotto-sviluppatə, ma potete essere sviluppatə se adotterete le nostre tecnologie e le nostre maniere di risolvere i problemi sociali ed economici”. Nel processo di colonizzazione verde, gli organi di legittimazione come l’ONU, la stampa o le conferenze internazionali, con la loro propaganda e retorica intorno alla natura o alla biodiversità da proteggere, sono molto più efficaci delle armi.

Gli eco-coloni.

Questo discorso discende dai nord verso i sud, da chi domina a chi subisce il dominio. Ma anche nei paesi del nord possiamo trovare dei rapporti di eco-conquista, come con il popolo Saami in Scandinavia o le Cévennes in Francia. Si tratta sempre, dunque, di comprendere quali rapporti con il mondo evocano oggi i concetti di natura e di biodiversità, sui quali riposa la propaganda dei paesi del nord, dei dominanti e delle dominanti. Secondo questo discorso, il mondo sarebbe diviso in due tra la natura (la non-umanità) da un lato, e la cultura (l’umanità, che non farebbe parte della natura) dall’altro – una rappresentazione profondamente bianca, perché una simile separazione politica del mondo non è presente altrove, se non in Europa.

La biodiversità: dovrebbe essere un discorso specifico sulle comunità, i paesaggi o la genetica che per comprendere le relazioni in atto in uno spazio, ma viene invece utilizzato di solito come strumento di contabilità. E come ogni contabilità, ha bisogno di frazionare il mondo per poi contare i segmenti che essa stessa ha prodotto. Facendo così, la biodiversità nasconde il fatto che un ambiente non è la semplice somma di entità calibrate, ma il frutto delle loro relazioni, che dà vita a un collettivo complesso e non modellizzabile. Non sappiamo che farcene dell’indice di densità o di rarità, o delle associazioni di entità più o meno rare in uno stesso spazio, perché se non interagiscono tra di loro, quello che abbiamo è solo un insieme morto. Le riserve del Museo Nazionale di Storia Naturale, o della banca dei semi a Svalbard, sono senza dubbio gli spazi con la più grande biodiversità al mondo, ma sono spazi morti. La concezione secondo cui il vivente sarebbe uno stock quantificabile, cioè la biodiversità, viene da una concezione capitalista di accumulazione e di “razionalizzazione” del vivente21.

Coloro che difendono la biodiversità sono tantissimə. L’integrazione delle logiche del parco e della razionalizzazione del vivente si inculcano molto presto. Le persone occidentali, giovani, studenti, che devono valorizzare i loro curriculum, sono incoraggiatə a fare stage e soggiorni umanitari nelle vecchie colonie. Tuttavia, l’aiuto umanitario è inserito in un sistema di sfruttamento. Da un lato, le imprese estrattive privano le popolazioni locali delle loro risorse, dall’altro gestiscono la pace sociale finanziando, attraverso fondazioni e organizzazioni umanitarie, il mantenimento delle condizioni minime di vita materiale e sociale. Questə giovani occidentali sono gli ingranaggi di questa logica di sfruttamento, e partecipano all’amministrazione coloniale del disastro socio-ecologico.

Sviluppo sostenibile o continuità coloniale.

La continuazione del progetto coloniale per mezzo dei fronti ecologici si realizza attraverso agenti specifici come le ONG internazionali. Lo sviluppo sostenibile appare come l’ideologia che sta dietro a questi progetti coloniali. La costituzione delle riserve naturali si inscrive perfettamente nelle pratiche coloniali di cui lo sviluppo sostenibile è la maschera. Anche se a volte nascono da buone intenzioni, bisogna però essere consapevoli dello scollamento che esiste tra le intenzioni dichiarate da un lato, e le motivazioni reali, e i fatti, dall’altro. Purtroppo, le intenzioni sono spesso più interessate che non generose, e questo è evidente nei progetti di sviluppo sostenibile realizzati intorno e dentro le riserve naturali.

In questi progetti, sono le persone giovani inviatə dai paesi coloniali, messə in posizioni di grande responsabilità e senza esperienza, a gestire i progetti, che vengono pensati nelle sedi delle ONG e delle imprese e imposti sulle popolazioni ignorando il contesto e le loro aspirazioni. Questi progetti portano nel colonialismo un’ecologia imprenditoriale che cerca di trarre profitto dalla situazione, impedendo che le popolazioni si emancipino trovando loro stesse le soluzioni ai problemi. Non è altro che disprezzo per le popolazioni locali, le cui conoscenze di ecologia sono più profonde di quelle di unə qualsiasi ventenne europeə. Lo sviluppo sostenibile permette il mantenimento di un’organizzazione coloniale e della gestione capitalista del vivente, comportando anche la possibile sparizione di alcuni ambienti. Infatti, se si fa una gerarchia degli ambienti secondo le possibilità di guadagno che offrono [attraverso il concetto di “servizio ecosistemico”22, quelli meno “convenienti”, come i deserti, possono essere tranquillamente liquidati.

La logica della segmentazione capitalista del mondo è assoluta: tutti i nostri rapporti con le entità viventi divengono di mercato, e dunque vendibili. Lo sviluppo sostenibile uccide “sostenibilmente” i rapporti altri con il mondo o, per dirla meglio: uccide gli altri mondi. Voi vendereste un membro della vostra famiglia allargata? Lo sviluppo sostenibile lo farebbe. Se i Maori hanno fatto riconoscere dalle legge neozelandese il fiume Whanganui come entità vivente, non è perché esso rappresenti un’entità sacra al di sopra o fuori della loro società (come sarebbe la natura nel senso europeo), ma semmai in quanto parte della loro collettività politica, con la quale intrattengono relazioni materiali, simboliche e intime, propriamente sociali23. Si trattava allora per i Maori di far riconoscere e difendere una di loro. Non si tratta quindi in questo caso di natura da conservare, ma di una relazione che è necessario proteggere.

La popolarità dello sviluppo sostenibile, della crescita verde e anche dell’imprenditoria sociale dà ai “fronti ecologici” una forza difficile da contrastare. La potenza degli attori del colonialismo verde è anche una questione di scala. Come mostrano Guyot e Richard (vedi nota 17), le multinazionali, le ONG e l’ONU si muovono su un piano internazionale che sfugge a ogni controllo delle popolazioni, che siano del sud o del nord. Questo genere di imprese globali produce un sistema razzista, privando le popolazioni dei loro mezzi di autodeterminazione attraverso politiche di sviluppo che ignorano sistematicamente la profondità dei loro saperi e delle relazioni che intrattengono con le entità con le quali vivono.

Inoltre, la creazione dei parchi naturali si iscrive in una logica di spettacolarizzazione di questi luoghi, della loro esibizione, della messa a valore (di mercato), con i progetti di sviluppo sostenibile e di turismo (sostenibile). Progetti come il commercio “equo” o l’ecoturismo, anche se portano dei miglioramenti materiali concreti, sono devastanti per gli spazi e umilianti per le popolazioni coinvolte, perché importano logiche sociali contrarie ai loro modi di organizzazione. Per esempio, molte riserve gestite da ONG in Ecuador sono riuscite ad assoggettare le popolazioni al lavoro salariato, con la promessa di guadagni stabili e quindi di una vita migliore. Quando poi è arrivato il successo turistico tanto auspicato, queste stesse ONG hanno chiesto alle popolazioni, ormai salariate e dunque subordinate, di lasciare il “parco”, cioè le loro terre. In pratica, la presenza umana era “troppa”, minacciando l’esistenza del parco e dunque i progetti turistici. Le ONG, invece di preservare il modo di esistenza delle popolazioni, hanno scelto di preservare la propria esistenza, a beneficio dei turisti più ricchi24.

Potremmo anche citare la messa in scena, per la gioia dei turisti bianchi, di attività sociali private o anche intime come i riti delle popolazioni, o perfino la realizzazione di reti di prostituzione associate, più o meno formalmente, ai progetti di ecoturismo. Lo sviluppo sostenibile è un ruffiano che non manca di sfruttare le donne.

Le missioni di sviluppo sostenibile promosse dalle ONG hanno spesso fatto delle donne uno dei loro obiettivi principali. Sopra un discorso di empowerment economico viene costruito un marketing delle “produzioni femminili autoctone”, senza però soffermarsi sulle ragioni della precarizzazione delle donne. Non si parla dell’impatto distruttore delle pratiche di accaparramento delle terre, che colpiscono massicciamente le donne del sud nelle loro attività contadine, soprattutto riguardo ai semi. Le crisi umanitarie, cioè le crisi di produzione, portano numerose ONG a interessarsi alle donne del sud, specie in zone di conflitto dove sono i bersagli principali della violenza. Le mutilazioni e gli stupri sono utilizzati come armi da guerra. È spesso in questa cornice che le donne bianche e le ONG femministe mobilitano la nozione di cura sociale [care], senza menzionare la frattura coloniale. In effetti, la nozione di cura ha un’importanza concreta per la ricostruzione psicologica delle donne e il riconoscimento del loro lavoro, ma se utilizzata da persone in posizione di dominio, può portare a conseguenze negative. Il vocabolario della cura usato dalle ONG si impone sulle donne razzizzate, struttura e norma i loro discorsi, impedendo loro di usare le proprie parole per parlare delle loro oppressioni. L’imperialismo del linguaggio occidentale le priva della loro storia e della propria maniera di lottare (vedi nota 20). Le ONG femministe si fanno ingranaggio del capitalismo e del colonialismo.

I fronti ecologici come i parchi e le riserve naturali sono, in definitiva, spazi di normalizzazione – cioè di controllo delle popolazioni umane e non-umane: controllo sociale, controllo di genere, controllo di razza; e dunque controllo politico. Lo sviluppo sostenibile è la sola forma di organizzazione economica e politica autorizzata a svilupparsi davvero in questi spazi. Ma come si realizza questo monopolio, che minaccia e sfrutta costantemente l’equilibrio dinamico che i viventi hanno in queste zone?

3 . Elogi di altri mondi: abbattere l’ecologia

Questa ambiguità tra conservazione culturale e sfruttamento capitalista del vivente, che si realizza nello sviluppo sostenibile, è il frutto marcio di una negoziazione politica tra la piccola borghesia e la classe proprietaria di fronte alle contestazioni locali: ma c’è dell’altro. Questo simulacro di negoziazione nasce in realtà dalla condivisione di uno stesso mondo: bianco, borghese, urbano, capitalista, mascolino, espansionista, e soprattutto che si pensa come universale. Si tratterebbe allora di scoprire quali siano le fondamenta di questo mondo, e colpirlo alla base perché tutto crolli. Identificare i miti coloniali che abitano in noi. Infine, celebrare le prospettive di nuovi mondi mentre combattiamo quello che cerca di divorarli.

L’unimondo, un mondo per governarci tutte e tutti.

Il mondo nato in Europa divora la Terra: Arturo Escobar (vedi nota 15) lo chiama “unimondo”, perché esso si pensa come unico e universale.

Unico, perché non concepisce l’esistenza di altri mondi, ed esiste quindi un solo tipo di relazioni che lo produce: la concorrenza. Universale, perché deve valere per tutte e tutti. L’unimondo si basa su due assiomi: viviamo su un solo pianeta, quindi c’è una sola realtà da descrivere (in altre parole, l’unimondo è per forza onnipotente), e solo le scienze che appartengono all’unimondo sono capaci di raccontarlo, attraverso lo studio quantificabile di oggetti naturali e culturali (l’unimondo è anche onnisciente). Non può concepire in nessun modo che esistano dei mondi al di fuori di esso; gli altri mondi sono, semmai, ridotti a “semplici” variabili culturali che l’unimondo è pronto a tollerare come forme di sincretismo.

Nella filosofia dell’unimondo, un pastore tekna (amazigh del Sahara occidentale) che guida il suo gregge seguendo la pioggia per mangiare, ha senso solo se proiettiamo su di lui una logica, familiare agli occidentali, naturalizzante e strumentale: il pastore segue la pioggia per dissetare gli animali (che a loro volta sono utili per permettere la sua sussistenza, ecc.). Al contrario, quella persona comincerà sicuramente col presentarsi come appartenente alla gente della pioggia. La sua vera attività consiste nella ricerca dell’acqua, che comporta tutto un insieme di relazioni con il territorio: spostarsi, comunicare, riconoscere la forma delle nuvole, la presenza di oued, ecc. Queste relazioni producono un mondo fatto di entità, nel quale una persona è a sua volta compresa in una entità più grande di essa, la pioggia. La pioggia è qui non solo l’entità liquida che ha senso per noi, ma implica anche una relazione particolare a un territorio, con il quale intrattiene una relazione di appartenenza. Un insieme di relazioni viene quindi richiamato dall’entità “pioggia”, potenza di evocazione, creatrice di mondo e dei saperi. Dal punto di vista dell’unimondo questa sarebbe, forse, una cultura da preservare per la sua “diversità”, la sua “ricchezza”, oppure un modo di vivere non interessante e disprezzabile, quindi primitivo. Ma è molto di più, e non si riduce né a uno stile di vita, né a una cultura, è invece un insieme di relazioni che fanno mondo, in questo caso quello dei Tekna che ha la sua autonomia e la sua coerenza. Tuttavia l’unimondo lo disprezza e lo nasconde, lo rinchiude nell’orientalismo25 o nella natura selvaggia. Sta a noi uscirne, aggiustare i nostri sguardi, i nostri dogmi e le nostre posizioni.

Criticare l’unimondo ci invita a distaccarci da un punto di vista “culturale”, per andare verso qualcosa di più profondo, verso ciò che ha prodotto le idee di cultura e di natura, e l’idea stessa di ecologia. Ma allora, come combattere qualcosa così profondamente ancorato e che si è dispiegato in questi ultimi secoli con tanta forza? L’unimondo è il frutto e il vettore della colonizzazione, come una bestia che si alimenta di sé stessa. Non si fermerà senza opporre resistenza. Sappiamo per esperienza che l’unimondo resisterà con la forza della convinzione o la convinzione della forza. Coloro che negoziano sono i boia di oggi che sperano segretamente evitare la forca di domani. Allora per non essere boia, dobbiamo distruggere quei ferri. Quelle che l’unimondo vorrebbe presentare come periferie resistono con la forza a questo mondo brutale. Questi mondi hanno sempre considerato l’unimondo come uno dei tanti, che potrebbe anche sparire. Allora se dobbiamo disfarcene, dobbiamo per forza imparare di nuovo la storia delle lotte coloniali ed emancipatrici. Di nuovo, sì, perché queste lotte sono state nascoste tramite un’operazione di recupero revisionista, coloniale e razzista dei grandi movimenti ecologisti. Senza essenzializzare, fare cioè della rivolta la vocazione originaria di questo o di quel popolo, come avvertiva Frantz Fanon26, dobbiamo parlare di questa storia che è la nostra, dall’Algeria al Larzac, dai quartieri popolari alle ZAD. Da queste galere, l’ecologia si deve liberare.

La negazione verde.

I movimenti ecologisti in Europa dimenticano quanto le nostre lotte dipendano dalla nostra memoria e siano il frutto di contesti e credenze. Loro sono stati bravi a evitare la violenza dello Stato, usando i loro privilegi di persone agiate e bianche per ottenere la clemenza della giustizia e il sostegno dell’opinione pubblica. Pur potendo scegliere di utilizzare i loro privilegi per strategie più offensive, come hanno fatto i distruttori di OGM, alcuni ecologisti hanno scelto dei metodi inoffensivi.

Ma non otterranno mai niente, perché non rappresentano una minaccia per l’unimondo. Mentre proprio loro, grazie al loro privilegio, avrebbero il potere di farlo saltare come nessun altro. Si sono resi ingranaggio dell’ordine: lo Stato sa come ricompensare le persone che si astengono dall’insurrezione. Lo Stato estende così l’ambiguità dell’unimondo, cercando di appropriarsi anche della contestazione usando il tanto apprezzato sincretismo. Lo farà per mezzo di una propaganda ben rodata con il suo catalogo di messe in scena. Il contro-vertice del G7 a Biarritz ne è stata una dimostrazione esemplare: lo Stato non ha impedito lo spettacolo e le comunicazione di quel genere di ecologistə. Rappresentanti di questi movimenti finiscono poi per entrare nelle istituzioni statali e trovarsi a riprodurre l’ordine, o a dimettersi senza aver ottenuto niente. Sono forze conservatrici inconsapevoli, o consapevolmente ipocrite.

In effetti, questa tattica politica si appoggia su una storia bianca, cioè una riscrittura falsata delle lotte anticoloniali, dove i bianchi e le bianche, nella loro grande magnanimità, avrebbero concesso l’indipendenza o messo fine all’apartheid razziale dopo rivolte assolutamente non-violente. Pensare questo è prima di tutto sputare sulla memoria delle popolazioni, perché tanti tentativi di indipendenza, come in Algeria con le lobby cittadine o in Camerun con uno sciopero generale27, sono stati effettivamente non-violenti ma sono finiti con l’arresto o l’esecuzione di massa dei e delle militanti. Al di là dei numerosi esempi di lotte non violente, le indipendenze e autodeterminazioni sono state ottenute con l’utilizzo di diversi mezzi, dei quali la non-violenza non era il cuore né il denominatore comune. Questa riscrittura è soprattutto un modo di attribuire un ruolo positivo a un occidente bianco che, dopo avere offerto la civilizzazione, offre l’indipendenza. Dopo la lotta di Larzac, che ha introdotto l’ecologia politica in Francia negli anni ‘70, la riscrittura storica delle lotte decoloniali viene utilizzata dai militanti che fanno della non-violenza il centro della loro strategia. Le radici ideologiche dell’ecologia politica francese sono dunque impregnate di una visione etnocentrica, razzista e moralista. Negano una parte della storia decoloniale, che si è realizzata in una dialettica tra diverse strategie.

‘Di questa persona umana ideale egli non ha mai sentito parlare. Quel che il colonizzato ha visto sulla sua terra, è che potevano impunemente arrestarlo, picchiarlo, affamarlo; e nessun professore di morale mai, nessun prete mai, è venuto a ricevere i colpi al suo posto né a dividere il suo pane con lui. Per il colonizzato, esser moralista è, molto concretamente, far tacere la boria del colono, spezzare la sua ostentata violenza, in una parola espellerlo direttamente dal panorama’ Frantz Fanon, 1961 (trad. di Carlo Cignetti)28.

Gli anni ‘70 sono ancora scanditi dai movimenti di decolonizzazione, che praticano le lotte armate, i sabotaggi di massa o le guerre totali come nel caso dell’Algeria, del Vietnam o del Camerun. La guerra di Algeria ha alimentato i pensieri, i contenuti e le speranze di tutta l’Africa francofona e lusofona, e del mondo intero. Mandela o Martin Luther King, figure adorate dai militanti della disobbedienza molto obbediente, sono stati ospiti del Fronte di Liberazione Nazionale algerino29; il primo ha anche organizzato, tra le altre cose, azioni, sabotaggi e non solo. Nella Francia europea, le guerre di Indocina e di Algeria hanno traumatizzato generazioni intere, sporcato la politica e impregnato fortemente le pratiche della polizia. Nello stesso periodo, nell’Hérault, non lontano dal Larzac, un contadino del Comitato Regionale d’Azione Viticola30 uccide un agente delle forze dell’ordine e muore a sua volta colpito dalla polizia. Questo evento è uno choc. Il ricordo della guerra di Algeria è ancora molto vivo, e le rivendicazioni indipendentiste occitane erano molto forti nei primi anni del Larzac. “Il mondo rurale in Francia diventa allora spazio di espansione di un paradigma militante decoloniale”31. Tuttavia, le autorità e i neo-contadini di Larzac si siedono al tavolo delle negoziazioni. Lo Stato aveva tutto l’interesse ad evitare che la contestazione non si diffondesse in tutto il mondo agricolo o alla società intera, perché la situazione poteva sfuggirgli totalmente. Ma anche le persone residenti vogliono evitare che ci siano altri morti. Perciò, vengono organizzate azioni di disobbedienza non-violenta, sapendo bene che la situazione può tracimare molto velocemente e diventare insurrezionale, essendo le persone non solo armate, ma anche formate, e intrise di cultura insurrezionale. In effetti, il Larzac è una regione segnata dalla resistenza al potere centrale dello Stato, dai tempi degli ugonotti fino alla resistenza partigiana32. Questa strategia della non violenza funziona per i militanti e le militanti del Larzac perché il rapporto di forza preliminare è favorevole per loro.

I grandi movimenti ecologisti fanno un’astrazione delle condizioni di lotta, e producono azioni non-violente senza tenere in considerazione il loro contesto, per pura abitudine, per negoziare ciò che chiamano transizione – o ciò che noi chiamiamo tradimento. Supponiamo per un istante di avere torto, e che questa disobbedienza molto obbediente sia davvero la stessa di quelle lotte decoloniali, come loro intendono quando parlano di Mandela di qua e Gandhi di là: ma non vediamo come delle mere operazioni di comunicazione potrebbero riuscire a migliorare la situazione delle popolazioni autoctone, di quella Cimarrone della Guyana, di quella Kanak, di Riunione, delle Antille o dei quartieri popolari. Al massimo, il potere rivedrà il proprio discorso, ne smusserà gli angoli in una colata di verde generale lasciando intatte la povertà, la razzizzazione, la colonizzazione e lo sfruttamento di tutto ciò che vive, che continuerà fino allo sterminio. E per le persone bianche agiate sarà l’occasione per approfittare dell’illusione di un miglioramento, che le conforterà nella loro posizione dominante. È così che l’unimondo si assicura la sua riproduzione e la nostra morte.

Cemento o piantagione: l’ecolonialismo militante da Parigi a Notre Dame Des Landes

Non c’è bisogno di andare fino alle colonie, altrimenti dette territori oltremare, per trovare un esempio di questo scollamento, chiamato anche frattura coloniale: ne troviamo una dimostrazione perfetta a Parigi. Sul vecchio Terrain d’Education Physique (TEP) dell’11mo arrondissement, moltə giovani razzizzatə del quartiere della Banane avevano l’abitudine di giocare a calcio. Con la scusa di un progetto di edilizia sociale inutile – sarebbe bastato collettivizzare i tanti condomini vuoti del quartiere – e della creazione di una discarica, il comune ha smantellato il TEP ed escluso, una prima volta, le persone razzizzate dall’altrimenti bianchissimo 11mo arrondissement. Di fronte a questo progetto, le persone abitanti si sono mobilitate per molti anni, occupando alla fine il terreno. Alcune organizzazioni ecologiste di massa hanno quindi colto l’occasione per accaparrarsi il TEP e farne il loro giardino. Gli abitanti pensavano di far coesistere uno spazio incolto con un nuovo campo di calcio perché ə giovani della Banane si riappropriassero dello spazio. Ma sotto argomenti falsamente femministi, e soprattutto razzisti, le organizzazioni si sono imposte sul TEP, e hanno escluso ancora una volta ə giovani della Banane destinando lo spazio che doveva servire per il campo di calcio a sport più “inclusivi” come il rugby touch, e un impianto spina per la birra. Queste stesse organizzazioni si vantano oggi di avere difeso quello che chiamano senza ironia “Terreno di Ecologia Popolare”.

Purtroppo, nessuno spazio sfugge alla logica coloniale, tra l’inclinazione razzista delle organizzazioni e le marce per il clima che pensano, in modo molto etnocentrico, di essere le prime, “la prima generazione”, a essere colpite dal cambiamento climatico. Nessuno spazio sfugge alla logica coloniale e razzista, nemmeno la ZAD di Notre-Dame-Des-Landes. Non solo per l’invisibilizzazione, molto concreta, degli abitanti sans-papiers di NDDL. Ma si tratta in particolare di quello che è successo riguardo al progetto della Terra in Comune – progetto di un gruppo di abitanti della ZAD che proponeva il riscatto delle terre occupate nel quadro delle negoziazioni con la prefettura – che porta in sé l’unimondo: “ne sappiamo più di loro”. C’è tutta una macchina di delegittimazione, nella più pura tradizione dei fronti ecologici, che si dispiega con il progetto Terra in Comune contro altrə abitanti più marginali. Questo progetto porta alla loro esclusione definitiva, attraverso la delegittimazione dei loro saperi ecologici e della loro intelligenza tattica, a beneficio di un accaparramento di terre.

Allora come fare per sbarazzarsi dell’unimondo se finisce per imporsi perfino a Notre-Dames-Des-Landes? Come negoziare di fronte a delle potenze che pensano il mondo solamente in termini di progetti, profitto e sfruttamento, se non abbiamo la forza dell’immaginario, della sorpresa e della resistenza? Dobbiamo concentrarci sulle lotte ancorate in un territorio e produttrici di relazioni politiche diverse da quelle dello sfruttamento, ponendoci alla pari con tutte le entità viventi come tra i Maori o i Teknas, in breve produrre altri mondi. Per questo dobbiamo allontanarci velocemente dalla mera questione climatica, per dedicarci semmai alla produzione di questi mondi, e superare anche l’esperienza, bella e tragica, di NDDL.

Elogio ai territori “perduti” della Repubblica e agli altri mondi: per un’ecologia che rompe le catene.

Molti punti di rottura si sono prodotti negli ultimi 15 anni, soprattutto le rivolte nei quartieri popolari nel 2005, 2007 e 2017. In questi spazi, le persone producono dei nuovi mondi, in cui ogni quartiere ha il suo linguaggio, la sua musica, la sua storia, le sue relazioni. Si incrociano, si mischiano le eredità dell’Africa, dell’Asia, della Francia, sono spazi che hanno la loro identità e i loro modi di definirsi. Ognuno di questi quartieri sensibili possiede una propria forma di creolità, di negritudine, di arabità, di amzaghità, di afropeità, ma anche e soprattutto una sensibilità popolare, in tutti i sensi del termine, con una produzione culturale che gli è propria, frutto di un insieme di relazioni multiple con uno spazio. Ma di questi stessi luoghi, gli agenti neocoloniali dell’estrema destra e della sinistra sovranista parlano come di territori perduti della Repubblica. Dalla marcia antirazzista del 1983, sappiamo che non conviene appoggiarsi sulle istituzioni di questa Repubblica, questo unimondo. Sono i nuovi mondi che devono affermare: SÌ! Sì, i quartieri popolari sono territori “perduti” della Repubblica, perché non hanno mai avuto altro che riserve-prigioni dove ancora una volta lo Stato parcheggia l’alterità.

Il suo obiettivo è sempre lo stesso: allontanare le popolazioni razzizzate, considerate come bestie. Questa negazione si ritrova in quei discorsi politici che, da un lato, elogiano le pratiche contadine “esotiche”, e dall’altro disprezzano completamente le persone che detengono questi stessi saperi. I saperi ecologici presenti nei quartieri popolari e di immigrazione sono segnati dallo stesso disprezzo e sono resi invisibili, per quanto si tratti spesso di pratiche contadine identiche o simili. Questo rompe ogni possibile trasmissione, reso più complicato anche dalle disparità nell’accesso alla parola pubblica e alla terra, perfino nei dispositivi dei giardini operai. Ma quando si tratta di costruire un inceneritore, un impianto di trattamento dei rifiuti, di aprire una miniera d’oro o di nickel, di spargere clordecone, sono le popolazioni locali a essere elogiate dalle autorità per il loro senso di sacrificio per la Repubblica. Di questo unimondo ecocida, per il quale ecologia è solo rimpiazzare un riparo per i senza tetto con un vaso di fiori, o sgomberare un quartiere popolare per far posto a un ecoquartiere, l’ecologia si deve liberare. Di questo mondo razzista, che incatena, imprigiona e uccide, l’ecologia si deve liberare.

Per realizzare questa emancipazione dobbiamo difenderci da questa ecologia, che incatena e non prevede nessuna relazione. Dobbiamo affermare i nostri saperi popolari, quelli delle nostre famiglie, prima che spariscano; dobbiamo produrre nuove relazioni con le entità viventi e quelle minerali, per alimentarci e affermare la nostra autonomia non solo in una campagna immaginaria, ma soprattutto nei cumuli di cemento che chiamiamo case o città: dobbiamo strapparle alla loro funzione di ghetti nei quali l’unimondo ci rinchiude. Oggi più che mai, come le altre entità viventi, dobbiamo combattere i progetti di sterminio normalizzato di cui siamo l’obiettivo. “Cercare l’autonomia” non vuol dire separarci tagliando i ponti con le altre persone, ma autodeterminarci, decidere per noi e noi stessə accogliendo chi desidera partecipare. Ci sono quartieri popolari gestiti dai loro abitanti: il Quartier de la Goutte d’Or, a Parigi, è un ottimo esempio che da tempo resiste alle spinte della Prefettura e del Comune grazie a una rete di abitanti in relazioni strette. Il quartiere partecipa attivamente alle lotte di decolonizzazione e continua a resistere di fronte alla gentrificazione che rosicchia Parigi, moltiplicando i giardini autogestiti dagli abitanti e aiutando le persone esiliate. Allo stesso tempo, il Comune di Parigi crea dei giardini come quello di Place Alain Bashung, non in collaborazione con la gente del quartiere ma, al contrario, senza e soprattutto contro di essa, per gentrificare l’area ed escludere le popolazioni razzizzate del 18mo arrondissement. Il quartiere di Lentillères a Digione è un altro esempio interessante, perché prende la forma di una ZAD urbana che si oppone a un ecoquartiere.

Da 10 anni le ZAD sono emerse con forza. Questi spazi sono singolari in diversi modi: la lotta per la dignità si estende all’insieme delle entità viventi, emergono nuovi modi di fare mondo. Persone che si situano al centro dell’unimondo si battono per autodeterminarsi, intrecciandosi con le lotte contadine: cioè, non più come individui atomizzati, ma come persone che intrattengono relazioni con il territorio. Nel 2014, un militante ecologista morì per mano dello Stato nella ZAD di Sivens. L’unimondo, di nuovo scosso dalla paura di un’insurrezione e dalla memoria della guerra d’Algeria, si vide costretto ad abbandonare le barricate. Ma questa memoria era anche quella dello Stato d’Urgenza, che si applicò un anno dopo contro lə militanti che si opponevano al greenwashing attuato con la Conferenza di Parigi sul clima. Con lo Stato d’urgenza, nato durante la guerra d’Algeria, venne riportata in funzione la Dottrina della Guerra Rivoluzionaria, utilizzata in seguito anche contro i Gilet Gialli 2 anni più tardi33. Questa dottrina di guerra contro-insurrezionale sviluppata contro gli algerini durante la guerra d’indipendenza è stata esportata ovunque nel mondo. Purtroppo la DGR è ancora usata contro le popolazioni mapuche o palestinesi, che subiscono una repressione ancora più terribile dei Gilet Gialli.

I Gilet Gialli cercano di conquistare le rotonde stradali, nodi centrali per i flussi dei beni ma soprattutto delle persone. Rallentando o bloccando questi passaggi, gli individui atomizzati iniziano a radicarsi. I gilet gialli producono relazioni ancorate nel territorio, non soffrono più in solitudine. Insieme al senso di appartenenza per le baracche, le barricate, le sculture e gli orti che fioriscono sulle rotonde, nascono e si intrecciano relazioni fra le entità che compongono questo spazio. Nelle loro produzioni e nelle loro realizzazioni, queste relazioni contrastano il ritmo dell’unimondo, che vacilla di fronte a un movimento che porta altri mondi, più relazionali, dal potenziale rivoluzionario. Senza nasconderci il fatto che su queste rotonde si riattivino le fratture proprie delle classi popolari, come il razzismo o il sessismo, c’è comunque un nuovo mondo che emerge con i suoi immaginari e il suo insieme di relazioni. Non ci si può sbagliare quando i Gilet Gialli cantano “siamo qui per un mondo migliore”. Al contrario degli ambienti militanti che per tanto tempo hanno tergiversato sulla convergenza con i Gilet Gialli e gli ambienti ecologisti che tergiversano ancora oggi, le persone dei quartieri popolari si sono subito unite alla lotta, sia come Gilet Gialli che per mezzo del Comité Adama; le condizioni materiali di esistenza hanno contribuito alla convergenza molto più di un qualunque discorso o sit-in davanti a una banca. Qui le manifestazioni erano realmente inclusive, le donne, le persone razzizzate, anziane, con disabilità erano molto presenti. Punto per punto, il movimento dei gilet gialli con quello dei quartieri popolari hanno di fatto aperto una breccia nella retorica borghese e razzista delle organizzazioni ecologiste. Queste persone sono assolutamente preoccupate per l’ecocidio e soprattutto sono le prime a subirlo. È tempo di mettere tutto in discussione.

Conclusione

Nel modo in cui è stata costruita e applicata, l’ecologia politica si è sempre posta contro le popolazioni dominate e non ha mai avuto vocazioni sociali – se non una debole sverniciata di slogan per la “Giustizia Climatica, Giustizia Sociale”. In realtà, produce ingiustizie perché è il prodotto continuo di un immaginario colonialista, soprattutto attraverso l’idea della wilderness, che costituisce una delle basi dell’unimondo nei dualismi tra natura e cultura, e tra selvaggio e civilizzato. Di più: accogliere l’idea della wilderness, cioè l’idea di natura, significa accettare il suo corollario, che è l’ideale universalista e coloniale. Tutti i tentativi di sviluppo sostenibile e di commercio equo e solidale, che hanno provato a cambiare questi rapporti di dominazione, hanno permesso al capitalismo di mutare e sfruttare quello che fin ad allora era stato lasciato da parte. Nei casi migliori, hanno consentito un conforto morale ai fratelli e alle sorelle bianche, un miglioramento materiale al prezzo dei corpi, della salute e della dignità di tante fratelli e sorelle razzizzate, al prezzo della distruzione di altri mondi più relazionali. Dal punto di vista di questi mondi, non si tratta di preservare delle entità come esseri sacri al di sopra e/o fuori dalla loro società (come la natura); dal loro punto di vista, si tratta di difendere una parte del loro collettivo (politico) con il quale intessono relazioni materiali, simboliche e intime, propriamente sociali. L’unimondo, al contrario, presenta questi mondi come dei particolarismi, mentre in verità, sono indipendenti e autonomi e lo contestano con forza. Purtroppo, le associazioni ecologiste si sono rese guardiane dell’immaginario coloniale e dell’idea di selvaggio, e hanno sistematicamente distorto la storia per giustificare la loro esistenza, a discapito delle lotte decoloniali. Ancora una volta, solo per rassicurare i fratelli e le sorelle bianche. Questo ci porta oggi in una impasse che i grandi movimenti ecologisti sono incapaci di risolvere perché sono essi i principali guardiani dell’unimondo. Ed è nell’emergere dei nuovi mondi che potremmo invece fermare il massacro organizzato di tutto ciò che vive sulla terra e riacquistare la nostra dignità. In Guyana, nelle Antille, nei quartieri popolari, nelle rotonde, è in questi luoghi altri che si inventano altri mondi, che contestano l’autorità di chi divora e incatena tutto. Dobbiamo abbattere, una volta per tutte, questa ecologia e il suo mondo.

*I generi sono categorie costruite socialmente che non hanno niente di universale. Altre popolazioni hanno altre concezioni del genere

**abbiamo scelto di scrivere “indiani” con una “i” minuscola, per sottolineare il carattere dispregiativo e sprezzante del termine quando viene usato per descrivere le nazioni originarie.

1 Nicolas Bancel, et al. Introduction. La fracture coloniale  : une crise française. La Découverte, (2005), https://www.cairn.info/la-fracture-coloniale—9782707149398-page-9.htm.

2 Modibo Kadalie, Pan-African Social Ecology (2019)

3 Intervista (in francese): Daiara Tukano et Fatima Ouassak , Décoloniser l’Ecologie (2019] https://www.youtube.com/watch?v=HHOKanmMpFo

4 Manifesto: Seumboy, Pour une écologie décoloniale (2019) https://extinctionrebellion.fr/blog/2019/07/17/pour-une-ecologie-decoloniale.html

5 Malcom Ferdinand, Une écologie Décoloniale (2019)

6 D.K David, Desert «wastes» of the Maghreb: desertification narratives in French colonial environmental history of North Africa. (2004) https://journals.sagepub.com/doi/10.1191/1474474004eu313oa

7 Richard Grove, Les îles du Paradis. L’invention de l’écologie aux colonies 1660-1854 (2013)

8 Philippe Pelletier, Pourquoi Élisée Reclus a choisi la géographie et non l’écologie (2016) https://www.cairn.info/manifeste-pour-une-geographie-environnementale—9782724618402-page-101.htm

9 C. Levis et al, Persistent effects of pre-Columbian plant domestication on Amazonian forest composition https://science.sciencemag.org/content/355/6328/925.abstract

10 George Monbiot, The Tragedy of Enclosure (1994) https://is.muni.cz/el/1423/podzim2011/HEN611/um/5_Monbiot_94.pdf

11 Pierre Clastres, La società contro lo Stato, 2013

12 Virginie Maris, La part sauvage du monde (2019)

13 William Cronan, The Trouble with Wilderness; or, Getting Back to the Wrong Nature: https://www.williamcronon.net/writing/Trouble_with_Wilderness_Main.html

14 Jacquelyn Rahman, The N Word: its History and Use in African American Community https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0075424211414807

15 Arturo Escobar, Sentipensar con la tierra : Nuevas lecturas sobre desarrollo, territorio y diferencia

Medellín, UNAULA, 2014

16 Ali Moussa Iyé, Le Xeer Issa: une contribution africaine à la construction du «pluriversalisme» (2018) https://www.cairn.info/revue-presence-africaine-2018-1-page-253.htm

17 Sylvain Guyot et Frédéric Richard, Les fronts écologiques – Une clef de lecture socio-territoirale des enjeux environnementaux (2009) https://journals.openedition.org/espacepolitique/1422

18 Sandro Pintus, ONU condanna progetto WWF per abusi su larga scala contro i pigmei in Congo

https://www.africa-express.info/2020/02/13/onu-condanna-progetto-wwf-per-abusi-su-larga-scala-contro-pigmei-baka-in-congo/

19 Tarik Dahou, Droits d’accès ou droits de contourner ? (2013) https://www.cairn.info/revue-etudes-rurales-2013-2-page-25.htm

20 Françoise Vergès, Un femminismo decoloniale, Ombre Corte 2020 (pagg. 63-64 nell’ed. francese). Vedi anche note 15, 17 e 19.

21 Christophe Bonneuil, Une nature liquide? Les discours de la biodiversité dans le nouvel esprit du capitalisme (2018) https://books.openedition.org/irdeditions/21885?lang=fr

22 Sian Sullivan, Green Capitalism, and the cultural poverty of constructing nature as service provider (2009) http://eprints.bbk.ac.uk/6016/1/Sullivan,_radical_anthropology_2009.pdf

23 Dominella Trunfio, Whanganui, il fiume sacro dei maori sarà tutelato come una persona: https://www.greenme.it/approfondire/buone-pratiche-a-case-history/fiume-persona-giuridica/

24 Frank Hutchins, Footprints in the Forest : Ecotourism and Altered Meanings in Ecuador(s Upper Amazon. (2008) https://anthrosource.onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1525/jlca.2007.12.1.75

25 Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli 2013

26 Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952)

27 Thomas Deltombe, Manuel Domergue et Jacob Tatsita. Kamerun!(2011)

28 Frantz Fanon, I dannati della terra, 1961

29 Jules Crétois. Quand Alger servait de refuge aux militants Africains-Américains (2017) https://www.jeuneafrique.com/mag/418291/politique/alger-servait-de-refuge-aux-militants-africains-americains/

30 Pierre-Marie Terral « Gardarem lo Larzac » : de la dimension occitane de la lutte paysanne à son cheminement mémoriel. (2011) https://journals.openedition.org/lengas/383

31 Mathieu Gervais, Le rural, espace d’émergence d’un paradigme militant décolonial (2015). https://www.cairn.info/revue-mouvements-2015-4-page-73.htm

32 Les Cévennes, « Théâtre sacré », nature profane… (2009) https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-01632863/document

33 Mohamed Warda, « La Septième arme » : et si l’armée remplaçait la police en France ? https://ehko.info/la-septieme-arme-et-si-larmee-remplacait-la-police-en-france/

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