Parlate tra di voi – dalla colpa bianca al tradimento della razza

Ho scelto di tradurre questo pezzo uscito su Ill Will perché credo offra moltissimi spunti di riflessione sulla questione della solidarietà con le lotte, in particolare sul confronto tra una militanza fondata sul senso di colpa e un’attivismo basato sulla mutualità, la complicità e la condivisione. Il tema del pezzo sono le rivolte della primavera del 2020 negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia, ma credo che gli spunti possano essere utili anche per gli uomini cis ed etero che si chiedono come potere essere solidali con le lotte femministe e queer. Tradire il genere è forse più complicato che tradire la razza, ma affermare che queste identità che ci sono imposte – pur con tutti i privilegi che portano – non siano statiche ma instabili, e che si possano rompere le alleanze che le sorreggono, può essere una traccia per comprendere meglio.

Parlate tra di voi: dal senso di colpa bianco al tradimento della razza

La psicologia moderna è una psicologia del deserto: quando perdiamo la facoltà di giudicare – di soffrire e condannare – cominciamo a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in noi se non possiamo vivere una vita deserta. Fintanto che la psicologia cerca di ‘aiutarci’, ci aiuta a ‘adattarci’ a questa vita, portando via la nostra unica speranza, quella di essere capaci, noi che non siamo destinati al deserto nel quale viviamo, di trasformarlo in un mondo umano. La psicologia capovolge tutto: precisamente perché soffriamo in queste condizioni desertiche siamo ancora umani e ancora intatti; il pericolo sta nel diventare veri abitanti del deserto e sentirci a casa in esso. – Hannah Arendt

Lo sbirro nella testa

Quando ero giovane frequentavo una scuola multirazziale che si trovava in un quartiere nero. La scuola era principalmente per persone nere, ma si cercava di inserire ragazzi e ragazze bianche dei quartieri ricchi. In teoria doveva servire a favorire l’integrazione. Di fatto, si creava una scuola nella scuola, dove le persone bianche e asiatiche dominavano nei programmi più prestigiosi, mentre quelle nere e latinx restavano nei corsi standard. Nonostante la segregazione, però, era stato questo ambiente a farmi conoscere la fantastica stazione radio hip-hop 102JAMZ che trasmetteva da Greensboro, a un’ora e mezza da qui. Nel giugno 2007, quando avevo 14 anni, la stazione organizzò il suo concerto annuale, la Superjam. Sul palco erano previsti artisti che adoravo: Omarion, DJ Unk e Crime Mob. Mia sorella, io e i suoi amici, tutta gente bianca, ci ammassammo nella sua Ford Taurus e andammo a Greensboro per lo show.

Non pensavo nemmeno alla razza. Nemmeno mia sorella, che aveva 17 anni. Amavamo il rap e i biglietti costavano poco. All’arrivo ci rendemmo conto di essere tre delle pochissime persone bianche tra il pubblico. Nel parcheggio dei ragazzini si sporsero dai finestrini di un pulmino scolastico e urlarono increduli “State andando al Superjam?!”. Alla mia conferma urlata, la conversazione divenne tutto un grido di felicità. Magari la nostra presenza era strana, ma non era sgradita. Ho visto gli artisti che volevo, ho urlato e ballato e cercato di prendere le t-shirt lanciate dal palco.

A un certo punto, da allora fino a oggi, qualcosa però è cambiato. Se oggi andassi al Superjam, la bianchezza sarebbe il mio primo pensiero. Non so dire esattamente quando, ma la bianchezza liberale di sinistra mi ha insegnato che dovrei esitare quando entro in spazi a maggioranza nera. Non per paura o disprezzo, ma per uno strano senso di “rispetto” tramite l’autocensura. Nessuna persona nera me lo ha mai chiesto. Ora, più passa il tempo e più le mie interazioni negli spazi neri sono segnate da domande come: sto superando un limite? Sto gentrificando? Sto invadendo? Sono sgradita? Mi sto perdendo qualcosa?

Più cose imparavo sulla bianchezza, all’università e anche dopo, e più mi convincevo di avere infinite, enormi lacune sulla razza e il razzismo. Decisi che entrare in uno spazio nero era come essere un guardone, una turista. Era meglio starne fuori, più rispettoso.

Il sedicente antirazzismo bianco liberale ci insegna che siamo così distanti dalle esperienze delle persone soggette alla supremazia bianca che non possiamo nemmeno lontanamente capire o simpatizzare. Anche se questo è parzialmente vero, il risultato di questo discorso è che invece di trovare l’entusiasmo per fare ciò che possiamo per destabilizzare il suprematismo bianco dal di dentro, ci troviamo a dubitare della nostra capacità di empatizzare. E di conseguenza, la realtà del vivere sotto il suprematismo bianco viene mitizzata oltre ogni comprensione. Negli ambienti accademici e simili, le persone bianche escono dalle discussioni sulla dominazione razziale intrappolate in un loop di odio per sé stesse, con la paura che nonostante i propri sforzi non si può evitare di essere, comunque, una personificazione del suprematismo. Il “silenzio bianco” appare come indifferenza bianca al razzismo, ma a volte è motivato dalla paura. Paura di dire la cosa sbagliata. Paura dell’incomprensione. Paura di “parlare sopra” qualcuno. Paura di “peggiorare” o aumentare il dolore di qualcuno. Per cui, piuttosto di provare a inserirsi in una di queste conversazioni, è più facile starne fuori. Se non hai una relazione intima con una persona, non rischi di ferirla! In questo modo, la moralità antirazzista replica le modalità già conosciute di segregazione, oscurate dietro una missione giusta. Mentre ci isoliamo dentro le nostre comunità bianche, ci convinciamo di portare rispetto. Ma quanto di questo isolamento è radicato nella stessa paura che ci fa tacere? Non paura della Nerezza, ma del nostro stesso disagio rispetto a ciò che la nostra pelle bianca significa per le nostre identità personali. Al contrario della comprensione del suprematismo bianco come oppressione strutturale, qui l’antirazzismo viene posto come responsabilità individuale, riflesso della “fragilità bianca” che è diventata una parola così di moda.

Mentre il linguaggio psicologizzante della “fragilità” e del privilegio è attraente per i liberal che cercano una purificazione morale, fortunatamente non restituisce un’immagine completa della bianchezza. La sollevazione nazionale per l’omicidio di George Floyd ha rivelato che c’è un intero mondo di persone bianche là fuori, motivate da un desiderio che non è quello di supportare la bianchezza, ma di uscirne. Cosa fai quando vuoi andartene, ma non sai dove andare?

Se essere bianco è così bello, perché sto così male?

Poniamo il caso di avere una bianca [femminile nel testo originale] potenzialmente rivoluzionaria. Lei sente che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui va il mondo. Sa di beneficiare, in teoria, dal privilegio bianco, ma non lo percepisce in concreto. Si sente spezzata, ferita, sola. Magari è queer, o povera, o disabile, e soffre il capitalismo in modi che superano i benefici della bianchezza, e tuttavia il suo privilegio razziale continua a mettere in ombra gli altri aspetti della sua identità. La sua bianchezza è un tratto statico e inesorabile, il colore della sua pelle l’ha posta contro la sua volontà tra le fila di un sistema che odia. Se la “bianchezza” è un monolite inevitabile, che cosa può fare? Sente di non poter stare da nessuna parte: nella comunità bianca non può ignorare il sottotesto del suprematismo bianco, ma non riesce ad affrontarlo; vede i danni che la bianchezza ha portato al mondo e si sente complice. Si sente compiacente, ma non sa come non esserlo. Ma se è in grado di rendersi conto che la bianchezza è un ostacolo alla liberazione globale, non può mica essere considerata una *bianca*, no? Ma che altro c’è?

La nostra potenziale rivoluzionaria si sente impotente di fronte alla bianchezza. Vive gli attacchi intellettuali alla “gente bianca” (diminutivo per il suprematismo e le istituzioni della bianchezza) come attacchi personali, perché non trova un modo per smettere di essere bianca. Si incazza e diventa la sinistroide chiassosa e fastidiosa che non riesce a superare il suo desiderio di essere validata come “una di quelle brave” dalle compagne non-bianche. Magari cercherà di mitigare la sua bianchezza sfruttando le sue identità marginalizzate, la sua presentazione di genere o la sessualità queer. Queste devianze, specie tra le donne bianche, diventano una sorta di codice per segnalare in modo immediato di non essere come le “altre” persone bianche – che lei “capisce”, perché anche lei è oppressa. Questo meccanismo rivela che, nonostante questi scivoloni irritanti, le persone bianche potenzialmente rivoluzionarie hanno fame di solidarietà e vogliono disperatamente essere compagne nella lotta.

Mentre la consapevolezza del suo ruolo come persona bianca di sinistra si sviluppa, sente l’attivismo liberale e borghese dirle di “stare nella sua corsia” e “fare un passo indietro” e donare soldi e votare e ascoltare. Ma sente che ciò che fa non è abbastanza. Percepisce di avere un punto morto – che le sta sfuggendo qualcosa. Se prova a fare troppo, sta sovradeterminando o mettendosi al centro. Si morde la lingua, e se parla, è solo per autoflagellarsi.

Per molte persone bianche, è qui che si ferma il treno della “giustizia sociale”. Mettere ulteriormente in discussione la bianchezza significa rischiare cambiamenti che fanno paura e potrebbero cambiare la vita e la posizione di una persona. Tuttavia, ci sarà sempre chi sentirà ancora il senso di “sbagliato” e di inadeguatezza. Ricercare quel senso di “non abbastanza” può portare a momenti di illuminazione. Oltre alle letture teoriche e alle liti coi parenti al pranzo di Natale, ci sono momenti trasformativi in cui ci colpisce, proprio fisicamente, la brutale semplicità dell’interconnessione tra la bianchezza, lo stato e il capitalismo. L’antirazzismo liberale farà tutto ciò che può per offuscare questi momenti. È accaduto anche di recente quando, in un’intervista con il New York Times, l’autrice di White Fragility, Robin DiAngelo, ha affermato senza vergogna: “Il capitalismo è indissolubilmente legato al razzismo. Io evito di criticare il capitalismo – non voglio dare motivazioni alla gente per smettere di ascoltarmi”. La gente liberale bianca crede che l’anticapitalismo sia un sogno impossibile e quindi trascurabile, invece che l’unica soluzione ai danni del suprematismo bianco. Secondo il pensiero liberale, quello di cui le persone bianche hanno bisogno sono libri, corsi, seminari, gruppi di studio, lezioni, documentari – qualunque cosa che serva a rendere la realtà più complicata di quello che è, e distrarre dalla comprensione che la bianchezza non è un monolite che ci incatena, e che il capitalismo non è inevitabile.

La rivolta per George Floyd è stato un lampo di potenza e possibilità. Nel mezzo della catarsi di rabbia condivisa, c’era anche un desiderio sentito di cambiamento reale, immediato, demolizionista. Attraverso il saccheggio, la distruzione di proprietà e il mutuo soccorso, le persone bianche hanno respinto insieme la bianchezza e il capitalismo, e scoperto la semplicità della loro connessione. L’intreccio intrinseco tra la bianchezza e il capitalismo non era più un postulato teorico, ma una verità tangibile. La sollevazione ha rivelato la quantità di persone bianche disposte a stare accanto al precariato e proletariato nero, a mettere corpi e vita al servizio di una rivoluzione che potrebbe salvare tutti noi, loro comprese. Come Endnotes notava in “Avanti barbari!”, questo tradimento della razza “non era un tradimento che mirava al potere della classe operaia, ma un tradimento spontaneo di soggetti neoliberisti, spinti da rabbia e disgusto, che rifiutano di essere ciò che sono, e assaggiare brevemente, nella confusione della lotta, ciò che potrebbero essere”. La spontaneità di questa solidarietà mostra comunque che la fragile unanimità della bianchezza si sta rompendo.

Percepisco che molte persone bianche si sentono così, ma non hanno le parole o gli strumenti per dare un nome a questi sentimenti. Sospetto che ce ne siano tante altre nelle quali gli stessi profondi istinti rivoluzionari, messi in mostra la scorsa estate, stanno germogliando, ma che non hanno ancora sperimentato un momento trasformativo che disperda la cortina di fumo. La bianchezza ci toglie la visuale su tante cose, ma non ci impedisce di vedere lo sfruttamento razziale e la stagnazione impliciti nel capitalismo, e la forza con cui lo Stato ha combattuto contro questa consapevolezza di massa, durante le rivolte dell’estate scorsa, dimostra ancora più chiaramente che ci abbiamo visto bene.

“La natura instabile della bianchezza”

l mio momento trasformativo è arrivato durante la sollevazione. La rivolta mi ha insegnato che quando le persone bianche resistono attivamente allo Stato, il privilegio bianco non è più garantito. Inizialmente era una sensazione sgradevole e spaventosa. Avevo la pelle bianca e pensavo la bianchezza mi avrebbe sempre protetto, anche quando non pensavo di volerlo. Passato lo shock, mi sono resa conto che la bianchezza non aveva quella presa statica che pensavo avesse su di me.

Nel 1995, Joel Olson scrisse su Race Traitor di questa consapevolezza, chiamandola la “natura instabile” della bianchezza. Quando la polizia uccise Steven Cole, un uomo bianco di 23 anni, Olson fece parte di un gruppo di testimoni che erano per lo più neri e latini. Tra queste persone, scrisse Olson, “il rispetto per le persone bianche come me dipendeva da quanto non ci fossimo comportati da ‘bianche’ – cioè, come uno sbirro, un reporter invadente, o un coglione impanicato. Cole, steso morto sull’erba, non si era comportato da bianco quella notte. Stava in un quartiere a prevalenza nera e chicana, ha affrontato gli sbirri, ed è morto per questo. Trovarsi dall’altra parte del grilletto di una pistola della polizia NON è una cosa da bianchi in America. Per cui la gente ha lottato per lui”.

La bianchezza non è una questione di colore ma di comportamento. Avere la pelle bianca ci pone di default nel club del suprematismo bianco, ma tramite il nostro comportamento possiamo, per alcuni brevi, pericolosi e a volte euforici momenti, uscirne fuori. Quando lasciamo indietro la nostra colpa bianca e lavoriamo invece per il tradimento della razza, diventiamo responsabili non di ciò che non possiamo controllare (il colore della pelle) ma di ciò che possiamo controllare (quello che facciamo). Ma come nota Olson, l’uscita dalla bianchezza è una condizione effimera. Il tradimento della razza non è una posizione stabile, perché è impossibile farlo costantemente. Tuttavia, l’idea del tradimento può essere il faro che ci aiuta a cambiare il modo in cui navighiamo i mari, spingendoci ad agire anche in modo imperfetto nelle nostre comunità, più che cercare la redenzione perfetta per il nostro privilegio.

Il tradimento della razza bianca non richiede che le persone bianche sappiano tutto o abbiano tutte le risposte. Richiede solo umiltà. Quando ci rendiamo conto che i nostri errori non sono un riflesso della nostra intima personalità, diventa meno doloroso passare in rassegna azioni o scelte che abbiamo fatto in precedenza e che hanno supportato in qualche modo il suprematismo bianco. Quando impariamo a riflettere sui nostri comportamenti e su come sono socializzati, allora possiamo ideare strategie per il cambiamento. Possiamo usarle per rivelare l’instabilità della bianchezza, usare il nostro comportamento come una luce puntata sulle sue fondamenta marce. In “Race Traitor”, Noel Ignatiev scrisse che “tradire la bianchezza è abbracciare l’umanità” (“Treason to whiteness is loyalty to humanity”). Nella mia esperienza, significa anche fiducia e investimento su di sé. Un’identità bianca definita in base alla sua slealtà verso il suprematismo è più resiliente, creativa e potente di una definita dalla colpa.

Le persone bianche devono sviluppare la conoscenza e la resilienza necessarie a scegliere attivamente di tradire la razza quando la prossima sollevazione lo richiederà. Se la nostra speranza è quella di costruire una base di potenziali traditori della razza bianca, è importante identificare le altre persone che mostrano un desiderio intuitivo di uscire dalla bianchezza durante le fasi di quiete della battaglia.

Pacificazione liberale o istinti rivoluzionari

Quando parliamo di mitigare il privilegio bianco, tendiamo a mostrarlo negativamente: stiamo “rinunciando” al privilegio; siamo coloro che sono disposte a perdere “il nostro posto sulla scala”. Questa cornice paranoica consente di leggere più facilmente certi comportamenti di merda dei sinistroidi bianchi come tattiche che supportano inconsciamente il suprematismo bianco. Al contrario, quando smettiamo di mitigare e cominciamo a immaginare il tradimento, contribuiamo a espandere gli immaginari dei potenziali rivoluzionari. Quando diamo alle persone bianche gli strumenti emotivi e intellettuali per scavare nei loro comportamenti di merda, per comprendere la loro socializzazione senza auto-flagellarsi, apriamo una via verso un cambiamento duraturo.

Come ha scritto quest’anno Adrian Wohlleben in “Meme senza fine”, “il demolizionismo punta ad appiattire materialmente gli organi del potere statale, a rendere logisticamente e socialmente impossibile la pretesa di dominio della polizia e dei tribunali”. Invece di mitigare il nostro privilegio, dobbiamo demolire la bianchezza mostrando che le persone bianche non devono per forza essere devote alle sue regole. La bianchezza ci insegna a vedere la nostra identità razziale come statica; richiede un appiattimento dell’esperienza. La bianchezza ci dice che si può trovare giustizia nel sistema attuale, se solo finanziamo le organizzazioni giuste o partecipiamo alle proteste autorizzate giuste. Esausti dal lavoro, dalla famiglia, dal debito e da una pandemia infinita, è più facile dare retta a qualcuno che ci dice quale sia la cosa “giusta” da fare. Dopotutto la bianchezza può sembrare impossibile da fuggire e troppo grande per cambiarla – e provare a sperimentarla attraverso la lente del demolizionismo sembra un compito troppo arduo e temibile.

È nell’interesse dei capitalisti catturare l’energia antirazzista nascente e incanalarla verso vie convenienti che non fanno nulla per cambiare l’attuale sistema. Le aziende e i politici guadagnano mostrandosi antirazzisti e “woke”, mentre il mondo liberale bianco ottiene un balsamo a poco prezzo per calmare la rabbia e la disperazione. Questa alleanza, puramente performativa, soffoca la solidarietà di classe: invece di vedere come le nostre vite siano colpite in modo simile dall’élite capitalista, ci ostiniamo a mitigare inutilmente la nostra colpa, legandoci le mani. In questo modo la “giustizia” diventa “antirazzismo” ma non “anticapitalismo”.

Diciamolo: nessun cambiamento duraturo verrà da un antirazzismo che è pro-capitalista, perché non farà altro che stendere un velo di diversità e inclusione su un sistema che continua a schiacciare il proletariato e il precariato. Non c’è nessuna differenza nell’essere picchiate da uno sbirro nero, gay o donna.

Quando la connessione tra bianchezza e capitalismo viene ignorata, il capitalismo appare infrangibile – una caratteristica permanente della vita moderna. Ma non lo è. Le compagne e i compagni vivono e costruiscono ogni giorno al di fuori di strutture capitaliste, in reti di mutuo appoggio, distribuzioni e mercati gratuiti di cibo, occupazioni, organizzazioni di solidarietà medica ecc. L’oscuramento liberale tarpa le ali agli istinti rivoluzionari delle persone bianche, affermando che demolire lo Stato o il capitalismo non ha senso perché è impossibile; non puoi cambiare il capitalismo come non puoi cambiare il colore della pelle. Le aziende ci vendono miraggi antirazzisti di progresso per tenerci lontane dalla vera soluzione, quella pericolosa.

Data la loro natura interconnessa, dobbiamo lavorare per distruggerle simultaneamente. Se ci concentriamo solo sulla bianchezza, il suprematismo sopravvive nelle strutture capitaliste; se ci concentriamo solo sul capitalismo, il suprematismo rimane nella socializzazione e nella cultura. Cogliere la loro interconnessione ci consente di pensare e agire con una comprensione più sottile della questione. Invece di stare a crogiolarci nella colpa, possiamo capire i modi in cui il privilegio bianco abbia drasticamente reso più facili le nostre vite, così come i modi in cui la bianchezza ha ottenebrato le nostre emozioni e strangolato i nostri pensieri. Tenendo insieme queste due realtà, invece, la resistenza può nascere non da un senso di colpa o di reazione ma da un immaginario di riparazione, e da una comprensione che un mondo senza bianchezza e capitalismo è un mondo migliore per tutti noi – comprese le persone bianche.

Tempi morti

E ora? Wohlleben si concentra sul potere del gesto demolitore come espressione di fiducia in sé, di recupero dell’esperienza, e di rottura dall’apparato di giustizia sociale che cerca di spegnere l’energia rivoluzionaria. Ma senza la comunità pratica e la fisicità immediata di una sollevazione, come possono le persone bianche trasformarsi da “alleate” spuntati a traditrici della razza, disertori, transfughe, rivoluzionari? Come possiamo preparare noi stesse e i nostri compagni bianchi ad assumere questi ruoli quando ci sarà la prossima, inevitabile, sollevazione?

Prima di tutto dobbiamo fare un salto mentale lontano dalla colpa bianca, un’emozione inutile che non fa niente per migliorare le nostre vite né quelle di chi è oppresso dal suprematismo. A livello individuale, credo che dobbiamo attuare una critica riparativa della nostra esperienza della bianchezza. Nel 1995, Eve Sedgwick propose la “lettura riparativa” come alternativa alla “lettura paranoica”, specificamente nella teoria queer, ma le sue idee si possono applicare anche a quella della razza. Quando usiamo un’ermeneutica paranoica, cerchiamo prima di tutto di evitare le brutte sorprese e di ridurre il dolore anticipando gli imprevisti inevitabili. La persona paranoica ottiene sicurezza tramite la costante valutazione dei rischi. Nel contesto dell’azione antirazzista, il paranoico liberale cerca di evitare di essere percepito come razzista – sia come motivazione per la sua azione antirazzista, o come desiderio simultaneo accanto all’azione antirazzista. In questa cornice, il tratto “antirazzista” è qualcosa che ti viene conferito da una forza validante esterna, ed è sempre in pericolo di essere rimpiazzato da quello di “razzista”. Questa insicurezza crea il senso di colpa e previene l’azione radicale, perché la paura di sbagliare e perdere l’agognato titolo di “antirazzista” può essere più grande dei benefici, spesso sconosciuti, dell’impegno nell’azione collettiva. Affrontare la bianchezza in modo riparativo significherebbe smettere di vedere la nostra pelle come barriera insormontabile per comprendere e agire. Al contrario dell’ipervigilanza paranoica, un’ermeneutica riparativa non richiede la perfezione ma incoraggia a guardare avanti: ci rende libere di fare errori senza rischiare il nostro sé, ci consente di incorporare una forma di tradimento della razza nelle nostre identità senza autoflagellarci.

Dobbiamo parlare alle altre persone bianche dei danni che la bianchezza fa alle nostre vite personali ed emozionali. Questo serve sia a rivelare la realtà non statica, instabile della bianchezza, e a far capire che il suprematismo bianco non è una forza esclusivamente benefica nelle loro vite individuali. Nelle nostre conversazioni con le altre persone bianche, possiamo parlare apertamente dei modi in cui la bianchezza ci ha fatto male, uccidendo le nostre esperienze emotive, alienandoci dalla pienezza dell’esperienza umana – i modi insomma in cui ci ha privato di ciò che riempie di senso la vita. Invitare le persone bianche a riconoscere questo dolore apre la porta alla discussione su ciò che di positivo può arrivare dalla lotta, piuttosto che concentrarsi sui “privilegi” che perderemmo con la nostra defezione. Invece di chiedere di combattere per rimediare alle ingiustizie presenti, possiamo spingere le persone a lottare perché la liberazione dal suprematismo bianco e dal capitalismo fa bene a ognuno e ognuna di noi. In questo modo possiamo essere coloro che “uniscono i puntini” per chi altri si sente “non abbastanza” e sente l’errore interno e l’inadeguatezza delle tattiche.

Il tradimento della razza non nasce solo dal potere trasformativo di una sollevazione. Abbiamo la responsabilità di investigare il nostro comportamento con un occhio critico, vedere i luoghi dove abbiamo tratto benefici dal suprematismo bianco o supportato la sua esistenza senza saperlo, identificare i modi in cui ci auto-isoliamo e censuriamo. Tuttavia, il consiglio che ci viene spesso dato è solo quello di “avere più amicizie di colore”. Ma andare da una persona estranea e chiedere “devo riempire una quota della mia cerchia sociale, possiamo fare amicizia?” non è un’interazione molto umana. Dovremmo invece cominciare diversificando i nostri spazi quotidiani. Se il nostro posto di lavoro è tutto bianco, chiediamoci perché. Proviamo a cambiarlo oppure licenziamoci. Se i nostri hobbies sono solo da bianchi, troviamone di nuovi. Se il nostro quartiere è tutto bianco, chiediamoci perché. Sarei andata al Superjam qualche anno fa, se avessi potuto? Forse no – per la mia paranoia di superare qualche limite immaginario. L’eredità del suprematismo bianco significa, come nota Olson, che le persone di colore potrebbero non fidarsi delle persone bianche che si presentano negli spazi dove non sono la maggioranza. Questa mancanza di fiducia non deve essere confusa con il rifiuto. Se il nostro comportamento non è atrocemente bianco – lo sbirro, il giornalista invadente, il coglione impanicato, la ‘Karen’ presuntuosa, l’influencer ‘woke’ che si appropria del linguaggio, la persona in cerca di attenzioni – allora possiamo costruire legami di mutuo rispetto e umanità condivisa. Certo, ci saranno sempre degli errori. Abbiamo tanta socializzazione alla bianchezza da identificare e disimparare. Ma proprio perché è un comportamento, e non un’identità statica, possiamo notare gli errori e aggiustarli. E se i nostri errori portano al rifiuto, dobbiamo accettarlo e migliorare.

Usare un’ermeneutica riparativa della bianchezza non significa negare, minimizzare o ignorare l’oppressione sistemica. Essa riconosce il danno che il capitalismo razziale ha fatto e continua a fare, ma invece di adagiarsi sulla semplice esposizione di sé e delle altre persone alla conoscenza di questo danno, invita la possibilità queer – o instabile – nella discussione su ciò che potrebbe essere il futuro. In che modi il capitalismo razziale ha danneggiato le nostre vite e le nostre comunità? Quali piaceri possono essere ottenuti dal tradimento dei ruoli ai quali siamo stati assegnati? Come sarebbe una vita non controllata dal capitalismo razziale? Sviluppare una cornice teorica di possibilità costruisce le fondamenta dell’azione.

Dobbiamo sviluppare le reti e la resilienza necessaria per supportare il precariato e proletariato nero e marrone nella prossima inevitabile sollevazione. Il cambiamento non ci verrà regalato dagli oligarchi suprematisti bianchi, né verrà dai seminari liberati e da legislazioni deboli. Sarà guadagnato nelle strade attraverso tattiche demolizioniste, le stesse che le prime volte hanno fatto storcere il naso a molte persone bianche. Dobbiamo trovare le persone che come noi sono “quasi lì”, e portarle fino in fono, riconoscendo il loro dolore, dando loro lo spazio e gli strumenti per esaminare la loro bianchezza, e invitando a conquistare potenza e solidarietà con il tradimento. La colpa bianca comincia da fuori, e si diffonde nel nostro intimo. Il tradimento della razza comincia riformulando la nostra identità bianca, per indirizzare all’esterno la nostra energia trasformativa.

Anche se è vero che la distruzione è una forza creativa, una completa eliminazione dei sistemi oppressivi deve creare gli spazi dove elaborare nuove forme gioiose di condivisione, lavoro e vita comune. In questo senso credo che il tradimento della razza e il demolizionismo siano schemi riparativi e mirati all’azione: entrambi ci invitano a non attendere più che lo Stato riconosca le nostre “richieste”, e cominciare a costruire resilienza, cura, mutuo aiuto, e supporto reciproco qui ed ora nelle nostre comunità.

Nei momenti di quiete, noi persone bianche dobbiamo anche parlare tra noi. Non possiamo fare resistenza tornando ad autoisolarci e spuntare le caselle dei manuali liberali in una vita impotente sotto il suprematismo bianco capitalista. Non abbiamo tempo di aspettare che le altre persone bianche capiscano – dobbiamo spingerci le une con gli altri, creare spazi per parlare e fare domande, e aiutarci a vedere che anche se le oppressioni non sono uguali, in definitiva il capitalismo opprime tutte e tutti. Se facciamo questo lavoro adesso, quando la prossima sollevazione arriverà ci saranno molte meno persone bianche disposte ad assecondare lo Stato pacificando la rivolta e deviando le energie verso le bacchettate liberali sui danni alla proprietà privata. La forma multirazziale e solidale delle sollevazioni per George Floyd non era una coincidenza. Se comprendiamo gli istinti rivoluzionari che la hanno creata, possiamo guidare i nostri compagni e le nostre compagne bianche al servizio di quel mondo migliore che vogliamo costruire.

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