La competenza maschilista – di Léo Thiers-Vidal

Questo lungo estratto fa parte del libro “De l’ennemi principal aux principaux ennemis: position vécue, subjectivité et conscience masculine de domination” (Dal nemico principale ai principali nemici: posizione vissuta, soggettività e coscienza maschile di dominazione) di Léo Thiers-Vidal, con introduzione di Christine Delphy.

Dello stesso autore avevo già tradotto un breve saggio che trovate qui. Thiers-Vidal era un compagno dichiaratamente bisessuale, anarchico e antispecista, che nel 2007 ha scelto di non vivere più. Quello che lo rende speciale, nel panorama delle persone assegnate uomini alla nascita che hanno scelto di contribuire alla causa femminista da un punto di vista maschile, è la sua capacità di rendere politico (e insieme personale) ciò che spesso viene trattato da un punto di vista freddamente psicologico o più banalmente polemico. Lungi da limitarsi ad un elenco di “cose da non fare” o fare proselitismo promuovendo un “femminismo che fa bene agli uomini”, Thiers-Vidal individua le pratiche concrete che perpetuano la dominazione maschilista e offre spunti per superarle, non per creare una “nuova maschilità” ma, in linea con il femminismo materialista francofono, per superare il genere in quanto tale.

La tesi di fondo del libro è che gli uomini abbiano una coscienza della dominazione, siano cioè consapevoli che le loro azioni (e non-azioni) abbiamo la funzione di mantenerli in una posizione dominante rispetto alle soggettività “non-pari”. In questo estratto parla della “competenza (expertise) maschilista”, riferendosi proprio a quelle cose che gli uomini imparano fin da bambini per consentire loro di conservare e ampliare il proprio privilegio di genere.

Copertina del libro

Competenza maschilista

La tematica della socializzazione maschile (eterosocializzazione ed eterosessualizzazione), riletta tramite l’ipotesi della coscienza maschile di dominazione, ha permesso di capire alcuni aspetti della soggettività maschile, psico-familiare e psicosociale1. Gli elementi empirici finora affrontati, e le ipotesi esplicative discusse, confermano che sarebbe sbagliato limitarsi a un’analisi disincarnata di quella configurazione materiale-soggettiva che è la posizione maschile vissuta. Ma indicano, anche, la necessità di ripensare questa posizione integrando pienamente in essa l’agentività politica degli uomini: il fatto cioè che agiscano in funzione dei loro interessi e desideri, e che questi siano concepiti come superiori a quelli delle donne.

1.- La competenza come principio organizzatore della soggettività maschile

Attraverso la socializzazione maschile, i bambini imparano ad adottare una soggettività e delle pratiche strutturate dell’idea di supremazia maschile. Hanno assimilato il fatto di vivere in una società basata sull’oppressione delle donne e di potere far parte dei beneficiari di questa struttura sociale a patto di adottare la posizione vissuta maschile. L’investimento su questa posizione – l’identificazione materialista alla maschilità – implica l’adozione di certe pratiche di sé (il modo di portare il corpo, di mettersi in scena, di percepirsi…) ma soprattutto l’adozione di certe pratiche di fronte alle non-pari, cioè le ragazze e le donne. A furia di adottare queste pratiche, i bambini prendono gusto ai benefici prodotti: la riconoscenza dei genitori, degli insegnanti e dei loro pari, privilegi materiali e simbolici rispetto alle non-pari, godimento politico narcisistico dell’essere privilegiati… Col tempo, si crea un’interazione dialettica tra la percezione di sé in quanto membro del gruppo sociale dominante e l’esercizio di certe pratiche rispetto alle non-pari. La dominazione esercitata sulle ragazze e le donne alimenterà un senso maschile del sé, che a sua volta alimenterà specifiche pratiche politiche nei confronti delle donne. Il bambino capirà, progressivamente, che la sua maschilità è funzione della sua azione oppressiva verso le donne, e che questa maschilità è sinonimo di una posizione vissuta privilegiata. Avrà imparato, quindi, che essere uomo è più desiderabile, mentre essere donna è più sgradevole.

Per dare un nome al principio organizzatore della soggettività maschile, mi sembra interessante adottare la nozione di “competenza” (expertise). Questa nozione si trova in particolare nella psicologia cognitiva, con un senso particolarmente vicino a quello che voglio usare:

“Gli schemi di sé (per esempio le identità sociali che vengono da categorie sociali, come l’identità di genere) in alcuni ambiti particolari rendono l’individuo sensibile all’informazione pertinente per questi stessi ambiti. Questo interesse rinforzato e questa attenzione verso un ambito particolare produce uno stock di sapere denso e ben organizzato. Le persone provviste di schemi di sé in questi ambiti […] sviluppano un tipo di competenza che ha un insieme di conseguenze per la gestione dell’informazione” (Gurin e Markus 1989, p.54).

La nozione di competenza pone l’accento sul fatto che gli umani siano soggetti attivi di conoscenza, che agiscono in una struttura sociale data, e che gestiscono informazioni e analisi che permettono loro di discernere e orientarsi. Parlare di competenza è perciò ancora più pertinente, perché la posizione vissuta dell’oppressore è intrinsecamente una posizione privilegiata in termini di opzioni, di traiettorie e scelte possibili, a causa dell’assenza di vincoli imposti dai dominanti. In termini schutziani, la posizione maschile vissuta implica che “il dominante può mantenere più pienamente vivo un senso di relazione tra l’azione, l’atto, l’interesse a disposizione e il progetto globale di vita” (Lengerman e Niebrugge, 1995, p. 34). Il privilegio maschile implica un margine di manovra molto più ampio (Lorenzi-Cioldi nota anche che l’androginia – la messa in scena di sé mischiando maschilità e femminilità – è oggi molto più accessibile agli uomini che alle donne – 1994), facendo spazio per una maggiore agentività o capacità/possibilità di agire, da cui deriva una maggiore esperienza e possibilità di sperimentare situazioni e interazioni diverse. Ciò rende più adatta l’idea di una competenza operativa e pragmatica, specificamente maschile, legata a una maggiore possibilità di compiere scelte “razionali”. Questa competenza pragmatica di genere è perciò resa possibile, in particolare, dal fatto che nei paesi occidentali l’esperienza mista è più diffusa, che l’apprendimento di genere è precoce e che la differenza di sesso è più rilevante, rispetto a quanto lo siano in altri rapporti di potere più segnati dalla segregazione (Amâncio 1997).

Come ricorda Mosconi:

“Solo alcune posizioni sociali (dominanti) permettono questo comportamento in termini di scelte razionali; mentre molte posizioni sociali – ed è spesso il caso di quelle delle donne – a causa delle loro risorse deboli e dei forti vincoli che pesano su di loro, non mettono i loro ‘attori’ (attrici) in grado di fare scelte ‘razionali’, o in altre parole, queste scelte razionali sono solo un modo di tradurre i vincoli della situazione e i rapporti di forza che pesano su di loro” (1994, p. 112).

Di fatto, se la posizione vissuta dell’oppressa si adatta, più o meno, all’analisi predominante in termini di scelte razionali, la posizione vissuta dell’oppressore sembra invece esigere che venga data più importanza all’analisi degli atti e non-atti in termini di scelte “razionali”, senza che questo termine sia definito in modo troppo preciso. Rimettere al centro dell’agentività maschile le nozioni di scelta e strategia – “il concetto di strategia si riferisce ad azioni più o meno coerenti, il cui inserimento in un contesto dato conduce il ricercatore a conferire agli attori un progetto relativamente cosciente e una parte di calcolo a partire da un’analisi più o meno perspicace della situazione e delle possibilità di azione” (Mosconi 1994, p. 258) – iscritte in un campo decisionale fondato su parametri come il grado di rischio, il costo, il guadagno e il beneficio finanziario, psicologico e psicosociale (Mosconi 1994) sembra essere, così, una delle conseguenze analitiche che derivano dal prendere in considerazione le implicazioni esistenziali della posizione vissuta dell’oppressore. Questa implica, allo stesso modo, una maggiore distanza critica rispetto ai racconti e alle giustificazioni soggettive delle persone che occupano queste posizioni, e in tutti i casi, una maggiore vigilanza delle funzioni politico-esistenziali che questi discorsi hanno nella vita di queste persone.

La nozione di competenza rinvia dunque alla “forma essenziale della conoscenza [che] è la conoscenza pre-teorica della vita di tutti i giorni, dove il linguaggio, direttamente legato alle attività pragmatiche che la dominano, occupa un posto importante” (Mosconi 1994, p. 41). In altre parole, “una conoscenza così non è improvvisamente teorica, è prima di tutto una conoscenza pre-teorica: ‘È la somma totale di tutto ciò che ‘sanno tutti’2 sul mondo sociale, un assemblaggio di massime, morali, saggezze proverbiali, valori e credenze, miti ecc.'” (Berger e Luckmann, in Mosconi 1994, p. 44). Questa competenza è una “‘conoscenza-tipo, cioè la conoscenza limitata alla competenza pragmatica nell’esecuzione abituale di un compito’, conoscenza che ‘occupa un posto predominante nello stock sociale delle conoscenze’” (Berger e Luckmann in Mosconi 1994 p. 41), dove “l’esecuzione abituale di un compito” fa quindi, per esempio, riferimento alle interazioni sociali quotidiane con i pari e le non-pari. La nozione di competenza rinvia allo stesso modo alla coscienza:

“La coscienza che acquisiamo della struttura di una situazione, la sua percezione sotto una certa luce, includono una conoscenza delle possibilità che la situazione offre; ma questa coscienza e questa conoscenza sono per molti versi un savoir-faire, cioè una capacità globale di sperimentare la situazione in funzione di ‘un certo numero di idee di insieme sulle condotte e le emozioni umane’[…], e di produrre le azioni appropriate” (Quéré 1995 p. 9).

Si distingue dai concetti di ruolo, di disposizione o performatività per il fatto di mettere in risalto la coscienza pratica elaborata dagli agenti dei rapporti di forza sociali. Questa competenza, “lo stock sociale di conoscenze permette così ‘la localizzazione degli individui nella società e il loro trattamento appropriato’ (Berger e Luckmann) Per quanto riguarda i rapporti tra uomini e donne, questa “localizzazione” e questo “trattamento” consistono, nella maggioranza delle società, nel situare i primi in uno stato di dominanti e le seconde di dominate e a organizzare di conseguenza le pratiche” (Mosconi 1994, p. 43).

Queste competenze sono asimmetriche3 nella misura in cui le donne accumulano informazioni, sentimenti, intuizioni e analisi che partono dalle conseguenze violente dell’oppressione che subiscono, per risalire con difficoltà alla fonte di esse, elaborando così conoscenze sui rapporti concreti che vivono (Lorenzo-Cioldi 1994). La posizione femminile concreta implica in particolare “una ‘apertura’ di fronte al dominante, che cerca di anticipare i possibili atti che potrebbero influenzare la propria esperienza […] deve restare vigile sulle intenzioni del dominante verso di lei […] per potersi proteggere, soprattutto dalle tattiche di manipolazione” (Lengermann e Niebrugge 1995 p. 30). Dato che il vissuto femminile è permanentemente segnato dagli effetti dell’oppressione, questa competenza occupa un posto primario, e deve spesso rimanere cosciente e concentrarsi sulla dinamica oppressiva in quanto tale. Al contrario, gli uomini accumulano fin dall’infanzia informazioni, sentimenti e intuizioni e analisi su come mantenere e migliorare la loro qualità di vita, perché non hanno, in quanto uomini, da “rendere servizi” o sottomettersi alle donne. Così, ciò che apprendono nel quotidiano nei loro rapporti con le donne resta incentrato su loro stessi: ascoltare di più le donne potrebbe significare mettere in discussione i propri comportamenti e costare loro energia fisica e affettiva, o anche abbandonare o perdere vantaggi concreti. Per questo, svelare il proprio funzionamento affettivo può offrire loro dei mezzi di resistenza alle donne, ma anche portare, a loro stessi, sollievo e supporto terapeutico da parte loro. Una buona dose di freddezza e di distanza scoraggia ogni iniziativa da parte delle donne, mentre l’espressione di interesse e di attaccamento permette di ottenere certi servizi affettivi e sessuali. In breve, gli uomini sviluppano tutto un repertorio di attitudini e pratiche coscientemente destinate a ottenere questo o quel risultato nei loro rapporti con le donne. Notiamo, a titolo di esempio di questa competenza maschile pratica concreta, rispettivamente in senso maligno e benigno:

“Un Don Giovanni inveterato raccontò durante la sua analisi come diventasse improvvisamente impassibile e silenzioso ogni volta che una ragazza lo respingeva: ‘Le terrorizza! Quasi nessuna resiste per più di 15 minuti; poi sono pronte a tutto purché smettiamo di negare la loro esistenza'” (Devereux 1980 p. 223).

“Un gruppo di sperimentatori, ferventi interazionisti, […] provano a trattare una ragazza ordinaria – né bruttissima né particolarmente bella – come se fosse una vera bellezza. Il primo, ottimo attore, si è stufato subito: la ragazza era imbarazzata e non sapeva come comportarsi. Il secondo era già più soddisfatto. Tutti gli altri non volevano lasciarla: era diventata sicura di sé, interessante e ben vestita” (De Queiroz e Ziolkovski 1994, p. 465-46).

Si può dire che la competenza maschilista sia egocentrata. Occupa meno spazio della competenza relazionale femminile, a causa dell’asimmetria strutturale per gli agenti e del fatto che la posizione di oppressore consente giustamente di interessarsi ad altro: studi, carriera, tempo libero, militanza, socialità. Questa competenza maschile è cosciente, in certi momenti, specie nell’infanzia e l’adolescenza, ma si trasforma progressivamente in una sorta di intuito maschilista. Gli uomini costruiscono così una competenza sui mezzi concreti dell’oppressione (Mathieu 1991): imparano a testare la funzionalità e l’efficacia di certe attitudini, comportamenti, parole, silenzi, sentimenti nei loro rapporti con le donne. Questa competenza può riguardare allo stesso modo le situazioni da privilegiare e quelle da evitare. Come detto sopra, le micro-situazioni vissute sono in effetti momenti in cui si rafforzano, o indeboliscono, la maschilità e le strutture sessiste: “le gerarchie situazionali di potere servono a rinforzare la stratificazione sociale esistente” e “la sistemazione situazionale del potere più probabile per i membri del gruppo stigmatizzato e non stigmatizzato durante le interazioni tra gruppi serve a rafforzare […] i pregiudizi” (Richeson e Ambady 2003 p. 177, 182). Gli uomini costruiscono dunque una competenza che riguarda i mezzi dell’oppressione, centrata su sé stessi, e dove il vissuto delle donne non è presente se non nella misura in cui rappresenta per gli uomini un interesse politico.

A questo livello, è interessante constatare che un’ipotesi relativamente simile è stata formulata, nell’ambito della psicologia politica, da Amerio. Opponendosi a un approccio troppo razionalista o determinista sul tema, e inscrivendosi visibilmente in un approccio interazionista e fenomenologico, Amerio propone “il modello di un individuo capace di trattare e di organizzare le informazioni politiche, ma le cui capacità cognitive, dominate da esigenze funzionali di semplificazione ed economia, sono suscettibili di errori e preconcetti” (Amerio 1991, p. 215). Amerio introduce inoltre la nozione di competenza politica, definita semplicemente come “il sapere posseduto dall’individuo in questo ambito [che] influenza l’acquisizione dell’informazione, la memorizzazione, la formazione e il cambio delle attitudini e delle opinioni” (Amerio 1991 p. 216). L’autore descrive in modo molto simile al mio i processi di quella cognizione sociopolitica che coinvolge costantemente l’individuo:

“Sperimenta […] ogni giorno rapporti di potere di cui non può avere che una coscienza debole, ma che influiranno sui suoi modelli di conoscenza, sulle costruzioni e ricostruzioni degli avvenimenti [,…] sul suo approccio all’informazione […] L’individuo non si pone come un percettore isolato su una scena di oggetti sociali, ma come un essere che affronta problemi di sopravvivenza, sviluppo e identità dentro una struttura di relazioni che si estende dal pubblico al privato, che in parte lo crea come ‘essere sociale’ […] e che in parte è creata da lui nei limiti delle sue possibilità” (Amerio 1991, p. 218-219).

Questa struttura di relazioni è da leggere a sua volta come dotata di una doppia faccia costante tra la dimensione delle risorse (potere) e delle idee (cognizione): ciò che crea il legame di articolazione tra queste due dimensioni è l’azione umana. L’azione è in effetti fortemente modellata dalle risorse disponibili (capacità e potere) e “ha dunque un ruolo di concretizzazione in rapporto alla cognizione, e contribuisce a collegare gli schemi dell’ambiente con gli schemi di sé, partecipando così alla costruzione identitaria” (Amerio 1991, p. 221). Ma l’azione, secondo l’autore, ha in definitiva un ruolo ben più importante perché inserisce la dimensione del potere nel mondo mentale:

“L’azione viene memorizzata non solo in forma di schemi di comportamento, ma anche di schemi di potere: questi restano, a diversi livelli di astrazione e generalizzazione, punti di riferimento per ogni progetto di azione (che sia realizzata o meno, o semplicemente pensata) e per ogni relazione con l’ambiente circostante (dunque anche per il trattamento dell’informazione) che implica valutazioni e decisioni” (Amerio 1991 p. 221).

Infine, l’idea di competenza nel senso che abbiamo definito sembra anche avere una sua utilità euristica. L’idea interazionale e pragmatica di una competenza politica elaborata dagli agenti che vivono in un mondo costituito da rapporti asimmetrici, spinge in effetti a interrogare in modo differente la questione delle rappresentazioni stereotipate di genere. La tradizione predominante nella psicologia sociale – secondo la quale gli stereotipi che riguardano le differenze di gruppo sono globalmente erronei – viene così rimessa in discussione da Eagly e Dielman nel loro articolo “The accuracy of gender stereotypes: a dilemma for feminism” (1997). Gli autori argomentano che, per ciò che riguarda più specificamente gli stereotipi di genere, sarebbe più giusto adottare il paradigma dell’accuratezza, perché “a differenza di numerosi altri gruppi sociali, gli uomini e le donne hanno considerevoli contatti reciproci” Di conseguenza, ogni gruppo dispone di una quantità enorme di informazioni, non solo su sé stesso ma anche sull’altro, e un’informazione considerevole dovrebbe favorire l’accuratezza”. (Eagly e Dielman, 1997, p. 14). L’origine di questi stereotipi sarebbe da ritrovare nelle molteplici interazioni di genere che si svolgono nel quadro delle pratiche concrete, e i tratti associati al genere sarebbero derivati dai vissuti di genere, in particolare quelli nei luoghi di lavoro domestico e pubblico. Questi tratti di genere possono dunque essere compresi come tratti soggettivi dovuti ai vincoli situazionali delle attività di genere. “Dunque, secondo questa prospettiva, il ‘fondo di verità’ degli stereotipi di genere riguarda i comportamenti di ruolo delle donne e degli uomini” (Eagly e Dielman 1997 p. 17). Passando in rassegna diversi studi meta-analitici, gli autori concludono:

“Gli elementi empirici messi a disposizione da tutti questi metodi suggeriscono che gli stereotipi che riguardano gli uomini e le donne in quanto gruppi sociali hanno un’accuratezza considerevole, per quanto diversi metodi suggeriscano che esistano diversi pregiudizi sistematici. In particolare, gli stereotipi di genere tendono a essere più estremi delle stime stesse delle donne e degli uomini riguardo ai loro comportamenti, mentre sono meno estremi delle differenze di sesso stabilite nei dati di inchiesta e numerose analisi meta-analitiche della ricerca” (Eagly e Dielman 1997 p.23).

Rispetto a queste osservazioni, gli autori mettono in guardia su una eventuale negazione o rifiuto politico della realtà di questi stereotipi – riflettendo una certa immobilità dei rapporti di genere: “Di fatto, l’ideologia del femminismo con la sua promessa di uguaglianza di sesso può permettere che un certo numero di militanti percepiscano le donne e gli uomini come se l’era dell’uguaglianza fosse già arrivata” (Eagly e Dielman 1997 p. 26).

Anche se non intendo riprendere qui l’idea secondo la quale gli stereotipi sarebbero in effetti abbastanza accurati – dibattito la cui complessità va oltre il mio intento – questo articolo mi permette però di interrogare la funzione pratico-politica degli stereotipi, cioè il modo in cui spiegano il rapporto tra gli agenti e il loro contesto di genere. Questi stereotipi possono dunque dare conto della competenza politica elaborata dai dominanti. L’approccio interazionista e pragmatico potrebbe così consentire di capire fino a che punto l’eventuale accuratezza di certi stereotipi sarebbe legata alla loro funzione concreta nelle interazioni di genere: ogni “informazione” è di fatto inserita in rapporti o interazioni che hanno una funzione nel vissuto tra i soggetti”. Come notano Ridgeway e Corell, “Rifiutiamo spesso le credenze culturali in quanto stereotipi. Sebbene lo siano, sono allo stesso tempo schemi o istruzioni culturali che servono a mettere in atto la struttura sociale della differenza e dell’ineguaglianza di genere che definiscono” (Ridgeway e Corell 2000 p. 112).

2 – Struttura della competenza

Questa competenza maschilista può essere meglio descritta a partire da alcuni enunciati femministi materialisti, che invitano a distinguere due livelli di analisi: il primo permette di comprendere l’organizzazione interna di questa competenza, in interazione dialettica con i contenuti adottati, e riguarda la strutturazione della soggettività maschile; il secondo permette di comprendere i contenuti adottati da questi agenti, contenuti che sono propri del vissuto maschile della configurazione materiale-soggettiva di genere. Infine, alcuni permettono anche di qualificare questa competenza nel senso in cui può essere pensata come carica di affezione: un attaccamento intimo alla dominazione.

Ciò che segue può essere forse considerato come un tentativo di rendere operativa la riflessione speculativa portata in questa seconda parte. I due registri principali (struttura e contenuto) e i loro rispettivi sotto-registri (ideale e trasgressivo; epistemico ed epistemico-politico), insieme all’idea di un attaccamento alla dominazione, potranno funzionare alla fine come punti di comparazione della conclusione di questo cammino euristico speculativo e deduttivo con quello empirico induttivo, a partire dai dati derivati dalle interviste con uomini riguardo alla coscienza di dominazione (vedi terza parte).

2-1 Soggettività ideale

La socializzazione specifica dei dominanti produce un rapporto specifico tra la soggettività maschile, in particolare la sua dimensione cosciente, e la pratica maschile. L’articolazione tra soggettività e pratica dal lato dominante è descritta in questo modo:

“‘Pensieri diventati gesti, azioni, idee diventate riflessi del corpo’…

Questo processo, secondo me, si applica solo al dominante. È senza dubbio vero del vissuto maggioritario, ossessionato dalla sua legittimità” (Mathieu 1991, p.211).

“C’è un campo di coscienza strutturata e data per i dominanti, e comunque coerente di fronte alla minima minaccia contro il loro potere” (Mathieu 1991, p. 140-141).

“La violenza ideale, quella delle idee che legittimano la dominazione, non è presente in permanenza nella coscienza delle donne (ma nello spirito del dominante sì)” (Mathieu 1991 p. 209).

“Ci basta ricordare che ‘l’ego assoluto’, ‘l’ego puro’, o ancora il soggetto fenomenologico, è radicalmente distaccato dalla relazione empirica ordinaria. Il mondo non è esteriore in senso stretto, la questione della coesistenza di altri soggetti non si pone. Perché il mondo è un fenomeno dell’ego, e la distinzione ‘io/tu’ si costituisce nell’ego assoluto…

L’idea sartriana del ‘soggetto’ viene dall’idea che non ci sia un ‘io’ e un mondo: il mondo è ancora posto dall’‘io’, da cui il fatto che ‘sono io che scelgo lo stesso coefficiente di avversità delle cose’. Al contrario, nelle parole di Simone De Beauvoir le distinzioni ‘io/tu’ e ‘esterno/interno’, lungi da costituirsi nell’ego, costituiscono la modalità particolare di tale o tale tipo di ‘soggetto'” (Le Dœuff 1989 p. 116).

La socializzazione dei dominanti, contrariamente a quella delle dominate, qui appare prima di tutto come un apprendistato di idee e di valori. Nella sua rilettura di Freud, Mosconi nota in modo simile:

“Così, dove il ragazzo rifiuta la realtà e produce una ‘teoria’, la ragazza, invece, accetta la realtà e produce un’affezione. Di fronte alla realtà che gli si impone, il ragazzo non si sottomette, sviluppa un’attività intellettuale per cercare di modificare, se non la realtà, almeno il suo senso, e ricreare con la ‘teoria’ una realtà più conforme ai suoi desideri. La ragazza, invece, ‘non rifiuta’ la realtà, si inchina davanti ad essa” (1994 p. 271).

Per quanto siano possibili diverse interpretazioni – come quella di Mosconi per cui le ragazze accedono più presto al senso della realtà mentre i ragazzi producono semmai fantasie e non teorie (1994, p. 272) – e per quanto sia importante evitare qualunque senso essenzializzante, la constatazione è molto simile: l’investimento prioritario dell’ideale (e non dell’intellettuale) fa parte della costruzione di una soggettività propria a una posizione vissuta di dominazione secondo l’asse di genere. È ben evidente che una tale priorità data all’ideale nella soggettività maschile è essa stessa il frutto di pratiche materiali, di rapporti reali. È il fatto stesso di diventare uomo, di crescere dal lato dei dominanti in una società di genere che produce una tale soggettività. Ma al pari della maschilità che si rende invisibile a sé stessa, la soggettività ideale è frutto di un processo che rende invisibile ciò che l’ha reso possibile.

È importante dunque notare che, all’interno stesso di questa soggettività, viene appreso un certo rapporto tra l’ideale e la pratica. Se le dominate sono educate prima di tutto con l’imposizione di un rapporto concreto alle pratiche di servaggio, i dominanti non solo sono esenti da questo rapporto a queste pratiche, ma possono soprattutto sviluppare un rapporto con la realtà dove l’ideale guida la pratica. Sono dunque idee (di dominazione) che guideranno pratiche (di dominazione). L’assenza di vincoli specifici ha dunque alcune implicazioni: il fatto di non dovere svolgere compiti materiali importanti (domestici, educativi, psicologici) nello spazio domestico, e di beneficiare dei servizi forniti dalle dominate, produce un rapporto con il mondo prioritariamente ideale, mentale.

Il fatto di non dover gestire vincoli di ordine autoritario (ordini, minacce, violenze) produce un rapporto attivo (e non reattivo) con il mondo, un rapporto di agentività. I dominanti possono viversi come agenti prima di tutto a partire da sé sessi, delle loro voglie e delle loro idee. In questo modo, liberandosi dai vincoli materiali e autoritari, i dominanti si assicurano uno spazio/modo di vita dove l’ideale può prendere un posto importante – non disturbato da fatica, sensazioni, emozioni prodotti dalle pratiche di servaggio – che guida le loro azioni sul mondo. Questa priorità dell’ideale sulla pratica ci permette di interrogare alcuni elementi del contesto di produzione che favoriscono l’idealismo intellettuale, le etiche rule based, la valorizzazione dei registri mentali/ intellettuali a dispetto degli altri registri del vissuto così come la preoccupazione per la legittimità.

Se i dominanti si costruiscono soggettivamente intorno e attraverso uno spazio mentale, è logico che ciò che ha portato alla (s)valorizzazione di questo spazio (giustizia, coerenza, rigore, razionalità) prenda un posto importante nel loro rapporto con gli altri. E così come questo spazio mentale prioritario sarà comune agli umani che occupano posizioni oppressive di genere, sarà probabilmente anche una fonte di attaccamento e identificazione specificamente maschile. Il sé maschile appare così come una costruzione centrata sul mantenimento dell’immagine e della percezione positive di sé (da cui forse anche la centralità – acritica – della questione dell’onore in certi studi maschili sulla maschilità4 [Bourdieu 1998]). A questo punto, se la soggettività ideale adottata dai dominanti non viene interpretata come parte integrante di una soggettività di dominazione, e non viene quindi interrogata politicamente, è molto difficile che delle azioni (teoriche, psicologiche, pratiche) di trasformazione dei rapporti di genere possano raggiungere le radici soggettive della configurazione materiale-soggettiva oppressiva. Per poter agire a quel livello, bisogna dunque prendere in considerazione questo aspetto strutturante della soggettività, principalmente attraverso un ricentraggio sulle condizioni di emergenza e di riconduzione di questa soggettività (la violenza e lo sfruttamento di genere come fonti di privilegi materiali dunque soggettivi) e l’apprendimento di un rapporto con la realtà non strutturato da questa priorità dell’ideale. Questo implica l’apprendimento di un rapporto al reale dove il registro materiale non possa più essere filtrato, respinto, diluito o negato allo stesso modo tramite il registro ideale.

Ma anche un rapporto in cui l’ideale maschile è invalidato come fonte legittima di ciò che crea il senso (cioè ciò che sembra importante, pertinente, giusto) in questo rapporto con il reale. A questo scopo, mettere gli uomini in situazioni di non-dominazione – in particolare con un lavoro sulla militanza mista in modo che non sia più inegualitaria, con la messa a lavoro degli uomini, la loro messa in minoranza numerica, e il controllo non-maschile delle decisioni – può essere una pista concreta di destrutturazione politica della soggettività maschile, guidata dall’ideale.

Oltre a questa presa in considerazione della strutturazione specifica della soggettività maschile, sembra ugualmente necessario integrare l’idea di una coscienza di dominazione propria degli uomini: se il vissuto maschile si smarca di fatto dal vissuto femminile per la presenza di uno spazio ideale prioritario, questo sarà probabilmente a maggior ragione investito, elaborato e organizzato coscientemente intorno all’oppressione delle donne (vedi: Contenuti della competenza).

2.2 – Soggettività trasgressiva/strumentale

I dominanti sono incoraggiati a costruirsi a partire dai loro propri desideri, cioè a scoprire la loro propria vita soggettiva, a conferirle un posto significativo nel rapporto con l’altro, ad agire secondo ciò che la loro vita soggettiva gli indica e a dover gestire pochi rifiuti e resistenze… Questo dice già tanto sulla costruzione – in corso d’opera – della soggettività maschile. Quale impatto può avere questo tipo di socializzazione sulla coscienza di sé e dell’altro? Come articolare questo modo di apprendimento con gli enunciati che riguardano la coscienza della dominazione? Gli enunciati che seguono ci invitano a considerare un altro aspetto della strutturazione specifica della soggettività propria della posizione vissuta dominante secondo l’asse di genere: oltre l’elaborazione di una soggettività ideale resa possibile dal trattamento privilegiato, i bambini in via di maschilizzazione elaborano una soggettività autocentrata, pure trasgressiva/strumentale ma vissuta come indipendente.

“Storicamente il soggetto minoritario non è auto-centrato come lo è il soggetto logocentrico” (Wittig 2001 p. 113).

Se i ragazzi sono incoraggiati a imparare, ciò significa che possono costruirsi più facilmente e liberamente una propria percezione/rappresentazione della realtà. Se in più li si incoraggia a esplorare questa realtà, hanno la possibilità di correggere, migliorare, arricchire questa percezione/rappresentazione. Integrano così il diritto all’apprendimento, all’esplorazione e alla verifica, il diritto all’azione sull’esterno a partire da sé (da cui la presa di parola) e dunque l’assenza di divieti e imposizioni come parte strutturale della loro posizione vissuta maschile – che va precisamente a costituire la natura trasgressiva della loro soggettività. La possibilità e la legittimità di “essere soggetto” appaiono dunque come un elemento cruciale della socializzazione maschile. Lo testimonia, ad esempio, il fatto che la socializzazione maschile – familiare come sociale – implica, tra le altre cose, un trattamento preferenziale individualizzato. L’assenza di divieti specifici, come quelli che sono imposti alle ragazze, specie in materia sessuale, “crea l’indipendenza rispetto all’autorità genitoriale” (Mosconi 1994, p. 282). In seguito, in campo scolastico, possiamo ugualmente notare che “l’insegnante conosce più velocemente i nomi e cognomi dei ragazzi di quelli delle ragazze e conosce meglio i primi come individui” (Mosconi 1994 p. 246). Questo trattamento non può che stimolare una percezione singolarizzata di sé, e nutrire la nascita di un sé percepito come indipendente rispetto alle autorità e al centro della propria soggettività. Mantenere un simile sé al centro della propria soggettività è allo stesso modo reso più facile dal fatto che questi bambini non devono percepirsi e valutarsi principalmente5 in funzione degli sguardi (immaginari o reali) degli altri. Ad esempio, l’esigenza di pulizia e di cura nel quadro delle produzioni scolastiche non pesa su di loro allo stesso modo, cosa che possono interpretare come un significante specifico del fatto che il contenuto (il sé) predomina sulla forma (il rapporto con gli altri) (Mosconi 1994, p.250). Questo modo di essere soggetto si rivela simultaneamente maschile: nella misura in cui i ragazzi non incontrano limiti specifici imposti dall’esterno – come testimonia il fatto che gli e le insegnanti tollerano un loro minore rispetto delle regole sociali a scuola (Mosconi 1994 p. 247) e stimolano dunque il loro intervento sul non-sé (altri uomini, donne, ambiente sociale e “naturale”) a partire dalle loro proprie voglie – i ragazzi sviluppano una soggettività insieme trasgressiva e strumentale: una soggettività “che costituisce l’altro come inessenziale e oggetto” (Le Dœuff 1989 p. 117). Il soggetto maschile, a causa del suo modo di socializzazione, sviluppa quindi un rapporto strumentale a ciò che non è sé stesso.

La natura trasgressiva e strumentale della soggettività sviluppata dai ragazzi produce un rapporto con i non-pari di genere tale che essi saranno prima di tutto percepiti e trattati dai ragazzi come fonti di arricchimento personale – o più crudamente, come dice Guillaumin, come oggetti, delle sedie, delle vacche – che si devono utilizzare in funzione di ciò che il sé indica6. Come dice Goffman: “La formazione della relazione [eterosessuale] è vista come il risultato di un ingresso in modo aggressivo da parte degli uomini, una trasgressione delle frontiere e delle barriere, una caccia, una pressione in favore della propria causa” (Goffman 2002, p. 91 – corsivo mio). Sembra ragionevole supporre che ciò si applichi a qualunque dominio: professionale, affettivo, corporale, conversazionale… Stoltenberg, nello specifico a proposito dello stupro, ma in un modo che si può estendere per descrivere il nodo soggettivo e identitario del rapporto di genere, scrive: “La disintegrazione del senso di sé della vittima è, si può dire, un prerequisito all’integrazione del senso di sé dello stupratore – una dinamica che viene ripetuta ogni volta che qualcuno agisce secondo la struttura etica dell’identità sessuale maschile. Come disse un uomo, ricordando il dilemma maschile vecchio e moderno: ‘Un uomo deve avere una donna, se no non sa di essere uomo’” (1990, p. 21-22). Questa dinamica trasgressiva e strumentale implica che il soggetto maschile si costruisce e si nutre dei non-pari: oltre i benefici materiali e simbolici diretti così ottenuti, è probabile che la relazione trasgressiva e strumentale divenga essa stessa una fonte di piacere narcisistico e identitario. Questo tipo di soggetti sentirà di “esistere” nella misura in cui possono trasgredire e strumentalizzare gli altri; si sentiranno tanto più maschili quanto più possono trasgredire le norme etiche e strumentalizzare dei non-pari di genere. In altre parole, la strutturazione trasgressiva e strumentale della soggettività maschile si accompagna alla scoperta e all’investimento di una forma di piacere, di godimento, di soddisfazione specifica.

Secondo questa logica, il rapporto trasgressivo e strumentale applicato ai corpi dei non-pari produrrebbe così un piacere specificamente “sessuale”, mentre la trasgressione e la strumentalizzazione non corporali rispetto ai non-pari produrrebbero ugualmente dei piaceri, non identificati come “sessuali”, ma piuttosto come identitari dunque narcisistici (“Posso fargli fare questo, quindi sono un uomo, un vero uomo!”). Logicamente, l’uso della violenza e della forza verso i non-pari si inscrive, dal punto di vista maschile, in un continuum politico-relazionale. Più precisamente, i ragazzi percepiranno come una continuità ciò che dal punto di vista oscurato delle donne costituisce una discontinuità e riguarderà specificamente la trasgressione. Avendo come punto di riferimento principale etico ed esistenziale il sé, l’eventuale uso della costrizione, della violenza, della forza o della sorpresa nei rapporti corporali non è che uno dei mezzi per sessualizzare questi rapporti:

“Al contrario, è l’apparenza quotidiana e banale dello svolgimento ‘normale’ delle cose che può oscurare, per le vittime e gli autori dell’oppressione come per i loro ‘analisti’, i suoi meccanismi. Ma, direi io, ancora più per le vittime: sono meno le donne che vedono una continuità, un’omogeneità, in situazioni di dominazione degli uomini, tra le relazioni sessuali ‘normali’ e ‘lo stupro’. Meno donne rispetto agli uomini vedono […] senza dubbio negli spiriti maschili: il matrimonio è la sede del dominio dell’uomo sulla sposa […]” (Mathieu 1991 p. 152).

Gli uomini percepiranno dunque più spesso delle donne la continuità politica tra le relazioni sessuali “normali” e gli stupri, cioè, il fatto che le due pratiche riguardano la stessa dinamica di potere di appropriazione trasgressiva, fonte di piacere identitario, narcisistico e sessuale. Se gli uomini pensano e sentono le relazioni sessuali “normali” prima di tutto come prodotto della tensione – fonte di sessualizzazione – tra controllo decisionale maschile e resistenza/sottomissione femminile, lo stupro sarà ugualmente considerato, prima di tutto, come una forma particolare di sessualizzazione, di ricerca di piacere sessuale estremo. I due tipi di rapporto saranno dunque percepiti come un uso asimmetrico, strumentale e trasgressivo, fonte di soddisfazione sessuale propriamente maschile, e l’uso di violenza, forza, costrizione, sorpresa non sarà percepito se non come una delle modalità di sessualizzazione specifica di un’interazione corporea.

Avendo sviluppato una tale soggettività, gli uomini proveranno logicamente difficoltà – al di là del semplice rifiuto – a integrare nella loro etica la possibilità che il “sé” si fermi da qualche parte, che ci siano dei limiti da non trasgredire e interessi indipendenti ossia opposti ai loro, da riconoscere come legittimi; il che sarà vissuto come una privazione, una restrizione, una demascolinizzazione (“castrazione”), un guastafesta, una desessualizzazione dei rapporti di genere. Riconoscere che il “sé” non può nutrirsi7 degli altri sé implica di fatto accettare di fare l’economia materiale e simbolica delle risorse rappresentate dai non-pari (dunque di impoverirsi molto concretamente) ma anche di rinunciare, di dire addio a un tipo di piacere, di godimento identitario, narcisistico e corporeo legato all’azione trasgressiva e strumentale rispetto ai non-pari.

È attraverso questa questione che la dimensione della coscienza maschile di dominare riemerge: la coscienza propriamente maschile dei rapporti di genere implica anche la coscienza del beneficio dato dalla possibilità di viversi così e di avere questo accesso privilegiato a sé stessi, ad altri e al contesto… E questo vale anche se questa coscienza può prima di tutto essere “implicita”, cioè frutto di una comparazione pragmatica, concreta tra “la sfruttabilità” delle donne e la “resistenza” degli altri uomini nella ricerca della soddisfazione dei propri interessi, così come del piacere correlato a questo rapporto trasgressivo e strumentale. È probabile che i ragazzi prendano coscienza durante la loro socializzazione familiare e scolastica del fatto che queste pratiche e attitudini trasgressive siano legate alla loro “mascolinità in costruzione” e che questa sia sinonimo di diritto sui non-pari.

Per concludere, Stoltenberg descrive così questo aspetto trasgressivo e strumentale della soggettività maschile, puntando tanto verso la dinamica materiale di arricchimento che la dinamica identitaria e narcisistica correlata: “Coloro che si sforzano di adottare l’identità sessuale maschile [apprendono] a gestire la loro vita in modo tale da avere sempre a disposizione una riserva di sussistenza sotto la forma di deferenza e sottomissione femminili – qualcuno di femminile al quale fanno le cose che realizzano in modo adeguato la loro mascolinità. […] Senza questa relazione, l’identità sessuale maschile deperisce” (Stoltenberg 1990 p. 23). In termini di competenza, l’elaborazione di questa soggettività trasgressiva implicherà l’apprendimento di tutto un registro di attitudini cognitive e pratiche di uso strumentale dei non-pari, in modo che questo uso non si concluda con la perdita definitiva dell’oggetto.

3. Contenuti della competenza

Al di là delle implicazioni di questi modi di apprendimento nello strutturare la costruzione della soggettività maschile, mi interessa qui comprendere i contenuti appresi attraverso la socializzazione maschile. Nella misura in cui è proprio l’organizzazione sociopolitica che produce l’infanzia, le ragazze e i ragazzi hanno senz’altro, in quanto bambini, da gestire limiti imposti dall’esterno.

3.1 Privilegio epistemico

Gli enunciati che seguono permettono, però, di comprendere che un sistema specifico di proibizione supplementare riguarda le ragazze e che questo è costitutivo della loro socializzazione. In materia di sessualità, ad esempio, un “secondo livello di divieto che riguarda la curiosità sessuale, quello che, nell’educazione, si rivolge specificamente alle ragazze, è diverso [perché è imposto a loro] in virtù di una qualità che in apparenza rinvia al loro sesso anatomico, permettendo di farla passare non più come provvisoria e legata alla loro età, ma definitiva” (Mosconi 1994 p. 279-80). I ragazzi sviluppano dunque una soggettività ideale e trasgressiva alla quale si aggiungono contenuti propri dell’esercizio della maschilità. È allora necessario interrogare in modo tematico la socializzazione dei ragazzi, da cui deriva la coscienza specificamente maschile di dominazione.

“Il proibito più o meno rigoroso, imposto fin dalla prima infanzia, di conoscere e di esplorare il proprio corpo (se pensiamo a quanto, nella nostra cultura, tolleriamo il ragazzino che si tocca ma non la ragazzina che fa altrettanto) costituisce un elemento essenziale nel modellare la sessualità femminile, ed eccede di gran lunga la questione della verginità” (Tabet 1998, p. 146).

“Per le bambine, l’addestramento a servire gli altri è precoce e costante […] e si accompagna in molte società con la loro constatazione che ai ragazzi della loro età si richiede meno, e non lo stesso genere di cose” (Mathieu 1991 p. 210).

Questi stessi enunciati permettono di affrontare l’apprendimento di un primo tipo di contenuti: quelli, specifici o generici, che hanno una funzione politica indiretta. Alcuni contenuti diventano un mezzo di potere, a causa dell’asimmetria di genere nell’accesso a questi contenuti: “Gli uomini sono formati dall’infanzia a competenze che si praticano all’esterno, la meccanica, l’elettricità, l’automobile, e così via, così come alcuni elementi rudimentali di autodifesa. Affrontano quindi le situazioni sociali con questi vantaggi di cui, invece, le donne sono sprovviste” (Goffman 2002, p. 92). L’elaborazione, permessa ai ragazzi, di una propria percezione/rappresentazione della realtà implica l’accesso a un ventaglio molto ampio di contenuti. I ragazzi possono così costruirsi una rappresentazione globale e operativa della realtà, capire meglio come funziona per loro, e perciò prepararsi meglio a parteciparvi attivamente. Questo accesso privilegiato alla comprensione della realtà, al di là della questione del divieto di genere imposto alle ragazze, trova le sue radici anche nel rapporto con sé stessi dei ragazzini: il fatto che possano interpretare la possessione di un pene come la fonte legittima e riconosciuta di un senso di superiorità gli evita “di essere bloccati nell’affezione, nell’amarezza e nella voglia, [in modo che] lo psichismo del ragazzo può progredire” (Mosconi 1994, p.292). I ragazzi possono così investire meglio il dominio epistemico, perché – alimentati da un senso di superiorità – questo dominio diventa una fonte di soddisfazione sostitutiva di un “desiderio provvisoriamente insoddisfatto ma possibile (avere un pene grande come il padre)” (Mosconi 1994, p. 293), al contrario delle ragazze che non trovano appoggio – per il modo in cui il corpo femminile è percepito nella società maschilista – sulla percezione del loro corpo come fonte di stima di sé e sono dunque bloccate nel loro investimento sul dominio epistemico come fonte di soddisfazione sostitutiva. Questo accesso privilegiato alla comprensione della realtà è stato nel tempo istituzionalizzato attraverso il divieto per le ragazze di accedere all’istruzione formale e all’apprendimento di contenuti non “subordinati ad altri fini, la famiglia, gli uomini e i bambini” (Mosconi 1994, p. 76). Solo i ragazzi beneficiavano di un apprendimento libero (alfabetizzazione universitaria o formazione manuale), e solo i dominanti avevano il diritto di creare, trasmettere, selezionare e produrre nuovi saperi e nuovi usi dei saperi.

Se esiste un legame organico tra sapere, istruzione e liberazione delle donne, esiste ugualmente, dal lato dell’oppressore, tra sapere, istruzione e oppressione delle donne. Parafrasando Nicole Mosconi, potremmo allora affermare che il monopolio di istruzione e sapere è la condizione per bloccare la presa di coscienza di sé e dei rapporti di genere da parte delle donne, permettendo agli uomini di rendere impercettibile la possibilità di una trasformazione e impedire una lotta per ottenerla.

Oltre questo aspetto globale, i ragazzi hanno soprattutto accesso ai contenuti specifici menzionati nella citazione. Per esempio, conoscere il proprio corpo e il suo funzionamento, appropriarsene e percepirlo come proprio, saperlo utilizzare, costituiscono la tappa preliminare indispensabile allo sviluppo dell’eterosessualità caratterizzato da privilegio e controllo – nella misura in cui queste stesse conoscenze sono proibite per le ragazze. La conoscenza del corpo in funzione delle proprie voglie rappresenta una forma di strumento che prepara all’asimmetria etero-relazionale: si incontreranno due umani con informazioni ineguali. Se rapportiamo questo alla soggettività prodotta dall’apprendimento maschile, troveremo dunque, nel campo della sessualità, umani che hanno appreso a conoscersi e valorizzarsi, ad agire sulla realtà in funzione delle proprie voglie, a considerare di avere il diritto di agire sull’esterno, a non conoscere proibizione, e che in più dispongono di competenze corporali-sessuali8 importanti…

Ma l’accesso privilegiato a certi contenuti è allo stesso modo e sempre reso possibile con la scolarizzazione di genere. I ragazzi hanno (avuto) accesso prioritario o esclusivo a certe (sotto)filiere di apprendimento, la cui padronanza contribuisce a poter occupare la sfera pubblica (costitutiva della maschilità): la sociologia, la storia, la fisica, la matematica… ma anche la formazione tecnologica industriale, tecnica e professionale (Mosconi 1994). Queste filiere monopolizzate variano storicamente e socialmente, così come i modi di selezione (ufficiali o meno) utilizzati: i dominanti cercheranno di monopolizzare tutto ciò che può avere una funzione politica ed economica nel contesto sociale dell’epoca. In altre parole, uno degli elementi necessari all’esercizio dell’oppressione di genere è il fatto di monopolizzare un tipo di sapere9 – la cui utilità può non essere direttamente sociale e materiale – perché questa costruzione di un privilegio epistemico nutre un sentimento di sé maschile e permette la costruzione di un “noi” specifico che esclude i non-pari.

La coscienza del dominare, nominata dalle femministe materialiste radicali, prenderebbe qui la forma di una coscienza dell’asimmetria di genere nell’accesso ai saperi generici e specifici; i ragazzi sarebbero consapevoli di beneficiare di un trattamento di favore da parte degli adulti, e del fatto che questo permette loro di posizionarsi meglio nella realtà rispetto alle ragazze. In generale, questa coscienza riguarderebbe anche la necessità politica di escludere i non-pari da alcuni saperi, perché il dominio del sapere possa restare in un modo o nell’altro risorsa della maschilità, quale che sia questo tipo di sapere (sessualità, matematica, competenze tecnologiche, sport, politica…). Questo tipo di coscienza può essere qualificata come privilegio epistemico; i dominanti sarebbero coscienti del fatto che è importante costituire il dominio del sapere in un modo che permetta loro la costruzione e il mantenimento di un rapporto con sé stessi e con gli altri specificamente maschile, dunque gerarchico nei confronti dei non-pari.

3.2 Apprendimento epistemico-politico

È importante allora aggiungere a questo primo tipo di contenuti quelli che hanno una funzione politica diretta nell’apprendimento della dominazione: alcuni contenuti sono infatti un mezzo di potere, nella misura in cui implicano l’apprendimento di valori, pratiche, pensieri di dominazione. Oltre quello monopolizzato da alcuni saperi generici e specifici, i ragazzi sviluppano un modus vivendi, imparando ciò che si fa, da uomini, nei confronti delle donne. Osservano, testano e integrano ciò che possono fare concretamente, il modo in cui possono ottenere benefici e soprattutto il fatto di appartenere realmente a un gruppo sociale specifico con dei diritti su un altro gruppo sociale. Dall’autorizzazione a scoprire il proprio corpo e il proprio sesso… all’investimento dell’appropriazione del corpo e del sesso delle donne, c’è un passo: l’apprendimento di un’etica e pratica della dominazione maschile, “di idee che legittimano la dominazione (la violenza ideale)” (Mathieu). Questo apprendimento non è necessariamente monopolizzato, nel senso che solo i ragazzi lo riceverebbero, come accade invece con l’apprendimento epistemico privilegiato. Se le ragazze ricevono ugualmente questi contenuti, non possono però fare lo stesso a causa delle loro posizione vissuta, perché questi contenuti saranno, per loro, prima di tutto violenze simboliche e psicologiche.

I ragazzi imparano, ad esempio, in situazioni miste asimmetriche, per il semplice fatto di viverci e dunque di osservare (e trarre benefici da) la dominazione in corso esercitata dagli uomini sulle donne. Vedono i loro padri, fratelli, zii, nonni mettere in atto la dominazione; sentono i loro discorsi di legittimazione sulla “divisione sessuata del lavoro” o la reificazione sessuale; vedono i calendari pornografici appesi; vedono la violenza contro le loro madri, sorelle, zie, nonne; vedono ciò che gli uomini non fanno e che le donne fanno; vedono gli uomini della famiglia parlare e decidere e le donne ascoltare ed eseguire; ridono delle battute sessiste; percepiscono la permissività di genere nei loro confronti… Lasciando la sfera domestica, continuano a percepire i rapporti di genere: vedono la sessualizzazione che oggettifica le donne; vedono che sono gli uomini a monopolizzare lo spazio professionale e politico pubblico, in posizioni dominanti; sentono i discorsi che promuovono la maschilità e la femminilità… Al di là di questo apprendimento informale, è tutto il sistema educativo che partecipa all’insegnamento della dominazione, trasmettendo un sapere politicizzato: androcentrismo nella rappresentazione selettiva della realtà, promozione e valorizzazione della maschilità e femminilità, orientamento verso la sfera pubblica e professionale… In breve, la socializzazione mista fa capire loro ciò che la posizione vissuta maschile è e non è, ciò che porta e ciò che permette di risparmiare. Inoltre, integrano e riprendono questi valori e idee consapevoli che in questa società è meglio essere maschio che femmina. Se questa trasmissione di contenuti epistemici-politici è ricevuta sia dalle ragazze che dai ragazzi, non può quindi che essere vissuta come apprendimento per i ragazzi, a causa della natura stessa dei contenuti trasmessi e la loro posizione vissuta, mentre le ragazze non possono che “riceverli” come violenze di addestramento.

Ma alcuni contenuti politici sono anche trasmessi in un contesto non-misto, tra ragazzi e tra ragazzi e uomini, cioè escludendo consapevolmente le ragazze e le donne:

“Era, come tutte, non liberata nel senso di non avere sicuramente la conoscenza della realtà quotidiana dello stupro in molte società, compresa la propria – conoscenza che è posseduta e trasmessa in realtà… dai male groups” (Mathieu 1991, p. 146-47).

Esistono dunque “spazi” di apprendimento non misti riservati agli uomini, come i corsi scolastici, le associazioni sportive, sindacali, legami fraterni o filiali, amicizie maschili, bar, l’istruzione, l’esercito, il lavoro, la militanza… Questi sono prima di tutto spazi svuotati dall’interferenza costituita dalla presenza femminile: interferenza in termini di mantenere la propria immagine di sé, gestire il rapporto con l’altro, anticipare le sue (re)azioni, gestire i propri desideri. L’assenza di questo “altro” permette di viversi come pari tra pari, vivere una omo-socialità specifica dei dominanti: i codici, le parole, i gesti, le soggettività, le modalità relazionali, i punti di interesse sono (in teoria) comuni e formano un contesto che è a priori “rassicurante” e “riposante”. Questa comunità d’appartenenza interviene nell’apprendimento di contenuti direttamente politici, perché gli uomini di diverse età possono esprimervi e capire ciò che costituisce la loro maschilità comune: le modalità d’uso delle donne. I ragazzi vi imparano a consolidare la loro identificazione con la maschilità, la loro identità maschile condividendo idee, valori, attitudini e atti (supposti reali) verso le donne (eterosessualità, indifferenza, disumanizzazione e disprezzo, assenza d’empatia, violenze, sfruttamento…). Non solo imparano a posizionarsi politicamente nel gruppo dominante attraverso i rapporti stabiliti con altri ragazzi e uomini (capacità di gestire rapporti di forza, mantenimento della solidarietà maschile, rifiuto della “sottomissione” sessuale, valorizzazione del proprio sesso…) – funzione di un surplus di riconoscenza e dunque di accesso supplementare ai privilegi maschili – ma imparano anche che potranno godere del sostegno e della solidarietà dei loro pari nell’esercizio della dominazione. Questi spazi maschili separati sono in realtà il luogo in cui si imparano le condizioni di solidarietà tra uomini, specie quella condizione che esige che tutti partecipino alla sessualizzazione delle donne:

“Gli uomini normalmente acculturati presumono – a ragione – che lo stesso impulso alla violenza sessuale esista in altri uomini. Cercano quindi di stabilire delle tregue omo-erotiche – dei patti di non-aggressione tra uomini che si accordano tacitamente per aggredire le ‘altre’ (le donne, e a volte uomini più deboli, o di altre razze) invece di aggredirsi tra loro. Una volta che un gruppo di uomini condivide il proprio potere sul ‘proprio’ cerchio di donne, questa condivisione calma la loro paura del potenziale reciproco di aggressione” (Stoltenberg 1990 p. 86).

È sempre in questo quadro che i dominanti in costruzione scoprono e imparano l’uso di una violenza operativa: la padronanza di una violenza verbale, psicologica e fisica messa in atto in funzione dei propri interessi.

L’apprendimento di questo tipo di violenza (come la sessualizzazione oggettificante) è monopolizzato dagli uomini e diventa così uno strumento epistemico-politico centrale nei rapporti di genere.

La conoscenza trasmessa tra “male groups” alla quale fa riferimento l’enunciato riguarda dunque questa prima parte: come ti puoi comportare in quanto uomo nei confronti delle donne? Come puoi considerare le donne in quanto uomo? Come puoi fare, da uomo, per arrivare ai tuoi fini? Come puoi, da uomo, opprimere le donne senza temere una repressione? Nella società menzionata da Mathieu, nell’articolo da cui è tratta la frase sopra, uno degli elementi chiave imparati e trasmessi ai ragazzi è l’aspetto primordiale dello stupro per affermare la propria maschilità. Sulla stessa linea, i ragazzi occidentali saranno fondamentalmente preoccupati dal possibile uso sessuale delle donne: “Lo hai già fatto? Quante volte? Come? Con quante? Cosa gli hai fatto? Ha resistito o è una che si scopa tutti?” Quindi è logico che uno dei contenuti principali a essere veicolato in questi spazi riguardi l’eterosessualizzazione, il cui modo di impiego e manuale di apprendimento è la pornografia. La scoperta della pornografia funziona per i ragazzi come un vantaggio libidinale, perché, con il suo uso, creano e investono alcuni collegamenti etici, mentali, affettivi e fisici. Questi riguardano il rapporto con il proprio corpo (feticizzazione e uso sessuale del pene); il rapporto agli altri corpi (selezione di un tipo di corpo – femminile, normato esteticamente – da sessualizzare e un altro – maschile – da non sessualizzare; riduzione del corpo femminile a parti sessualizzate); il rapporto con la dimensione corporale (sessualizzazione e rottura empatica; erotizzazione della rivalità e del conflitto); la sessualizzazione dei rapporti corporali (controllo dell’iniziativa, dello scenario e della fine; uso delle pressioni e dei vincoli affettivi e fisici in vista di una sessualizzazione)… Al di là di una partecipazione e di un sostegno alle pratiche di appropriazione sessuale messe in atto in questi materiali, il fatto di utilizzare, come ragazzo insieme ad altri ragazzi, del materiale pornografico si rivela così un modo di risparmiare energia personale (non c’è più il lavoro di incontro e di adattamento reale), continuazione, consolidazione e allargamento della soggettività trasgressiva e ideale, iscrizione personale in un “noi” maschile e carica libidinale forte (erotizzazione) di un rapporto di dominazione.

L’esempio della condivisione con altri maschi della pornografia, i cui contenuti sono esplicitamente sessisti, permette di illustrare la nozione di apprendimento epistemico-politico: gli uomini sono coscienti della dominazione, come sostiene il femminismo materialista, perché l’hanno concretamente imparata e rodata. Per dirla in altro modo, non si nasce dominanti, lo si impara e lo si mostra: lo attesta, ad esempio, il modo in cui Goffman descrive – per illustrare la simultaneità delle identità – ciò che ritiene essere una cosa specifica dell’identità maschile: “un chirurgo può allo stesso modo dimostrare di essere […] un uomo, facendo allusioni sessuali a un’infermiera” (Owen, 2005, p. 5, corsivo mio). E se gli uomini si instruiscono spesso tra di loro per conservare un monopolio politico su questi saperi (rinforzando ancora una volta l’idea di una coscienza specifica del dominante sulla dominazione), imparano anche in ambiente misto, coscienti che questi contenuti non si rivolgono, in termini di apprendimento, che agli uomini.

4.- Qualità della competenza: un attaccamento cosciente alla dominazione

Gli enunciati precedenti hanno permesso di delineare brevemente il modo in cui la soggettività maschile viene costruita e di identificarne alcuni elementi chiave: una soggettività ideale e trasgressiva nutrita di privilegio epistemico e di apprendimento epistemico-politico. Diventa così possibile affrontare un altro aspetto di questa coscienza maschile: l’attaccamento cosciente degli uomini all’oppressione delle donne, e l’intenzionalità dei loro atti oppressivi.

“C’è un campo di coscienza strutturata e data per i dominanti, del tutto coerente di fronte alla minima minaccia contro il loro potere; e diverse modalità di frammentazione, di contraddizione, di adattamento o di rifiuto… più o meno (de)strutturate dalla parte delle dominate, modalità la cui comprensione sembra particolarmente disagevole per un dominante” (Mathieu 1991 p. 140-141).

Questo enunciato afferma questo: che ciò che è proprio del maschile, al livello del campo di coscienza, è il fatto che sia strutturato, dato e coerente. Ciò che gli conferisce queste caratteristiche potrebbe essere spiegato così: nasce da un processo di apprendimento dentro una struttura esistente (data), costituito sulla priorità dell’ideale sulla pratica, dove questo ideale è fatto di privilegio epistemico e di apprendimento epistemico-politico (strutturato) e che ha per obiettivo la padronanza d un rapporto di forza asimmetrico (coerente). Il principio organizzatore del campo di coscienza maschile, dunque della soggettività e della pratica maschile, sarebbe allora la competenza politica maschilista: ciò che definirebbe un uomo sarebbe l’essersi costruito in modo da poter occupare una posizione concreta di dominazione sulle donne, una posizione di pari tra gli uomini e il poter vivere e agire in modo da mantenere o migliorare questa posizione.

Che si tratti del modo di portare o vestire il proprio corpo, di esprimersi (non) verbalmente, di occupare lo spazio privato e pubblico, di gestire affetti e sensazioni, di iniziare e gestire relazioni sociali, di percepire ed interagire con l’ambiente (non) umano… il fatto di volere occupare una posizione vissuta maschile implica una modellizzazione politica permanente. Questa modellizzazione politica delle pratiche si impara fin dall’infanzia: alcune saranno percepite come inappropriate e rifiutate perché non permettono il consolidamento (diretto o indiretto, ad esempio, consolidando l’identificazione con la maschilità) di un rapporto di potere verso le donne (che queste siano presenti fisicamente o meno), mentre altre saranno percepite come appropriate, e adottate, se permetteranno il consolidamento di questo rapporto di potere10. Ciò che costituisce questo rapporto di potere riguarda, tra gli altri, l’economia politica degli sforzi necessari a soddisfare bisogni e desideri. La struttura sociale maschilista nella quale i ragazzini si inscrivono organizza questa economia in modo che alcuni umani siano costruiti, percepiti e trattati come donne, dunque costrette a produrre una quantità maggiore di sforzi per un minimo di contropartite. I ragazzini imparano a non fare questi sforzi e a considerare giusto il beneficiare di quelli fatti dalle dominate; a ottenere, attraverso diversi mezzi, che siano loro a continuare a fare questi sforzi senza una controparte equa; a percepire e padroneggiare ciò che li aiuta a mantenere un tale rapporto di forza (il monopolio sulle risorse materiali e politiche, dunque il mantenimento della solidarietà maschile); a investire queste pratiche che permettono di soddisfare con il minimo costo i bisogni e i desideri e di consolidare il loro statuto sociopolitico nel loro contesto concreto.

Ma oltre a questa economia politica generale, ugualmente alla base di altre forme di oppressione, la struttura sociale sessista contemporanea – in particolare tramite l’eterosessualizzazione – inscrive i rapporti di genere nell’intimità psichica, affettiva e corporale degli umani (come testimonia la psicanalisi). I rapporti di genere sono dunque per i dominanti un luogo di attaccamento intimo all’ineguaglianza. In altre parole, i rapporti di genere rappresentano una forma specifica d’oppressione nel senso che strutturano in maniera profonda l’intimità degli agenti sociali: i dispositivi messi progressivamente in piedi dai dominanti, e regolarmente adattati a nuovi contesti, regolano in particolare la vita intima delle dominate, soprattutto attraverso il dispositivo di domesticazione. Questa oppressione così intima produce soggetti la cui alienazione da sé può essere tale che “infine, c’è il soggetto perfettamente estenuato come tale, perso nella sottomissione ad altri e nel punto di vista altrui: le donne che, quando parlano delle donne, dicono “le donne” come gli uomini, e non “noi”; le donne che vivono disperse, e che nessuna solidarietà di interessi unisce” (Le Dœuff 1989, p. 117). Questa iscrizione intima dell’ineguaglianza quotidianamente ricreata si esprime anche nel forte ancoraggio identitario dei rapporti di genere. Non esiste praticamente nessun dominante per il quale la maschilità non sia fonte assoluta, totale e positiva di senso e di interpretazione della realtà e le modalità predominanti di rifiuto della maschilità sembrano consistere o nell’adottare un’altra identità di genere, quella femminile11, o transgender, intersessuale… oppure ricostruire un’altra maschilità, percepita come meno nociva per sé e per i non-pari.

Questa difficoltà, per gli stessi ricercatori critici della maschilità, a pensare strategicamente il non-genere, cioè come strategia politica e scientifica di trasformazione dei rapporti di genere verso la loro abilizione, testimonia a sua volta l’ancoraggio identitario quasi insormontabile prodotto dai rapporti di genere. Se “la centralità dell’identità […] dipende dalla chiarezza della coscienza di appartenenza di un membro, dal grado di sentimento positivo associato all’appartenenza e dal livello di investimento emozionale dell’essere membro” (Gurin e Markus 1989 p.155) allora l’ancoraggio identitario dei dominanti rischia di essere investito ancora più fortemente12 di quello delle dominate. Di fatto, se la tesi della coscienza maschile di dominazione – sviluppata per tutta questa parte – si dimostra valida, dovrebbe rafforzare l’idea di un attaccamento estremamente forte da parte dei dominati alla loro maschilità. Questo attaccamento è inoltre più percettibile se la configurazione materiale-soggettiva maschile viene rimessa in causa anche solo di poco.

Il registro dell’attaccamento cosciente alla dominazione, il fatto che questa costituisca qualcosa di desiderato e di desiderabile per i dominanti, perché essa rappresenta una sezione centrale del loro modo di essere al mondo, ci porta a tematizzare la volontà di dominazione, l’intenzionalità degli atti oppressivi, micro e macro-sociali, tesi questa ancora poco studiata (nota 58: Thérèse Plantiere rileva le seguenti constatazioni di Godelier: “‘La dominazione maschile mi è apparsa come prodotto di vincoli non intenzionali’ […]’Ci sono ragioni non intenzionali che spiegano per larga parte la dominazione degli uomini sulle donne nelle società primitive? ‘” poi commenta: “nella lingua Baruya, la selvaggina, una volta morta, diventa femminile. Questo sarebbe potuto essere un indizio, per qualcuno che non fosse Godelier, dell’intenzionalità della dominazione maschile tra i Baruya. Questi ultimi sono molto coscienti delle violenze quotidiane inflitte alle loro donne […] Sentono ormai per la donna l’odio che si destina all’animale da uccidere per nutrirsene. Hanno preso l’abitudine e il gusto di farla soffrire” (Plantier 1979 p. 302 310 313))ad oggi dai ricercatori maschi. Le frasi femministe materialiste qui sotto spingono in effetti a integrare questo aspetto a quelli già studiati:

“Sappiamo che non volete ‘salvare dei feti’ ma costringere centinaia di migliaia di donne a rischiare la loro vita, e farne morire qualche migliaio, per terrorizzare tutte le altre. Perché capiscano. In quale mondo vivono. Chi comanda. Quale è il loro posto. Sappiamo che volete farci tornare indietro su tutti i fronti, e prima di tutto mobilitare tutte le nostre energie sul fronte dell’aborto per impedirci di avanzare, per incatenarci. […] Sapete che abbiamo bisogno delle nostre energie per combattere la vostra malvagità generalizzata, ed è per monopolizzare queste energie che ci costringete a una lotta difensiva” (Delphy 1993 p.8).

“C’è qui una questione di deontologia professionale: l’etnologo tra i Rukuba ha dato a una sola parte della società, gli uomini, delle informazioni e le ha taciute alle donne che tuttavia ne avevano bisogno. Ha dunque preso una posizione molto precisa: per l’imposizione della riproduzione, per l’oppressione delle donne. Ma questa posizione non è la sola possibile né quella obbligatoria” (Tabet 1998 p.145).

“La violenza principale della dominazione consiste nel limitare le possibilità, il raggio di azione e di pensiero dell’oppresso/a: limitare la libertà del corpo, l’accesso ai mezzi autonomi e sofisticati di produzione e di difesa […], alle conoscenze, ai valori, alle rappresentazioni… comprese quelle della dominazione” (Mathieu 1991 p. 216).

“Un’alleanza degli uomini tra loro dispone di mezzi per organizzare questo assoggettamento inscrivendolo nelle istituzioni, nei rapporti politici, nelle pratiche sociali e nella produzione ideale. L’alleanza maschile può inoltre organizzare il conflitto delle donne tra loro” (Le Dœuff 1998 p. 302).

“I dominanti possiedono, oltre ai benefici concreti, e derivando direttamente da questi, il privilegio di forgiare l’immaginario del reale – dove si dispiega la legittimazione del loro potere” (Mathieu 1991, p. 216).

Il tipo di pratiche descritte qui sopra rivela che il sapere, la conoscenza, la rappresentazione, i valori e i sentimenti, la coscienza delle donne sono direttamente prese di mira dagli uomini, individualmente e collettivamente. Il fatto di elaborare delle pratiche strategiche microsociali (l’etnologo individuale) e macrosociali (le istituzioni, le leggi) con l’obiettivo di limitare l’accesso delle donne al sapere in generale e a certi saperi in particolare (la rappresentazione della dominazione, la riproduzione) conferma l’ipotesi della competenza politica maschilista usata in modo intenzionale dai dominanti per ricondurre i rapporti di genere. Non è possibile pensare ed elaborare tali pratiche senza disporre di una rappresentazione cosciente dei rapporti di genere, né desiderare coscientemente l’evoluzione precisa di questi rapporti a beneficio degli uomini. Inoltre, è necessario non solo mettere l’accento su questo aspetto del campo della coscienza maschile, ma anche sull’attaccamento etico, psicologico, identitario e affettivo degli uomini all’oppressione delle donne:

“Se bisogna parlare di consenso alla dominazione, è quello… dei dominanti” (Mathieu 1991, p. 216).

Contrariamente alle dominate, che non dispongono di un reale, autentico margine di manovra per aderire o rifiutare alcuni valori o idee, i dominanti lo hanno invece a disposizione: sfuggendo ai vincoli materiali e autoritari, dispongono di una soggettività piena, di una comprensione privilegiata della realtà, di una agentività reale per agire su di essa, mezzi sociali importanti a causa dell’esclusività maschile e di una competenza politica elaborata e trasmessa nella socializzazione maschile… Questo rende ancora più necessario tematizzare la loro piena e cosciente adesione etica, psicologica e affettiva all’oppressione delle donne, fonte principale del loro benessere nel mondo.

Nota concettuale: ceci n’est pas une pipe13

Il percorso speculativo intrapreso in questa seconda parte di questo lavoro di dottorato ha dato luogo alla concettualizzazione di alcuni “nodi”, che si sono in qualche modo resi necessari perché potessi “mettere in azione” e ridispiegare il senso femminista materialista che struttura gli enunciati della coscienza. Come detto sopra, il lavoro speculativo mi ha spesso messo di fronte a una contro-intuizione: una messa in tensione del senso comune maschilista che ho integrato e che rendeva difficile la percezione e la concettualizzazione di elementi che mi sembravano necessari per la riflessione sulla coscienza maschile di dominazione. È in effetti lungo il percorso che mi è sembrato necessario dare un senso leggermente o radicalmente diverso ad alcune nozioni esistenti: in particolare, la maschilità e la sessualità maschile.

A posteriori, mi sembra che questo lavoro concettuale sia profondamente nutrito dall’innovazione concettuale fatta da Monique Wittig in una conferenza, rispondendo in senso negativo alla domanda “ritenete di avere una vagina”?. Risposta del tutto logica visto lo spostamento concettuale già effettuato scrivendo che “le lesbiche non sono donne”.

Come scrive Teresa de Lauretis: “la dichiarazione ‘le lesbiche non sono donne’ aveva una potenza tale da aprire lo spirito e rendere visibile e pensabile uno spazio concettuale che era fino ad allora impensabile, precisamente per l’egemonia dello spirito straight – come quello che si chiama ‘angolo morto’ nello specchietto retrovisore, reso invisibile dalla carrozzeria della macchina stessa” (2001, senza pagina). Come l’opera surrealista di Magritte intitolata “ceci n’est pas une pipe”, lo spostamento concettuale di Wittig permette senz’altro una prospettiva radicale rispetto al senso comune maschilista. In altre parole, una simile riconcettualizzazione funziona come una sorta di elettroshock mentale, che facilità l’epoché fenomenologica o la sospensione provvisoria della sua attitudine naturale di fronte alla realtà di genere.

Se per Wittig, logicamente, si trattava di fare emergere la possibilità concettuale di una posizione vissuta reale che non fosse “presa” in un rapporto dialettico di genere – di cui le lesbiche sono sicuramente l’incarnazione paradigmatica per eccellenza, ma che riguarda, secondo la stessa Wittig, “ogni donna che non si trova nella dipendenza personale da un uomo” (1980 p.53) – aprendo con la sua definizione negativa stessa dei possibili indefiniti – in questo lavoro di dottorato si trattava piuttosto di fissare il senso dialettico di alcune nozioni, come la maschilità (in senso dialettico) o la sessualizzazione/sessualità (maschile). Possiamo parlare di “fissare” nella misura in cui si tratta di non arrendersi alla tentazione della negazione politica, rifiutando di riconoscere la realtà che emerge dalle analisi femministe e lesbiche materialiste radicali dei vissuti femministi. Possiamo anche collegare questa nozione al metodo fenomenologico descritto da Sonia Kuks: “‘fissare’ i fenomeni e […] permettere loro di apparire più chiaramente” (1990 p. 9-10). Di fatto, il gesto che consiste nel fissare questi sensi pienamente politici corrisponde a non trattare più, dal punto di vista scientifico, gli atti dei dominanti come “disfunzionali”, ma semmai atti paradigmatici di una posizione vissuta maschile eterosessuale. Integrando, ad esempio, alla parte speculativa sulla “etero-sessualizzazione” alcuni studi che parlano degli aggressori sessuali per documentare la maschilità eterosessuale “normale”, adotto una definizione pragmatica, sociologicamente più pertinente e obiettiva di quella che esclude “quel genere” di uomini.

In effetti, è difficile resistere alla tentazione di opporsi alle parole di Wittig, evidenziando altre facce dell’oppressione di genere (l’eterosessualità non esaurirebbe la caratterizzazione politica della posizione vissuta femminile), contestando precisamente il senso “fisso” dato alla “eterosessualità” (immaginando ben volentieri che l’inscrizione individuale di una donna in una relazione “intima” con un uomo potrebbe passare come una “guerriglia quotidiana” (Lesseps 1980 p. 63) da parte sua) o discutendo della natura liberale individualista dell’incitamento al marronaggio (non ci sarebbero soluzioni politiche degne di questo nome se non di ordine collettivo e oppositivo). In breve, è facile pensare – in particolare come uomo eterosessuale – di rispondere “sì, ma la relazione eterosessuale può anche non essere, a priori, asimmetrica, ineguale e oppressiva”, dicendosi allo stesso tempo che molto spesso, a posteriori, lo è per la donna nella realtà concreta. Non si tratta qui tanto di emettere un giudizio normativo, ma si tratta certamente di notare la resistenza interna sentita – la tentazione incantatrice – e di dire addio concretamente all’illusione di una “uguaglianza-che-c’è-già” (Delphy 2004): se dal punto di vista delle donne, lo spostamento concettuale di Wittig offre dei possibili da incarnare, dal punto di vista maschile chiude i dati disponibili rinviando all’impossibilità strutturale, materiale di una realtà immediata “al di là del genere”.

Lo spostamento concettuale proposto da Wittig consiste dunque in particolare nel registrare pienamente il senso politico maschilista della nozione “donna” – la sua sovra-saturazione politica – per potere meglio abbandonarla invece di tentarne una riqualificazione positiva o valorizzante. Una riqualificazione positiva tale non permetterebbe in effetti di uscire dal legame dialettico nel quale sono prese le nozioni “uomini”/”maschilità” e “donna”/”femminilità”. Tanto meno permetterebbe di porre le basi concettuali di un’abolizione materiale del genere, perché implicherebbe il non riconoscimento degli aspetti strutturali dell’eterosessualità (sfruttamento domestico, asimmetria economica, uso sessuale e relazionale, violenze, investimento affettivo asimmetrico…).

Mi sembra che sia per ragioni simili che ho proposto, in questa parte speculativa, la definizione politica di sessualità/sessualizzazione come intrinsecamente legata al sesso/genere. Piuttosto che distinguere ciò che sarebbe positivo da una parte (la maschilità) e negativo dall’altra (la virilità), o di proporre una distinzione tra una sessualità maschile “oggettificante” e una “consensuale” o “erotica”, mi sembra più utile dal punto di vista euristico di registrare pienamente il senso maschilista di questi termini e soprattutto delle realtà oppressive concrete designate. Questo permette di abbandonarle concettualmente – di lasciarle per quello che sono e soprattutto designano politicamente – e di fare emergere concettualmente un incognito non-definito, come ad esempio “il carnale”, per designare14 l’utopia di interazioni corporali fonti di godimento non-prese nel rapporto dialettico di sesso/genere. Per riprendere De Lauretis, tentare di fare emergere così degli incogniti, degli impensati corrisponde a cercare di “abbandonare o lasciarsi indietro un terreno familiare, “di casa” – a livello fisico, emotivo, linguistico, epistemologico – per un altro terreno sconosciuto, non solo a livello emotivo ma anche concettualmente non-familiare; un terreno a partire dal quale la parola e il pensiero sono, nella migliore delle ipotesi, esitanti, incerti, non-autorizzati” (2001, senza pagina).

L’introduzione di tali concettualizzazioni o ridefinizioni non risolve la controintuitività iniziale che si percepiva, la spinge piuttosto alla sua conclusione: fissando così il senso dialettico della maschilità, ne consegue un uso ugualmente fissato delle nozioni “uomini”, “maschile” e questo, in modo che “maschile” e “maschilista” diventano quasi sinonimi. Diventa anche quasi impossibile nominare o pensare qualcosa riguardo alla maschilità, agli uomini e alle loro pratiche che non sia oppressivo per le donne. Questa logica “fissista” spinta all’estremo non mi sembra tuttavia portare a delle impasse teoriche: chiarendo così la natura profondamente oppressiva di ciò che costituisce la maschilità e l’eterosessualità maschile, dunque le pratiche degli uomini concreti, permette proprio di pensare l’utopia “dove la donna è una persona umana” (Mathieu 2006 p. 12). Permette ugualmente di fare emergere il modo in cui il fatto di portare ciò che viene chiamato “un pene” e “dei testicoli” potrà un giorno non essere contraddittorio con l’inscrizione personale e collettiva a una comunità umana fatta di pari morali e politici. Infine, permette prima di tutto di non dimenticare che quando si parla di uomini concreti, è scientificamente necessario convocare il fatto sociologico che si tratta di persone che violano, sfruttano, si appropriano, uccidono e violentano in modo abitudinario e quotidiano delle persone designate come “donne”.

In altre parole, che quando si parla degli uomini e delle loro pratiche verso le donne, parliamo prima di tutto, e centralmente, di “generatori di genere”15 (Causse, 2006, p. 128).

1Psicofamiliare” si riferisce alla “storia dei suoi primi rapporti con le figure significative intorno a lui da nenoato e giovane bambino (Mosconi 1994 p. 191) mentre “psicosociale” si riferisce al processo che permette all’individuo umano di diventare una persona socializzata, membro della sua società. La scolarizzazione in questo ha un ruolo essenziale (Mosconi 1994).

2 In ‘tutti’ il genere è chiaramente importante, cosa che Berger e Luckmann scelgono di ignorare (Mosconi 1994)

3Pur senza adottare la nozione di competenza, Lengermann e Niebrugge descrivono orientamenti schutziani asimmetrici. Dal lato dominante, parlano di invisibilità strumentale: servirsi delle dominate in modo che il proprio senso di agentività ne esca accresciuto, invisibilizzando al tempo stesso il lavoro fatto dalle dominate. Dal lato di queste, parlano di intimità strumentale: una coscienza che la loro propria soggettività sia invisibile al dominante; l’accettazione da parte loro del dominante in quanto soggettività indipendente; un’attenzione vigile verso il dominante e gli atti che possano colpirla (1995).

4 L’esperienza maschile della dominazione e le sue contraddizioni potranno, secondo Bourdieu, essere descritte in realtà come “una sorta di sforzo disperato, e abbastanza patetico […] che ogni uomo deve fare per essere all’altezza della sua idea infantile dell’uomo” (Bourdieu 1998, p. 76). Bourdieu, evitando di analizzare il modo in cui questo vissuto di sé sia direttamente funzione di una socializzazione di dominante – per esempio attraverso l’interazione specifica ideale-pratica – e anche partecipe dell’oppressione delle donne (ciò che conta e che ossessiona il ricercatore/l’uomo, è il vissuto maschile… addolorato) dimostra con questo approccio la mancata presa in considerazione, da parte del ricercatore, della posizione vissuta che occupa. Questo approccio non consente, infatti, di mettere in discussione ciò che fa senso – in termini di oggetti di ricerca e di modo di interrogazione – per gli uomini, né di decentrarsi da questo senso maschilista, tramite la presa di distanza dal sé e dal proprio vissuto, che è possibile invece grazie all’analisi femminista materialista dei rapporti di genere).

5Questo non implica che non debbano preoccuparsi dello sguardo sociale, ma che esso si impone in modo meno invadente, lasciando un maggiore margine di manovra.

6Ciò che il sé indica varia a seconda del luogo e del tempo, e può dunque assumere diversi contenuti. La struttura però resta la stessa: ciò che il sé indica è vissuto come legittimo e giusto e la configurazione materiale-soggettiva di genere permette di realizzarla. Dal punto di vista della logica politica – mentre i contenuti possono essere più o meno sadici, sessuali, riproduttivi… modernizzati o post-modernizzati – la dinamica di appropriazione trasgressiva dei corpi dei non-pari resta la stessa.

7“Nutrirsi” nel senso predatorio del servirsi di altri soggetti per alimentarsi, come per le persone umane che si nutrono di corpi e prodotti di corpi non-umani (carne, pesce, prodotti del latte…) Così, il fatto di abbandonare questo tipo di alimentazione esige non solo di perdere il beneficio diretto legato a questo consumo degli altri (apporti nutritivi), il beneficio indiretto (convivialità, appartenenza collettiva) ma ugualmente di dire addio al “gusto dell’uccidere” (Olivier 1994), equivalente di godimento narcisistico e identitario del piacere sessuale maschile.

8Intendo con queste competenze il fatto che i ragazzi hanno la possibilità di conoscere meglio il loro corpo e il suo funzionamento – in particolare con la masturbazione – e possono così servirsene più facilmente nelle interazioni corporali.

9In modo comparabile, notiamo il monopolio adulto su alcuni ambiti del sapere, costitutivo della loro posizione vissuta dominante secondo l’asse dell’età: “Di fronte all’impressione dei bambini che esista un dominio riservato, e tuttavia così importante, sul quale gli adulti sarebbero onniscienti, questi, lusingati nel loro narcisismo, possono allora proiettare su di sé questa immagine dei bambini e tendere ad avere questa convinzione” (Mosconi 1994, p. 279).

10Questo si applica ugualmente al modo di praticare alcune cose. Non si tratta quindi solo di scelte pratiche tematiche, è anche il loro modo di investimento che sarà modellizzato e selezionato politicamente.

11Così, durante i miei anni di studi all’università di Gand, avendo preso l’abitudine di firmare come “lé@” le mie lettere e scritti pubblici – rifiuto del maschile e adozione della @ anarchica – alcuni amici sono venuti a trovarmi per chiedermi se sapevo che avrei potuto cambiare fisicamente sesso.

12Può sembrare paradossale nella misura in cui la mascolinità è stata da tempo resa impensabile o impercettibile, dal fatto che gli è stata sostituita l’universalità, la generalità e la singolarità. L’attaccamento intimo, corporale, psichico e identitario alla maschilità non si rivela dunque se non in modo dialettico, una volta che viene messo in relazione con la non-maschilità o la femminilità)

13Grazie a Laetitia Dechaufour per questa libera associazione proposta a partire dalla frase “le lesbiche non sono donne”).

14Per la precisione, non si tratta qui di riqualificare “positivamente” delle pratiche identiche o quasi identiche politicamente adottando parole da un punto di vista femminile, come “avviluppamento” invece di “penetrazione”.

15NdT: nel testo originale: “genreurs”.

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