Queering the Dancefloor: tempo, spazio e corpi in discoteca

Torniamo con un’altra traduzione, sempre a proposito della Disco. In questo caso, l’autore parte da un punto di vista situato negli Stati Uniti, in un saggio che copre tantissimi aspetti della cultura Disco, riflettendo sul modo in cui la Disco era concretamente vissuta. Quello che è più interessante, dal mio punto di vista, è l’accento sulla dimensione orizzontale di questo fenomeno, il fatto che sia basato fortemente sulla relazione tra le persone. Nella pista da ballo le persone non si rapportano in quanto coppie o potenziali coppie, ma come individui che, tuttavia, non sono a(u)tomizzati ma in costante relazione di comunità. La direzione verticale che caratterizza la musica europea (la gerarchia che vede in cima la sacralità dell’opera, poi la genialità e capacità tecnica dell’artista, e in fondo il pubblico, il cui ruolo è solo quello di assistere con devozione) viene sovvertita in una scena dove tutti gli elementi – la musica, la figura del o della DJ, le persone sulla pista da ballo – sono tutti fondamentali. Una delle caratteristiche fondamentali della musica afroamericana è l’importanza data alla performance piuttosto che alla perfezione assoluta dell’esecuzione: questo deriva sia dalla filosofia africana importata dalle persone schiavizzate nel continente americano, sia dalla reazione di queste alle condizioni materiali di sfruttamento e disumanizzazione alle quali venivano sottoposte.

La risignificazione degli spazi, dei tempi, degli strumenti musicali, della fisicità stessa del/la musicista e della persona che riceve la musica, sono parte della cultura afroamericana e che ritroviamo anche nelle culture che da essa derivano e nelle quali il “discorso” del blues e del jazz continua nelle sue varie forme.

Il titolo originale del saggio di Tim Lawrence è “Disco and the Queering of the Dancefloor”, e si può trovare sul suo sito ufficiale qui: https://www.timlawrence.info/articles2/2013/7/16/disco-and-the-queering-of-the-dance-floor-in-queer-adventures-in-cultural-studies-a-special-issue-guest-edited-by-angela-mcrobbie-cultural-studies-25-2-2011-230-243

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In difesa della Disco Music

 

Paradise Garage

Una serata al Paradise Garage, storico tempio della House Music (quando ancora non si chiamava così) – foto di Bill Bernstein

Richard Dyer è un critico inglese che si è sempre occupato del rapporto tra industria di intrattenimento e razza, genere e sessualità. Militante gay e socialista, pubblica questo articolo sulla rivista londinese Gay Left nel 1979, lo stesso anno in cui, sull’altra sponda dell’Atlantico, il dj Steve Dahl inventa la Disco Demolition Night, invitando la gente a bruciare pubblicamente i vinili di disco music. Si tratta di un momento storico particolare: mentre da un lato il rock si riscopre ringiovanito dall’attitudine punk – specie quello statunitense – dall’altra parte gli anni ‘70 rappresentano il culmine della cultura artistica afroamericana, specialmente in ambito musicale. La disco, nata come spesso accade nell’incontro tra la sperimentazione “alta” e la creatività dei margini, entra prepotentemente nell’immaginario collettivo, anche grazie a La febbre del sabato sera – film che, tuttavia, è emblematico dell’appropriazione bianca ed eterosessuale della disco (questo è il tema di un altro saggio, Disco and the queering of the dancefloor, che magari tradurrò in futuro).

Amanti del rock, del punk e del country si ritrovano nella Disco Demolition Night per sfogare il proprio astio verso questa cultura così insopportabilmente diversa da loro. Alcuni dei partecipanti diranno che non c’era alcun intento odio razziale o eterosessista, ma è difficile non scorgere in questo pubblico linciaggio una furia quantomeno normalizzatrice. L’odio verso la Disco non si discosta molto dai pregiudizi intorno al jazz e, in generale, alla musica di matrice africana, nella quale la preminenza del ritmo viene collegata alla fisicità erotica tanto odiata dalla cultura bianca.

In questo saggio Dyer parte dalla propria posizione personale di amante della musica da ballare a discapito di quella considerata intellettuale. Nella sua riflessione Dyer trasforma questo “disagio” in un discorso politico, nel quale affronta la questione (ancora oggi molto in voga) della musica “commerciale” e “stupida”, rivendicandone poi invece gli aspetti positivi e potenzialmente ribelli.

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Per il colonizzato, la vita non può nascere che dal cadavere in decomposizione del colono

Se presentassi questo articolo come una disamina della “mentalità razzista nel movimento ecologista” sarei sicuramente riduttivo e fuorviante. In questo lungo saggio/pamphlet si parla, più esattamente, di come il pensiero ecologista – quello bianco e occidentale, si intende – possa essere, di fatto, veicolo di colonialismo attraverso i suoi concetti e le sue pratiche.
Tra i tantissimi spunti presenti, la chiave per comprendere questo scritto è stata, per me, soprattutto la critica al concetto di wilderness.Con questo si intende l’idea di una natura intatta, pura, appunto selvaggia: il concetto nasce nel contesto dell’invasione bianca dell’America del Nord – quella che noi chiamiamo “la conquista del West”. Per fare un esempio concreto: il primo parco naturale della storia, quello di Yellowstone, viene creato nel 1872, proprio accanto agli stermini e agli sfollamenti delle Prime Nazioni (in questo caso, le Shoshone, Niitsitapi e Apsaalooke), e all’avanzare del degrado industriale e dell’accaparramento di terre.
Questa sua contestualizzazione storica mostra come la wilderness, lungi dall’essere un concetto neutro o tanto meno positivo, abbia avuto la funzione di estirpare la presenza umana dai territori rendendo possibile, allo stesso tempo, la separazione concettuale di cultura e natura, cioè di umano e non-umano. In altre parole, il concetto di natura incontaminata e selvaggia nasce da una falsità, quella che non riconosce il ruolo dell’azione umana in alcuni luoghi come, ad esempio, foreste a torto considerate “vergini”. In questo modo, lo sguardo coloniale separa radicalmente l’umano dal non-umano, rendendo quest’ultimo – la natura – nient’altro che il piacevole sfondo del progresso umano. Il pensiero colonialista propone quindi l’idea di una natura morta, inerte, la cui unica relazione possibile con l’umano è quella di essere guardata, razionalizzata e preservata o rinchiusa nel suo mito virginale.
Questa mentalità coinvolge anche i movimenti ecologisti bianchi. Fin dall’inizio, l’idea della conservazione della natura è nata nel contesto della colonizzazione, sistemando accanto al mito della natura virginale quella delle popolazioni autoctone selvagge e, per questo, incapaci di gestire al meglio le risorse naturali. Dalla missione civilizzatrice dell’occidente alle pratiche odierne di accaparramento e sfruttamento turistico delle “terre di nessuno”, nei sud come nelle periferie del nord del mondo, questo ecologismo è stato ed è strumento di conquista coloniale.
Come scritto nell’introduzione originale all’articolo, lo strumento dell’analisi decoloniale consente di “mettere in discussione alcune certezze (in questo caso, la fascinazione occidentale per la natura vergine e selvaggia oppure lo sviluppo sostenibile) e di misurare i discorsi e le pratiche (in questo caso ecologiste) rispetto alle realtà che pretendono di trasformare.”
Quello che questo articolo racconta è infine la necessità di rifiutare l’assoluto e accogliere la relazione come modalità di analisi e di lotta. Secondo gli autori, per esempio, le pratiche di lotta dei Gilet Jaunes, in particolare l’occupazione delle rotonde, sono molto più idonee a ottenere risultati pratici perché legano le persone tra loro e al territorio nel quale vivono, interrompendo al tempo stesso il flusso incessante delle merci. Piuttosto che continuare nell’astrazione delle lotte attraverso gesti simbolici, che consentono allo Stato e al capitale di espandere il proprio raggio d’azione mortifero, è necessario ripensare nel complesso il proprio rapporto con quello che ci circonda: “dobbiamo produrre nuove relazioni con le entità viventi e quelle minerali, per alimentarci e affermare la nostra autonomia non solo in una campagna immaginaria, ma soprattutto nei cumuli di cemento che chiamiamo case o città: dobbiamo strapparle alla loro funzione di ghetti nei quali l’unimondo ci rinchiude.”
articolo pubblicato originariamente da lundi.am qui: https://lundi.am/La-vie-ne-peut-surgir-que-du-cadavre-en-decomposition-du-colon
il titolo è una citazione da Frantz Fanon

Un missile all’interno del poligono militare interforze del Salto di Quirra (Sardegna)

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“Gli italiani sono bianchi?”

“I bianchi non sono sempre stati «bianchi» e non lo saranno per sempre. Si tratta di un’alleanza politica. Le cose cambieranno” (Amoja Three Rivers)

Grazie al libro “Gli italiani sono bianchi? Come l’America ha costruito la razza” (di Salvatore Salerno e Jennifer Guglielmo) è possibile ricostruire in modo illuminante un processo storico poco considerato. Le persone che dall’Italia andavano negli Stati Uniti in cerca di lavoro e fortuna venivano messe, all’arrivo, in una posizione ambigua: considerate bianche, sì, ma con riserva. Era necessario che dimostrassero la loro bianchezza.

do-the-right-thing-02.jpg - Quotidiano Piemontese

“Do the right thing” (“Fa’ la cosa giusta”) di Spike Lee è un film che racconta molto bene il rapporto difficile tra persone di colore e italiane negli Stati Uniti

Molte di queste persone, infatti, si trovavano a lavorare e vivere insieme a quelle di colore: nelle piantagioni di zucchero della Louisiana, nelle fabbriche e nei cantieri del nord-est, nei quartieri di New York e nei villaggi rurali del sud. In queste esperienze di vita comune nascevano anche solidarietà politiche e, probabilmente anche per questo, linciaggi e discriminazioni di vario tipo erano diretti verso italiani e italiane, pur se in misura inferiore rispetto a quanti erano sistematicamente diretti in particolare verso le persone nere.

L’immigrazione italiana godeva, infatti, di privilegi dovuti alla “bianchezza”: la possibilità di muoversi, arricchirsi, sposarsi liberamente. La marginalizzazione, o la minaccia della stessa, ha avuto quindi la funzione di una spinta all’omologazione: e la scelta, progressivamente, fu quella di accettare questa alleanza e “diventare” bianchi.

A questa scelta contribuirono, probabilmente, anche il razzismo e il colonialismo interni allo stato italiano: molte delle persone emigrate dall’Italia provenivano infatti dal Meridione, ed erano considerate dalla classe dirigente e intellettuale inadatte alla civiltà: stupide, barbare, sporche, e per niente virili – e possiamo ben capire l’effetto che questa accusa può avere verso una cultura che, come tante altre, era profondamente maschilista.

Quando si parla di emigrazione italiana emergono spesso due discorsi apparentemente opposti: da un lato si dice che “noi lavoravamo sodo, rispettavamo le leggi e nessuno ci regalava niente”, dall’altro si risponde che “abbiamo portato la mafia” oppure che “non possiamo essere razzisti perché il razzismo colpiva anche noi”. Questa è una risposta sterile e fuorviante a una affermazione falsa: italiani e italiane sono state protagoniste di rivolte sindacali e di azioni dirette contro lo stato e il capitale, ma soprattutto la loro condizione di partenza negli Stati Uniti era resa più vantaggiosa grazie alla subalternità forzata delle persone di colore (di origine africana, ma anche latina, mediorientale e asiatica). La posizione per certi versi intermedia ricoperta dagli italiani consentiva di sfruttare la propria vicinanza alle persone di colore – nel commercio e nella fornitura di servizi, ad esempio – ma quando, col passare del tempo, la solidarietà interrazziale ha cominciato a essere scoraggiata e severamente sanzionata, cinismo e individualismo hanno portato alla scelta di far valere la propria condizione di “bianchezza”.

È importante conoscere queste storie, per capire i modi sottili ma anche brutali con i quali viene costruita la nostra soggettività: come funziona e agisce il confine labile tra il margine e il centro. E anche per osservare come razzismo e patriarcato istituzionalizzati interagiscono con la volontà di ogni persona: la società ci costruisce ma siamo anche noi a costruire la società.

(Potete scaricare il pdf del libro qui, dove trovate anche il punto di vista di Moju Manuli:

GLI ITALIANI SONO BIANCHI? Come l’America ha costruito la razza – pdf

Girmityas: una storia dimenticata della diaspora indiana

Le Antille sono tra i posti al mondo più densi di storie da raccontare: nella moltitudine di piccoli stati, colonie e territori d’oltremare si trovano ancora vive le tracce dei secoli di viaggi e deportazioni, oggi un paesaggio di identità molteplici che sfidano consapevolmente qualsiasi essenzialismo e raccontano storie di incroci e rivoluzioni.

L’idea di fare questa ricerca viene dall’incontro avuto tempo fa con una famiglia indiana proveniente da Trinidad. Non si trattava di una migrazione recente, ma risalente a diverse generazioni prima. Questa conoscenza mi ha fatto scoprire la vicenda dell’indentured labour, un traffico di manodopera ‘volontaria’ gestito dall’impero britannico che sostituì la schiavitù quando questa venne abolita dai paesi europei che, tuttavia, continuarono ad avere necessità di lavoratori e lavoratrici a bassissimo costo per il loro arricchimento. Dal 1834 al 1917, anno della sua abolizione, gli inglesi trasportarono nelle loro colonie africane, caraibiche e del Pacifico milioni di persone, per la maggior parte provenienti dalle zone rurali dell’India, le quali firmavano – quasi sempre senza capirlo – un contratto di lavoro per 5 anni, che spesso diventavano 10. Queste persone, chiamate coolies (termine spregiativo), o anche girmityas e kantraki (parole che derivano dalle pronunce indiane di agreement e contract), andavano a sostituire letteralmente il lavoro degli schiavi, occupando i loro alloggi e sopportando le stesse condizioni di lavoro. Molte di loro tornarono in India, altre sono rimaste, andando a costituire comunità indiane nei posti più inaspettati, tra i quali, appunto, i paesi caraibici tra i quali Trinidad & Tobago, ma anche nel Suriname, colonia dell’Olanda che aveva un accordo con la Gran Bretagna.

Va detto, però, che l’India ha una tradizione storica di scambi e di viaggi: l’Oceano Indiano è stato teatro di scambi e intrecci che coinvolgevano le coste orientali dell’Africa, il Medio Oriente e la parte meridionale dell’Asia fino a quella che oggi chiamiamo Indonesia. In particolare, il popolo del Gujarat aveva traffici e insediamenti fin dai tempi antichi in tutto il Golfo Persico e nel Corno d’Africa fino a Zanzibar. Il motivo del viaggio anche in terre lontane non era quindi ovviamente una novità per la cultura indiana, e non di rado la mobilità all’interno degli imperi coloniali europei era volontaria e spinta dalla ricerca di nuove opportunità o di stili di vita diversi – si trovano persone di origine indiana praticamente in ogni territorio colonizzato dall’Inghilterra e dal Portogallo, che occupava Goa fino al 1961. E forse anche per questo c’è chi rivendica l’indentured labour come emigrazione volontaria di un popolo dotato di spirito imprenditoriale, e non si può ovviamente escludere a priori che non sia esistita anche questa componente. Di fatto, però, i viaggi dall’India erano gestiti da uomini ricevevano una percentuale, che li spingeva a reclutare più persone possibile usando anche l’inganno; e molto del lavoro a cui erano destinate queste persone si svolgeva in condizioni disumane che, come vedremo, portarono a rivolte che hanno lasciato il segno nella storia delle lotte sul lavoro.

In ogni caso, come detto, molte di quelle persone decisero di restare nelle terre che erano diventate ormai casa loro. Ed è soprattutto nella parte meridionale dei Caraibi – piccole Antille e coste della Guyana e del Suriname – che si sono preservate la lingua e la cultura del Bhojpur, regione indiana del nord da cui proveniva la maggior parte dei girmityas: una eredità che si ritrova soprattutto nella musica.

Sappiamo come il mondo dei Caraibi, seppure relativamente piccolo, abbia avuto un’influenza enorme nella musica che ascoltiamo oggi: da quella che oggi definiamo latina (salsa, rumba, mambo) figlia dei ritmi africani meridionale al reggae giamaicano. La musica è stata, in generale, la forma di espressione principale delle popolazioni deportate e schiavizzate dagli stati europei nel continente americano e, per questo, non stupisce che anche i lavoratori e le lavoratrici indentured abbiano partecipato a questa creatività. Il Baithak Gana è lo stile più legato alla tradizione (anche se il suono dell’armonium ricorda vagamente lo zydeco del sud francofono degli Stati Uniti), mentre il Chutney nasce a Trinidad unendo al Baithak Gana strumenti e ritmi più caraibici e occidentali ed è molto popolare in tutta l’area e anche nei luoghi – come i Paesi Bassi e l’Inghilterra – che sono stati la destinazione di un secondo passaggio migratorio. La vicenda della deportazione è stata ripresa, fra gli altri, dall’artista olandese Raj Mohan nella sua canzone “Girmitya Kantraki” in lingua Bhojpuri. Mohan è quello che si definisce un sarnami hindoestani, indiano del Suriname.

Sempre su YouTube è possibile trovare un documentario, Coolies, che racconta la vicenda dell’indentureship dal punto di vista di due indiani della diaspora che tornano nei luoghi dei loro antenati girmitya: David Dabydeen, autore del libro Coolie Odissey, in Guyana alla ricerca del proprio avo negli archivi; e Brij Lal, studioso della National University australiana, che vola nelle Fiji dalla propria famiglia. La storia della servitù nelle isole oceaniche è, tra l’altro, particolarmente dolorosa, non solo per il ricordo del naufragio della nave Sirya in cui persero la vita 70 persone, ma anche per gli strascichi moderni: la discendenza dei girmityas rappresentavano infatti quasi la metà della popolazione ma, a cavallo degli anni ‘90, esplose la rivolta della gente figiana che non voleva più condividere il potere politico con loro e li portarono a una nuova emigrazione forzata.

Tra i momenti più del documentario Coolies, inoltre, ci sono le interviste a due girmityas che raccontano le loro esperienze di espropriazione e violenza. Tuttavia, nella storia dell’indentureship è presente anche una donna, Janey Tetary, autentica leader delle lotte contro i signori europei delle piantagioni.

(continua)

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Maschio femminista (il primo della lista) – seconda parte

(la prima parte qui)

Quando parlo di maschilità come un problema non mi riferisco al semplice ‘nascere’ in un corpo considerato maschile. Il maschilismo non nasce dalla genetica né da fantomatiche essenze innate: sono solo alcuni tratti corporali che ci inseriscono in un certo tipo di educazione e di ruolo. Questa non dovrebbe essere una novità: parafrasando Simone De Beauvoir, “non si nasce uomini”. Per essere riconosciuti come tali è necessario un lavoro di adesione a un modello più o meno standard, che comprende i caratteri sessuali secondari, il modo di parlare e di vestire, e anche un certo modo di relazionarti con il mondo, di ragionare, di desiderare.

Dal nostro punto di vista, il modo in cui storicamente la maschilità è stata ed è rappresentata fa parte di uno spettro di possibilità che ogni persona può esplorare, e che può essere in quanto tale oggetto di attrazione o desiderio: questo va detto per evitare di colpevolizzare chi si identifica in tutto o in parte nell’immaginario maschile o che ne è attratto – sono diverse, poi, le vie attraverso le quali ci si identifica o si desidera. Ma va anche detto che quello che noi chiamiamo “uomo” non esiste, come concetto, al di fuori di una gerarchia: «…non esiste alcun sesso. Esistono solo un sesso oppresso e un sesso oppressore. Ed è l’oppressione a creare il sesso; non il contrario […] Il primato della differenza è tanto strutturalmente costitutivo del nostro pensiero da impedirgli di operare quel ritorno riflessivo su di sé che sarebbe necessario per mettersi in questione e capire il fondamento su cui si basa.» (Monique Wittig, “La categoria di sesso”, qui).

È fuorviante, quindi, pensare una relazione “pacificata” tra i sessi, a meno di non farne un discorso di buona creanza che, implicitamente o meno, considera naturale che l’uomo, in quanto tale, esista e abbia il dovere di imparare a comportarsi bene. Ma se “gli uomini devono parlare agli uomini” non è possibile pensare di farlo al di fuori di quella complicità che si crea, da un lato, riconoscendosi come tali e cioè eterosessuali, in cerca o all’interno di una relazione monogama, in qualche modo lavoratori e cittadini perbene, e soprattutto, dall’altro lato, attraverso il modo stesso di affrontare la questione. La buona creanza, il comportarsi bene, fanno parte di un discorso che mira a razionalizzare i femminismi, allo stesso modo di una teoria scientifica la quale è confutabile e falsificabile; e per quanto pensieri e pratiche femministe siano sicuramente aperte alla possibilità di essere studiate, analizzate, criticate, non è sulla base della razionalità che si misura il loro valore.

Se così fosse, si dovrebbe pensare che i femminismi non sono che dei contributi che mirano a migliorare questa società, mentre sono al contrario proposte per un cambiamento radicale di essa. Razionalizzarli, normalizzarli apre spazi di manovra a quelle ideologie che, con le stesse armi – ma in maniera spudorata e furbesca – cercano di combatterli.

Qualcosa su James Baldwin

James Baldwin era un uomo bellissimo. I suoi occhi, il suo sorriso, il suo modo di parlare mi rendono impossibile staccargli gli occhi di dosso. Ma riesco, questo sì, ad ascoltare le sue parole, che sono pure parte della sua bellezza. Baldwin è stato uno degli intellettuali più acuti e profondi del ‘900, le sue riflessioni così oneste e precise si intrecciano con il suo modo magnetico di pronunciarle.

Il documentario “I am not your negro” ci racconta Baldwin attraverso il suo rapporto con altre persone importanti nella storia degli afroamericani: Malcolm X, Martin Luther King, Medgar Evers, Lorraine Hansberry e altri. Ci sono diverse parti dei suoi discorsi nel documentario che credo siano illuminanti, a partire da questa:

“Quello che dovete guardare è ciò che sta accadendo in questo paese, e quello che sta davvero accadendo è che un fratello ha ucciso un fratello, sapendo che era suo fratello. Uomini bianchi hanno linciato dei Neri, sapendo che sono i loro figli. Donne bianche hanno fatto bruciare dei Neri, sapendo che sono i loro amanti. Non è un problema razziale. Il problema è se sei disponibile o no a guardare la tua vita ed esserne responsabile, e quindi cominciare a cambiarla. La grande casa occidentale da cui provengo è una casa, e io sono uno dei figli di quella casa. Semplicemente, sono il figlio più disprezzato di quella casa”.

Ci sono diversi livelli in questa breve citazione. C’è intanto una affermazione di appartenenza che nel rifiutare il segregazionismo e la volontà di “rimandare i Neri in Africa” – diffusa dai tempi dell’abolizione della schiavitù – esclude anche che il nuovo continente non possa essere la casa delle persone nere, un’idea che si è fatta strada nelle correnti afrocentriche ed essenzialiste. “My blood, my father’s blood, is in that soil”. Le persone prese in schiavitù hanno materialmente costruito la ricchezza degli Stati Uniti e, indipendentemente dalla volontà dei bianchi e di loro stessi, sono parte di quella storia: “il futuro del Nero in questo paese, è esattamente tanto luminoso o tanto oscuro quanto il futuro di questo paese”.

Baldwin ha lavorato molto per portare l’attenzione sulla miseria morale dell’Occidente, del quale colonialismo e razzismo istituzionale non sono che un sintomo. “Mi ha sempre colpito, in America, la povertà emozionale, così senza fine, e un terrore della vita umana, del tocco umano… Se gli americani non fossero così terrorizzati dal loro privato, non sarebbero diventati così dipendenti da ciò che chiamano “il problema del nero”… inventato per salvaguardare la loro purezza, li ha resi mostri e criminali, e li sta distruggendo. E questo non per qualcosa che i neri abbiano o non abbiano fatto, ma per il ruolo che un immaginario bianco colpevole e stritolato gli ha assegnato”. La questione posta da Baldwin è qualcosa che conosciamo anche dai discorsi dei femminismi: non si tratta di buona educazione ma di un problema strutturale della società. “Ciò che le persone bianche devono fare è cercare di scoprire, nei loro cuori, perché è stato necessario per loro avere il “negro”, perché io non sono un negro, sono un uomo. Ma se pensi che sono negro, significa che ne hai bisogno. Se io non sono il negro qui e sei tu che l’hai inventato, siete voi bianchi ad averlo inventato, allora dovete scoprire perché. E il futuro di questo paese dipende da questo, se sia o non sia capace di farsi questa domanda”.

Quello che Baldwin cerca di dirci, credo, è che se vogliamo combattere il razzismo dobbiamo prima di tutto chiedere a noi stessx che genere di persone vogliamo essere, che tipo di società vogliamo, la qualità di relazioni che desideriamo. Quello che Baldwin cerca di dirci, credo, è che non è tanto importante fare call out e scusarci indefinitamente, ma chiedere a noi stessx che genere di persone vogliamo essere, che tipo di società vogliamo, la qualità di relazioni che desideriamo.

Every day is Ashura, every place is Karbala

Per la mia laurea triennale avevo proposto alla relatrice un lavoro su femminismo e Islam o socialismo e Islam. Avevo scelto quella docente perché avevo fretta di concludere e lei mi sembrava la persona più adatta – cioè intelligente e poco propensa a bizantinismi universitari – e alla fine decido di fare una ricerca su socialismo e Islam. E meno male, perché allora non sarei stato sicuramente pronto per parlare di femminismo.

Nei primi tentativi di trovare sul web qualche idea tutto quello che mi si presenta riguarda il socialismo arabo di Nasser, Gheddafi, Saddam Hussein – o quasi. Colpisce la mia attenzione un certo Ali Shari’ati che a quanto pare aveva una sua idea di un rapporto molto stretto tra Corano e rivoluzione. Sembra interessante e provo a cercare di più, decido che la mia relazione sarà su di lui.

Ali Shari’ati nasce in Iran nel 1933 e muore a Londra nel 1977, poco prima della rivoluzione guidata da Khomeini. Un intellettuale difficile da inquadrare, appassionato dell’esistenzialismo – diventerà anche amico di Sartre – ma anche della poesia mistica di Rumi, radicalmente critico nei confronti dell’uso corrotto della religione, ma talmente convinto della sua fede da aver fatto della shi’a una ideologia rivoluzionaria. Shari’ati morirà troppo presto per vedere quello che succederà nel suo paese nel 1979, che difficilmente avrebbe approvato: troppo libertario – a modo suo, ovviamente – per accettare che il tanto odiato sistema dello Shah venisse sostituito da un regime che impone ottusamente una legge coranica.

Shari’ati era assolutamente convinto che ogni persona fedele è responsabile del proprio comportamento di fronte a Dio e non deve rispondere a nessuna autorità terrena; credeva anche che l’autonomia di scelta delle donne avesse un suo fondamento preciso nell’Islam e nei ruoli importanti assegnati a diverse donne come Aghar, la schiava nera di Abramo sepolta alla Mecca, o Fatima, la figlia di Maometto che definì “la manifestazione dei diritti degli oppressi” e “forte e chiara incarnazione della ricerca di giustizia”. In ogni caso, Shari’ati da sciita era fermamente convinto dell’ijtihad, la possibilità di innovare l’Islam a partire da interpretazioni indipendenti e attualizzate.

In generale, il suo pensiero era simile a quello della Teologia della Liberazione. Ma a differenza di questa, che parte dal riconoscimento della contraddizione tra la fede in un Dio d’amore e l’esistenza di un mondo di sofferenza, e crede che il messaggio cristiano debba essere fatto valere attraverso un’analisi e una lotta di tipo comunista (o marxista), Shari’ati trova nel messaggio divino stesso (il Corano, gli hadith del Profeta e le vite di Ali, Husayn e Abu Dharr) il fondamento (espresso in forma simbolica) della necessità (seppure non deterministica) della battaglia contro gli oppressori.

Ci sono ovviamente molti aspetti critici nella teoria di Shari’ati – più sicuramente di quelli che ero in grado di vedere 10 anni fa – ma l’importanza di quel lavoro, per me, è stato aver compreso il ruolo che l’immaginario ha nella lotta politica. Shari’ati era fermamente convinto che tutte le religioni monoteiste fossero nate come espressione di una rivolta – contro gli schiavisti egizi, contro la corruzione della Palestina e l’occupazione romana, contro le iniquità della società araba. E che l’uso di un immaginario di tipo religioso fosse utile a dare forza alle battaglie: “in nome del Dio dei diseredati” era la formula – poco consueta – con cui Shari’ati era solito cominciare le sue lezioni. La consapevolezza di avere Dio dalla propria parte era ciò che spingeva il popolo – al-nas, che attraverso questo nome si identifica con Dio – a ribellarsi e non accettare le ingiustizie. E a differenza del determinismo, per Shari’ati uno degli aspetti più problematici del marxismo, in questa versione coranica della rivoluzione le persone erano messe di fronte a una libera scelta: seguire la propria essenza più elevata – il soffio divino – e combattere l’oppressione, oppure assecondare il fango, la materia prima infima con la quale l’essere umano è stato modellato.

Tra le immagini più forti che Shari’ati propone ci sono quelle che sono, in effetti, il fondamento della shi’a. Questa corrente islamica nasce con il rifiuto da parte di Ali di consentire che la religione si normalizzasse e venisse dominata dall’aristocrazia: il “no” del genero di Maometto, marito della figlia Fatima, è l’inizio della battaglia della “famiglia del Profeta” che si conclude con un’altra immagine forte, quella che vede a Karbala il martirio di Husayn, figlio di Ali, che secondo la shi’a andò volontariamente incontro alla morte perché essa diventasse simbolo del riscatto.Quel giorno viene ricordato dalle persone che credono nella shi’a come la Ashura e viene celebrato con impressionanti processioni di contrizione collettiva. Ma Shari’ati contestava la celebrazione rituale svuotata di ogni significato e progettava il ritorno a una Shi’a rossa (religione del martirio, cioè della lotta politica) e l’abbandono della Shi’a nera (quella del lutto passivo): la sua chiamata risuonava “ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Karbala!”.

Questa parola araba, che indica il “no”, è utilizzata come simbolo dai movimenti anarchisti di lingua araba. Non so – non credo – che questa scelta sia legata al mito del “no” di Ali; ma per quanto riguarda me sono molto legato a questo simbolo, insieme alla mano di Fatima, perché rappresentano per me la scoperta della potenza dell’immaginario spirituale in ottica rivoluzionaria.

Maschio femminista (il primo della lista) – prima parte

In questi giorni ho ascoltato e visto alcune interviste e discussioni che hanno coinvolto uomini cisgender ed etero sul tema del femminismo, antisessismo e maschilità. Ho trovato diversi aspetti critici, sia in alcune delle cose che sono state dette, sia nel modo stesso in cui sono state impostate le discussioni, che mi sembrano potersi applicare, in generale, al modo in cui nel mainstream viene rappresentata la questione.

Sono molto combattuto nell’idea di esporre queste mie critiche, perché una parte di me mi dice che non è giusto dare addosso proprio a chi prova a impegnarsi su un tema così ostico e al tempo stesso così attuale, anche se nel farlo commette eventualmente degli errori. D’altra parte, però, proprio l’importanza della questione dovrebbe spingere a non sottovalutare i problemi che può creare un discorso se è fuorviante.

Mi ha colpito, innanzitutto, la facilità con la quale gli uomini intervistati si definiscano e vengano definiti femministi, non perché una parola più che un’altra debba essere considerata come sacra – e su di essa si debbano costruire dei discorsi di verità – ma perché riconoscere una persona, soprattutto un uomo, come femminista comporta un investimento di stima e fiducia che può essere mal riposta. Per meglio dire, presentare un uomo come femminista comporta una grande responsabilità, specie se le donne ma soprattutto altri uomini lo indicheranno come esempio.

La questione è ancora più problematica quando si nota che, spesso, la presa di posizione di un uomo contro il sessismo viene ammantata di così tanta meraviglia da far pensare che ogni volta sia la prima volta che succede. Questo crea un protagonismo maschile che finisce col creare un corto circuito: l’attivismo dell’uomo femminista, per superficiale che sia, diventa auto-referenziale, facendone una specie di portale della conoscenza, segui me e saprai. Quasi mai, nelle discussioni che ho ascoltato, vengono citati pensieri e pratiche di movimenti e intellettuali femministe. Viene riconosciuta, in qualche modo, l’importanza del contributo di “amiche, parenti o partner” nella nascita di una certa consapevolezza; si sottolinea, a volte, che “tutte queste cose che ci diciamo” sono state dette da femministe. Ma il fondamento di questo impegno, che viene annunciato in ogni occasione, è: servono gli uomini per parlare agli uomini.

È notevole che in questa affermazione si dia per scontato che, quando si parla di uomini, si intende maschi etero e cisgender, perché si riconosce (quasi giustificandola) una difficoltà a “capire” quello che dicono le femministe, che deve quindi essere razionalizzata da una mente maschile, e al tempo stesso si esclude implicitamente, ma categoricamente, che si possa imparare tanto dalle esperienze degli uomini gay, degli uomini e delle donne trans, delle esperienze drag queen e drag king. Cioè: uomini che amano altri uomini e persone che si pongono in maniera critica verso l’essere maschio, lo rifiutano, lo studiano, lo imitano, lo contaminano, lo smontano. Come si può pensare che tutto questo non sia utile a superare una maschilità che consideriamo problematica? Ma forse il punto è questo: la maschilità, in quanto tale, non è considerata problematica. È invece il centro della questione.

(fine prima parte)

Venise va crever d’ennui

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La città è vuota. Le poche persone in giro non parlano d’altro. Il relativo isolamento, forse, ripara dal contagio, ma per quanto possiamo fingere indifferenza, le locandine dei giornali ce lo ricordano ogni momento: c’è un’epidemia, ci sono contagiati in terraferma, c’è disagio.

Disagio è troppo poco. Non sappiamo cosa fare. La fisicità della città autorizza la finzione di trasformare le faccende da sbrigare come se fossero piccoli lavori: vado a comprare il pane, vado a farmi l’abbonamento del vaporetto, vado a pagare la bolletta. Non ci crediamo molto neanche noi.

Quando la marea si è alzata, a novembre, una certa inquietudine era naturale: ma l’acqua poi passa. Scende e si ritorna a vivere. Oggi è diverso, le vacanze sono cancellate perché non si vuole venire qui, perché non si può venire qui. Ci raccontiamo che bisogna diffondere ottimismo, mostrare che non c’è niente da temere a venire qui, ma con il contagio che si allarga – e le misure di contenimento che si estendono in tanti paesi – questo sembra più un modo di incanalare la disperazione.

La città vive di turismo: non c’è altro. Vado a comprare il pane con il salario che mi arriva dal turismo. Compro un maglione con quei soldi, ci pago l’abbonamento del vaporetto e la palestra. Quello che ha portato tante veneziane e tanti veneziani a scappare, perché fare i check-in delle locazioni turistiche o aprire l’ennesimo franchising che dura una stagione non è il massimo delle ambizioni, si sta manifestando nella sua cruda realtà. Università ed eventi artistici e culturali non basteranno a mantenere nemmeno le poche persone che hanno resistito alla fuga degli ultimi decenni – quasi 100 mila abitanti in meno dal secondo dopoguerra a oggi – e siamo qua, locals e migranti privilegiati, con un’angoscia che cresce sempre di più.

Marzo è il momento in cui, dopo il piccolo reflusso post-carnevale, la giostra inizia a girare di nuovo. In primavera sono soprattutto le gite scolastiche: siamo abituate a vedere queste marmaglie insopportabili che parlano francese, spagnolo o dialetti italiani vagare per la città, le malediciamo a denti stretti, cominciamo ad abituare il corpo e la mente alla stagione affollata che verrà. Il corpo e la mente, proprio: l’assenza di macchine aumenta la percezione delle sensazioni fisiche, quelle spaziali, quando dai Santi Apostoli prendi la calletta verso San Bortolo il corpo si restringe da solo, consapevole che dovrà passare in mezzo alla fiumana, farsi largo tra autoscatti e indecisioni davanti alle vetrine, un’apnea che dura almeno fino a San Luca o alle calli meno trafficate intorno a San Marco. La sensazione oggi invece è quella di muoversi nel vuoto: di più, quella di una assenza che ti si appiccica addosso. Quante volte ci ripetiamo tra noi che c’è troppa gente, che non si può andare avanti così, che la città deve riprendere i suoi spazi: è giusto, è vero e lo sarà anche quando – e se – tutto questo finirà. Oggi la realtà è però un’altra: camminare nel vuoto sembra più faticoso perché quello stesso vuoto ti rammenta ogni secondo il crollo di tante certezze. Stendiamo la lavatrice, ci facciamo una zuppa con le verdure di Sant’Erasmo, chiacchieriamo e ci abbracciamo, ma non ci sentiamo bene.