“D’ora in poi ci alziamo e ce ne andiamo” di Virginie Despentes

(articolo originale qui)

Voglio cominciare così: state tranquilli, potenti, boss, grandi capi: fa male. Per bene che lo sappiamo, che vi conosciamo, che abbiamo preso decine di volte il vostro potere di traverso in faccia, fa sempre comunque male. Tutto questo fine settimana a sentirvi gemere e piagnucolare, lamentarvi che vi costringiamo a passare le vostre leggi a colpi di decreto d’urgenza e che non vi lasciamo celebrare Polanski in santa pace e che vi si guasta la festa ma dietro le vostre geremiadi, non illudetevi: lo sentiamo come godete di essere i veri padroni, i grandi capoccia, e il messaggio arriva in pieno: questa nozione di consenso, voi non volete proprio farla passare. Cosa ci sarebbe di bello nell’appartenere al clan dei potenti se si dovesse tenere conto del consenso dei dominati? E non sono sicuramente la sola ad avere voglia di gridare di rabbia e di impotenza dopo la vostra bella dimostrazione di forza, sicuramente non la sola a sentirmi sporcata dallo spettacolo della vostra orgia di impunità.

Non c’è nessuna sorpresa nel fatto che l’accademia dei césars consideri Roman Polanski il miglior regista del 2020. È grottesco, è offensivo, è ignobile, ma non è sorprendente. Quando tu affidi un budget di più di 25 milioni a un tizio per fare un telefilm, il messaggio sta nel budget. Se la lotta contro la crescita dell’antisemitismo interessasse il cinema francese, si vedrebbe. Al contrario, la voce degli oppressi che si assumono il racconto del loro stesso calvario, abbiamo capito che vi irrita. Perciò, quando avete sentito parlare di questo sottile paragone tra il problema di un cineasta maltrattato da un centinaio di femministe davanti a tre sale di cinema e Dreyfus, vittima dell’antisemitismo francese alla fine del secolo scorso, ci siete saltati dentro con tutto il corpo. Venticinque milioni per questo parallelo. Superbe. Applaudiamo gli investitori, perché per mettere insieme una cifra simile è servito che tutti partecipassero al gioco: Gaumont Distribuzione, i crediti d’imposta, France 2, France 3, OCS, Canal +, la RAI… la mano nel portafoglio, e generosa, per una volta. Serrate i ranghi, vi difendete gli uni con gli altri. I più potenti vogliono difendere le loro prerogative: fa parte della vostra eleganza, lo stupro stesso è ciò che fonda il vostro stile. La legge vi copre, i tribunali sono il vostro dominio, i media vi appartengono. Ed è esattamente a questo che serve, la potenza delle vostre grandi fortune: avere il controllo dei corpi dichiarati subalterni. I corpi che tacciono, che non raccontano la storia dal loro punto di vista. Il tempo è arrivato per i più ricchi di far passare questo bel messaggio: il rispetto che gli è dovuto deve arrivare fino ai loro cazzi sporchi del sangue e della merda dei bambini che stuprano. Che sia all’Assemblea Nazionale o nella cultura – non più nascondersi, non più fingere imbarazzo. Voi esigete il rispetto totale e costante. Vale per lo stupro, vale per gli abusi della vostra polizia, vale per i césar, vale per la vostra riforma delle pensioni. È la vostra politica: esigere il silenzio delle vittime. Fa parte del dominio, e se serve farcelo capire con il terrore non vedete dove sia il problema. Il vostro piacere malato, prima di tutto. E non volete intorno a voi che i valletti più docili. Non c’è niente di sorprendente che abbiate incoronato Polanski: sono sempre i soldi che si celebrano, nelle cerimonie, e del cinema chi se ne fotte. Del pubblico chi se ne fotte. È la vostra propria potenza di fuoco monetario che venite ad adulare. È il grosso budget che avete offerto come sostegno che salutate – attraverso di esso, è il vostro potere che dobbiamo rispettare.

Sarebbe inutile e fuori posto, commentando questa cerimonia, separare i corpi degli uomini cis da quelli delle donne cis. Non vedo nessuna differenza di comportamento. È chiaro che i grandi premi continuano a essere esclusivamente il dominio degli uomini, perché il messaggio di fondo è: niente deve cambiare. Le cose vanno bene così come sono. Quando Foresti si permette di lasciare la festa e di dichiararsi “nauseata”, non lo fa in quanto donna – lo fa come individuo che si assume il rischio di porsi contro la sua stessa professione. Lo fa in quanto invididuo che non si è interamente asservito all’industria cinematografica, perché sa che il vostro potere non arriverà a svuotare le sue sale. È la sola a osare scherzare sull’elefante nella stanza, tutti gli altri faranno finta di niente. Neanche una parola su Polanski, neanche una parola su Adèle Haenel. Si cena tutti insieme, in quella stanza, si conoscono le parole d’ordine: è da mesi che vi infastidite perché una parte del pubblico si fa sentire ed è da mesi che soffrite perché Adèle Haenel ha preso parola per raccontare la sua storia di bambina attrice, dal suo punto di vista.

Allora tutti i corpi seduti quella sera nella sala sono convocati con un solo scopo: confermare il potere assoluto dei potenti. E i potenti amano gli stupratori. In fondo, quelli che gli somigliano, quelli che sono potenti. Non li amano malgrado siano stupratori e perché hanno talento. Gli si riconosce del talento e dello stile perché sono degli stupratori. Li amano per questo. Per il coraggio che hanno nel rivendicare la morbosità del loro piacere, la loro pulsione molle e sistematica di distruzione dell’altro, di distruzione, in verità, di tutto ciò che toccano. Il vostro piacere risiede nella predazione, è la vostra sola comprensione dello stile. Sapete bene quello che fate quando difendete Polanski: esigete che vi si ammiri fin nella vostra delinquenza. È questa esigenza che fa sì che nella cerimonia tutti i corpi siano sottomessi a una stessa legge di silenzio. Si accusa il politicamente corretto e i social media, come se questa omertà sia nata ieri e sia colpa delle femministe ma è da decenni che si presenta così: durante le cerimonie del cinema francese, non si scherza mai con la suscettibilità dei padroni. Allora tutti tacciono, tutti sorridono. Se lo stupratore di bambini fosse il bidello non ci sarebbe limite: polizia, prigione, dichiarazioni roboanti, difesa della vittima e condanna generale Ma se lo stupratore è un potente: rispetto e solidarietà. Mai parlare in pubblico di ciò che succede durante i casting né durante i preparativi né delle riprese né durante la promozione. Si racconta, si sa. Tutti sanno. È sempre la legge del silenzio che prevale. È per il rispetto di questa consegna che si seleziona il personale.

E per quanto si sappia tutto questo da anni, la verità è che siamo sempre sorpresi dalla tracotanza del potere. È questo che è bello, alla fine, è questo che funziona sempre, le vostre schifezze. Resta umilante vedere i partecipanti succedersi dal palco, che sia per annunciare o per ricevere un premio. Ci si identifica forzatamente – non solo io che faccio parte di questo serraglio ma chiunque guardando la cerimonia, si identifica e viene umiliato per procura. Così tanto silenzio, così tanta sottomissione, così tanta sollecitudine nella servitù. Ci si riconosce. Si ha voglia di crepare. Perché quando il rito finisce, sappiamo che tutti lavoriamo in questa merda. Siamo umiliati di rimando quando li guardiamo tacere benché tutti sappiano che se “Ritratto di una giovane in fiamme” non riceve nessun premio, è solamente perché Adèle Haenel ha parlato e si tratta di far capire bene alle vittime che potrebbero avere voglia di raccontare la loro storia che farebbero bene a riflettere prima di rompere la legge del silenzio. Umiliate di rimando perché avete osato convocare due registe che non hanno mai ricevuto e forse non riceveranno mai il premio della miglior regia per darlo al cazzo di Roman Polanski. Proprio lui. Dritto in faccia a noi. Non avete davvero vergogna di nulla. Venticinque milioni, cioè quattordici volte il budget dei “Miserabili”, e questo tizio e il suo cazzo di film non sono nemmeno tra i 5 film più visti dell’anno. E voi lo ricompensate. E sapete bene quello che state facendo – che l’umiliazione subita da tutta una parte del pubblico che ha ben compreso il messaggio si estenderà fino al premio dopo, quello dei “Miserabili”, quando convocate sulla scena i corpi più vulnerabili della sala, quelli che sappiamo rischiare la loro pelle al più banale controllo di polizia, e se non ci sono donne tra loro, sappiamo bene che è fatto con intenzione e sappiamo che loro sanno quanto l’impunità dello stupratore celebre sia legata in quella serata alla situazione del quartiere in cui vivono. Le registe che aggiudicano il premio della vostra impunità, i registi il cui premio è macchiato dalla vostra ignominia – stessa lotta. Gli uni e le altre sanno che in quanto lavoratori dell’industria del cinema, se vogliono diventare qualcuno un giorno, devono tacere. Né una battuta, né un accenno. Questo, è lo spettacolo dei césar. E il caso ha voluto che il messaggio passi anche su tutti i fronti: tre mesi di sciopero generale contro una riforma delle pensioni che non vogliamo e che voi farete passare a forza. È lo stesso messaggio che viene dagli stessi ambienti indirizzato allo stesso popolo: “la tua bocca, devi chiuderla, il tuo consenso te lo infili nel culo, e sorridi quando mi incontri perché io sono potente, perché io ho i soldi, perché il capo sono io”.

Quindi quando Adèle Haenel si è alzata, è stato il sacrilegio. Una dipendente recidiva, che non si sforza di sorridere quando viene avvilita in pubblico, che non si sforza ad applaudire lo spettacolo della sua stessa umiliazione. Adèle si alza come si è già alzata per dire ecco come la vedo la vostra storia del regista e della sua attrice adolescente, ecco come l’ho vissuta, ecco come la porto, ecco come mi è rimasta addosso. Perché potete girarla come volete, la vostra idiozia della separazione tra l’uomo e l’artista – tutte le vittime di stupro di artisti sanno che non c’è nessuna divisione miracolosa tra il corpo violentato e il corpo creatore. Ci portiamo appresso quello che siamo ed è tutto. Venite a spiegarmi come mi dovrei sentire a lasciare la ragazza violentata fuori dalla porta del mio ufficio prima di mettermi a scrivere, banda di buffoni.

Adèle si alza e se ne va. Quella sera del 28 febbraio non abbiamo imparato niente che non sapessimo sulla bella industria del cinema francese ma in compenso abbiamo imparato come si porta, il vestito da sera. Come una guerriera. Come si cammina sui tacchi alti: come se si andasse a demolire tutto l’edificio, come si cammina a schiena dritta e la nuca rigida di collera e le spalle aperte. La più bella immagine in quarantecinque anni di cerimonia – Adèle Haenel quando scende le scale per uscire e vi applaude e da adesso sappiamo come funziona, quando qualcuno se ne va e vi smerda. L’ottanta per cento della mia biblioteca femminista non vale questa immagine. Questa lezione. Adèle io non so se sia lo sguardo maschile o lo sguardo femminile ma io ti guardo1 innamorata in loop sul mio telefono per questa uscita. Il tuo corpo, i tuoi occhi, la tua schiena, la tua voce, i tuoi gesti dicevano tutto: sì noi siamo le povere stronze, siamo le umiliate, sì dobbiamo solo chiudere la bocca e ingoiare i vostri colpi, voi siete i boss, voi avete il potere e l’arroganza che lo accompagna ma noi non staremo zitte senza dire niente. Non avrete il nostro rispetto. Ce ne andiamo. Fate le vostre cagate tra di voi. Celebratevi, umiliatevi gli uni con le altre, uccidete, stuprate, sfruttate, sfondate tutto quello che vi passa per le mani. Noi ci alziamo e ce ne andiamo. Probabilmente è un’immagine che annuncia i giorni a venire. La differenza non sta tra gli uomini e le donne, ma tra i dominati e i dominanti, tra chi vuole requisire la narrazione e imporre le sue decisioni e chi si alzerà e se ne andrà urlando la sua rabbia. È la sola risposta possibile alle vostre politiche. Quando non va, quando va troppo oltre; ci alziamo ce ne andiamo e urliamo e vi insultiamo e anche se siamo sotto, anche se il vostro potere di merda lo prendiamo in faccia, vi disprezziamo vi vomitiamo. Non abbiamo nessun rispetto per la vostra farsa di rispettabilità. Il vostro mondo è disgustoso. Il vostro amore per il più forte è malato. La vostra potenza è una potenza sinistra. Siete una banda di macabri imbecilli. Il mondo che avete creato per regnare come dei miserabili è irrespirabile. Noi ci alziamo e ce ne andiamo. È finita. Ci alziamo. Ce ne andiamo. Urliamo. Vi smerdiamo.

1In francese l’autrice usa le espressioni male gaze e female gaze, che nella critica cinematografica indicano lo sguardo maschile o femminile della regia, e infine love gaze verso Haenel: un gioco di parole difficile da tradurre.

Don’t be square: superare il concetto di “alleato”

Se vogliamo superare il concetto di “alleati” e portare la lotta nel nostro campo dobbiamo trovare una forma concreta e visibile per farlo. Ma come si può provare a decostruire il nostro stesso genere, a incarnare un’alterità alla norma che noi stessi rappresentiamo?

Questo vale in particolare per noi uomini, cis e etero. Ogni corpo è disciplinato da regole e divieti, ma nel nostro caso, queste sono intrecciate profondamente con il privilegio che le accompagna. La norma etero ci “reprime” ma ci gratifica con il potere. Dobbiamo scoprire, coltivare e rendere visibile il nostro “aspetto imprevisto”, far venire fuori la nostra “soggettività repressissima”, rinunciare alla gratificazione del privilegio, spezzare il circolo della complicità e portare discordia e disordine nel nostro campo.

Questo discorso è particolarmente importante adesso che i movimenti femministi e lgbtq sono tornati nel dibattito collettivo, e viene posta – spesso in maniera conflittuale – la questione dello spazio degli uomini, nei primi, e delle persone etero, specie uomini, nei secondi. Spazio che sembra essere più preteso, come questione di principio, che non davvero sentito necessario per portare un contributo; come i gatti quando pretendono che gli si lasci la porta aperta anche se non vogliono davvero entrare. Il problema ovviamente non sta in una volontà di discriminare (l’inesistente sessismo al contrario) ma nel fatto che spesso questo spazio viene usato per riportare la norma eterosessista all’interno del campo alternativo. Senza nascondere che sia già difficile, anche per le soggettività più represse, disidentificarsi dalla norma, lo è a maggior ragione per chi come detto quella norma la incarna e, in verità, spesso non ha nemmeno la volontà di allontanarsene. A questo contribuisce, forse, l’azione ‘inclusiva’ delle forze economiche e politiche dominanti, volta a neutralizzare la carica rivoluzionaria dei movimenti femministi e lgbtq, proponendo una maggiore inclusione e anche una tutela da parte dello Stato e delle aziende, a patto che non ne vengano messe in discussione le premesse – famiglia, matrimonio, competizione ecc. In questo contesto culturale, queste entità si pongono come alleate delle donne e delle soggette lgbtq nella battaglia contro le forze fondamentaliste; il risultato è che molte persone si sentono legittimate a sentirsi alleate pur facendo davvero pochissimo, senza interrogarsi sulla complessità della norma eterosessista e i modi in cui essi la incarnano.

Non si tratta infatti soltanto di ‘accettare’ una ‘diversità’. L’imposizione dell’eteronormatività poggia proprio sulla facilità con la quale siamo abituati a pensare che esistano un limite e una gerarchia tra ciò che è vero e ciò che è falso, come tra ciò che è puro (razionale) e impuro (irrazionale), quindi tra ragione e follia, oggi potremmo aggiungere anche: tra decoro e degrado. C’è ovviamente un filo che lega l’ansia di ‘pulizia’ delle città e l’inclusione omologante offerta ad alcune soggettività marginalizzate: in entrambi i casi, solo chi risponde a certe condizioni, adeguandosi alla norma pur da ‘diverso/a’, può avere diritto di cittadinanza, chi si rifiuta è considerato indecoroso, pazza, eccedente, con tutta la forza che il portato di queste parole ha nel nostro immaginario ‘razionale’. Così si decide che i rapporti omosessuali hanno diritto di cittadinanza solo se si conformano alla norma etero dell’amore romantico che punta al matrimonio, alla privatizzazione degli affetti e dell’eros, mentre restano escluse tutte le forme di socialità e affettività non conformi che pure fanno parte della storia della comunità Lgbtq. Da parte nostra sarebbe scorretto contestare chi fa una scelta di ‘quieto vivere’ di fronte alla possibilità di vivere ancora un’esistenza marginalizzata; ma possiamo semmai pensare di rivoluzionare i nostri modi di vivere le relazioni e in generale di stare al mondo.

Il collegamento tra il discorso del vero e l’oppressione eteronormativa non è semplice da spiegare: lo ha fatto Monique Wittig nel suo saggio “The Straight mind”. La parola ‘straight’ è difficile da tradurre in italiano senza perdere le sfumature: ‘straight’ significa ‘dritto’, nella direzione giusta, e per estensione anche eterosessuale. Scrive infatti Wittig: “il discorso eterosessuale ci opprime nella misura in cui ci impedisce di parlare, a meno che non parliamo nei suoi termini. Tutto ciò che lo revoca in dubbio è presto liquidato come elementare”. Il nostro atteggiamento è quindi quello di selezionare tra ciò che possiamo tollerare come diversità e quello che dobbiamo escludere e disprezzare perché osa creare da sé le proprie categorie per raccontare la propria esperienza: questo è ciò che succede quando ci sentiamo in diritto, da maschi e da bianchi, di discutere cosa siano il razzismo e il sessismo di fronte a chi è colpitx da queste oppressioni. Se pensiamo il nostro essere ‘alleati’ come uno sforzo razionale nel nome del politicamente corretto, ci stiamo al tempo stesso arrogando il diritto a decidere fino a che punto siamo disposti a farlo.

D’altra parte è evidente che se restiamo saldamente all’interno del nostro privilegio, razzismo e sessismo non ci colpiranno mai. Se “sostengo la parata ma mi piace la patata” significa che non ho intenzione di mettere in discussione né la mia percezione delle persone LGBTQ (identificate unicamente come uomini attratti solo da uomini: basterebbe poi un piccolo sforzo per capire che in mezzo a persone bisessuali, lesbiche, trans e non binarie, essere attratti dalle donne non è un’esclusiva degli uomini etero) né il modo in cui penso le persone da cui sono attratte (la patata, il buco, l’idea della penetrazione come unica modalità di relazione). Mettere in discussione la nostra eterosessualità – intesa in senso stretto – non significa reprimere o nascondere l’attrazione fisica o romantica, ma smettere di darla per scontata e normale, e considerarla in modo critico.

Rosemary Hennessy parla di ‘disidentificazione’ come rivendicazione della “collettività di coloro la cui eccedenza di bisogni umani il capitalismo ha messo fuori legge”. Dobbiamo chiederci quindi se esiste in noi questa eccedenza e se vogliamo rivendicarla e viverla appieno, oppure reprimerla per restare nel conforto del nostro privilegio. È vero che agli uomini sono concesse diverse forme di mascolinità, dall’uomo felicemente sposato allo scapolo libertino fino all’asceta lontano (in apparenza) dai desideri carnali. Rifugiarsi in una di queste modalità significa reprimere la nostra eccedenza senza provare a confrontarsi con la carica erotica imprevista e imprevedibile di altri tipi di relazione – che mischiano amicizia, fisicità, fratellanza/sorellanza nella vita e nella lotta politica. Abbracciando la nostra eccedenza riusciremo forse a comprendere cosa intende Wittig quando parla della “violenza esercitata attraverso i discorsi in tutti gli ambiti della società”, quella che ti dice “tu non hai nessun diritto di parlare perché il tuo discorso non è fondato”.

Questo non vuole essere un manuale del perfetto “woke”, ma un tentativo di trovare le parole e i modi per essere concretamente solidali alle compagne e ai compagni femministe e queer, per provare a fare spazio nel nostro campo alla loro rivolta.

Corpo, relazione, poesia: una (minima e amatoriale) introduzione al vodu

Premessa: ho deciso di pubblicare questa minuscola sintesi delle mie conoscenze sul vodu, anche per darmi il via e stimolarmi a continuare a scriverne più approfonditamente. Non prendete per oro colato ciò che dico: sul tema ci sono diversi libri, tra i quali consiglio fortemente “I cavalieri divini del vodu” di Maya Deren e “Il dio oggetto” di Marc Augé.

Il vodu è la religione/filosofia diffusa sia nel Golfo di Guinea che, attraverso la deportazione schiavista, nell’area caraibica e atlantica del continente americano. Si può definire, quindi, per certi versi una religione afroatlantica, considerato che alcuni aspetti del culto haitiano sono stati accolti nell’area originaria.

In Occidente il Vodu è conosciuto soprattutto per alcuni suoi aspetti decisamente marginali (se non proprio fuorvianti) ma molto cinematografici, come le ‘bambole’ e gli ‘zombies’, ed evoca in ogni caso l’immagine di una religione “animista”, “primitiva”, fatta di superstizione e magia. In realtà, il vodu è un sistema di pensiero enormemente complicato e sofisticato, la cui comprensione per noi – al di là della visione colonialista che l’ha condizionata – è resa più difficile dalle basi filosofiche che lo contraddistinguono in modo molto differente dalle religioni e filosofie euro-asiatiche alle quali siamo abituati.

In primo luogo, il vodu non è una religione di tipo missionario. Come le religioni politeiste europee (quella greca e quella romana), le nazioni africane al momento della conquista di nuovi sudditi semplicemente cooptavano (in varie forme gerarchiche) le divinità del luogo. La conquista, d’altra parte, non era stimolata dalla volontà di guadagnare nuovi adepti alla fede ‘giusta’; chiaramente, la maggior parte delle nazioni, ad esclusione di quelle convertite al cristianesimo o all’islam, condividevano all’incirca la stessa visione del mondo. Il vodu, inoltre, non pone l’accento su particolari principi morali o etici, non nella stessa misura delle religioni europee o asiatiche. Infatti, più che disprezzare il corpo e la carnalità, o ingabbiarlo in rigide regole di comportamento volte a ‘liberare’ l’anima pura dalla peccaminosità della carne, il vodu al contrario si interroga sui limiti del corpo e della materia, fa del corpo un veicolo di messaggi, lo pone in relazione al mistero della materia inanimata..

Per questi motivi, appunto, il vodu non esprime una visione utopica del ‘regno dei cieli’ e non ha questo genere di contenuto politico. Ma, al tempo stesso, non è estraneo alla politica, sia nel suo aspetto istituzionale – di religione ‘di stato’ che regola la sacralità del corpo del sovrano, stabilisce gerarchie tra le persone in base al loro rapporto con le divinità – che in quello rivoluzionario: pare che la rivoluzione haitiana sia nata a partire da una radicalizzazione in senso combattivo di alcune divinità africane e native.. Ma, come detto, il vodu non esprime una tensione verso un’idea precisa di società. Per certi versi, si può dire che il vodu è la società, nel senso che permea tutti gli aspetti della società nella quale viene seguito; ne consegue che non esiste un/a vodu-si (seguace del vodu) al di fuori di una società nella quale esso si pratica. Non si tratta di una filosofia o religione individuale, nella quale l’individuo può fare un percorso autonomo di ricerca della verità o della salvezza; si tratta di una religione sociale, nella quale ogni elemento ha senso solo in relazione agli altri.

Per dirla in termini più concreti, pensare di tenere in casa un proprio ‘altare’ vodu, dedicarcisi in vario modo quando si torna a casa dal lavoro o appena svegli, ‘pregare’ o recitare formule, non ha nessun senso al di fuori di una società voduista, cioè: al di fuori delle comunità dove c’è un hounfor (il “tempio”), gestito da un houngan o una mambo (termini del vodu haitiano). Per quanto l’aspetto esotico e quello esoterico – e macabro per chi ne ha una conoscenza molto superficiale – esercitino sicuramente un grande fascino verso le persone che sentono la necessità di legarsi a qualcosa, o di trovare “un senso nella propria vita”, approcciarsi al vodu con queste intenzioni è inutile oltre che profondamente colonialista. Sono invece convinto che conoscere il vodu come pensiero che cerca di riflettere (in ambo i sensi) poeticamente la complessità della vita, di escogitare strategie flessibili di resistenza e di ricerca di senso e della propria identità, possa dare molti spunti utili sia dal punto di vista personale che politico.

‘Sa die de sa Sardigna’: perché ricordare la rivolta sarda contro i piemontesi

Tra una settimana la Sardegna ricorderà la rivolta del 28 aprile 1794 contro l’invasore piemontese. La data è conosciuta come “Sa Die de sa Sardigna” (il giorno della Sardegna) ed è una ricorrenza ufficiale nella quale chiudono scuole e uffici.

Ricordare che la Sardegna è stata capace di opporre resistenza alle ‘conquiste’ che, come la vulgata insegna, hanno sempre interessato l’isola, è importante in un’ottica anti-colonialista. I libri di scuola insegnano, molto grossolanamente, che la Sardegna — dopo un passato mitico e misterioso nel quale si costruivano nuraghi, domus de janas (case delle fate) e altri monumenti megalitici — è sempre stata dominata da qualcuno: fenici, cartaginesi, romani, bizantini, genovesi e pisani, arabi, aragonesi, spagnoli e infine italiani. Le cose non sono andate esattamente così: per quanto sia vero che tutte questi soggetti hanno, formalmente o concretamente, conquistato alcune parti anche considerevoli dell’isola, la Sardegna non è mai stata un soggetto passivo.

Per quanto concerne la storia antica, parlare di resistenze rischia di essere fumoso: si sa che contro Cartagine e Roma ci furono battaglie e che nessuna delle due città riuscì mai a prendere il controllo totale dell’isola. Al di là delle notizie storiche certe (che la Barbagia, ad esempio, sia sempre stata resistente alle invasioni è abbastanza vero), il rischio è quello di rapportarsi con un passato mitico che parla poco al presente. Ciò che è accaduto negli ultimi secoli è invece più importante: potenze economiche e militari di grande importanza nella storia hanno infatti dovuto sudare per riuscire a controllare, seppur parzialmente, un’isola che non era sicuramente la più ricca e preziosa del mondo, ma che rappresentava comunque sia una spina nel fianco che una preda importante.

Molto brevemente: dopo la caduta dell’impero romano e la breve invasione vandala, la Sardegna entra nell’impero bizantino ma, per ovvi motivi di distanza, mantiene da esso una relativa autonomia che col tempo diventa sempre più ampia. Mentre la zona di Cagliari (o meglio, Santa Igia) subisce maggiormente l’influenza ellenica, il resto della Sardegna sviluppa una forma di auto-governo basata sulle figure dei giudici e delle giudicesse; un modello che finirà col diffondersi in tutta l’isola formando 4 giudicati: Cagliari, Torres, Arborea e Gallura. Precisazione necessaria: quando si parla dei secoli di indipendenza sarda non si intende uno splendido isolamento da qualsiasi influenza esterna. Ognuno dei giudicati si rapportava ai soggetti d’oltre mare, a volte in maniera conflittuale e altre meno, commerciando, incrociando le dinastie e combattendo guerre. Così infatti fu con Pisa, Genova, Barcellona, la costa francese e quelle del Maghreb. Quando poi la Sardegna viene ‘assegnata’ dal Papa alla corona aragonese, nasce una resistenza di tipo nazionale, guidata dal giudicato allora diventato egemonico, quello di Arborea; resistenza che gli invasori riescono a domare solo con un grande sforzo militare e molte morti. Solo alla fine del 15mo secolo la Sardegna entra definitivamente in quello che, a breve, sarà l’impero castigliano, e ci resterà fino all’inizio del 18mo secolo.

La Sardegna entra infatti nell’orbita dei Savoia intorno al 1720. Al termine della guerra di successione spagnola, durante la quale una flotta anglo-olandese aveva conquistato Cagliari togliendo la Sardegna agli Asburgo spagnoli, le trattative costringono i Savoia a cedere il Regno di Sicilia ‘accontentandosi’ di quello di Sardegna. Nonostante questa assegnazione consenta alla casata di poter finalmente vantare il titolo di ‘Re’, nessuno di loro si presenterà in Sardegna per l’incoronazione. Non è da sottovalutare questo aspetto: la colonizzazione italiana, infatti, è considerata per motivi ideologici il ritorno della Sardegna nell’assetto ‘giusto’, quello italiano. Ma non solo la stessa idea di ‘Italia’ era un concetto decisamente fumoso fino a qualche decennio fa; la Sardegna, in quanto tale, non vi apparteneva proprio, a cominciare da una lingua che con l’italiano non aveva proprio niente a che fare.

La colonizzazione savoiarda è stata la più feroce: la Sardegna, fiaccata da quella spagnola, non oppose inizialmente molta resistenza e i nuovi re ne approfittarono per svuotare progressivamente la sua autonomia e spogliarla, senza scrupoli, di tutte le risorse. La classe dirigente sarda si adatta alla situazione, non vedendo possibilità di uscita; la colonizzazione durerà senza grandi intoppi fino a quando, nel 1793, la Francia rivoluzionaria cercherà di prendersi la Sardegna per usarne le risorse e farne una base militare. I Savoia stentano a reagire mentre la nobiltà e il clero sardo chiamano il popolo alle armi, e anche grazie a una flotta spagnola, l’esercito francese viene respinto. Questa vittoria convince la Sardegna di essere nuovamente in grado di alzare la testa e vengono inviate alcune richieste (nemmeno tanto rivoluzionarie) a Torino: la risposta del re sarà quella di non ricevere nemmeno la delegazione sarda e di rifiutare tutte le proposte. Non solo: il 28 aprile del 1794, vengono arrestati e imprigionati nella Torre di San Pancrazio alcuni notabili ‘ribelli’. Questa è la scintilla che fa scattare la rivolta: nel giro di due settimane, fino al 7 maggio, la cacciata degli invasori stranieri parte da Cagliari e si diffonde in tutta la Sardegna. Si racconta che alle persone veniva detto “nara cìxiri”: la pronuncia della ‘x’ rivelava la sardità o meno della persona — si sa che i Savoia sono sempre stati molto poco interessati alla lingua del popolo che conquistavano, fosse essa quella sarda o anche italiana. Come sempre accade, però, la nobiltà sarda si spaventò all’idea che il popolo prendesse un ruolo da protagonista, e si affrettò a dissociarsi dalla cacciata dei piemontesi ottenendo, poi, alcune concessioni — molto deboli e poco concrete — da parte del re. Mentre la rivolta guidata da Giovanni Maria Angioy, partita da Sassari con l’intenzione di portare in Sardegna le idee della Rivoluzione francese, venne sconfitta nel 1796 e repressa nel sangue, così come fu con tutte quelle che negli anni successivi cercarono di liberare la Sardegna dalla dominazione straniera.

È la ferocia della rappresaglia piemontese una delle cause dell’asservimento pressoché totale della classe dirigente sarda ai Savoia e al Regno d’Italia. Prima ancora della conquista della penisola, i notabili sardi votarono a grande maggioranza la cosiddetta perfetta fusione, con la quale la Sardegna divenne a tutti gli effetti una parte metropolitana del regno e non più una entità distaccata. La condanna a morte e l’esilio di così tante persone a seguito delle rivolte ha indebolito moltissimo la potenziale carica rivoluzionaria, non solo spaventando chi rimase, ma materialmente privando la Sardegna di tutta la classe intellettuale non allineata. Isolata a livello internazionale, in un mondo nel quale le ingerenze straniere negli affari interni diventavano sempre più rare, impoverita dalla colonizzazione savoiarda, la Sardegna si adattò al nuovo ordine, senza perdere del tutto la conflittualità ma spostandola sul piano della riottosità e della sorta di guerriglia che dall’esterno veniva definita brigantaggio, che portò i piemontesi a elaborare teorie lombrosiane e razziste e ad attuare vere e proprie campagne di repressione massiccia. Tra queste si ricorda la famosa ‘Caccia Grossa’, la gigantesca retata militare con la quale durante una notte del 1899 venne rastrellata tutta la città di Nùoro.

Questo racconto (molto sintetico) non deve servire a costruire il mito sterile di una Sardegna ‘resistente’, come spesso accade anche quando si agita politicamente la minaccia della ‘rivolta sarda’ che in realtà è sempre ben lontana dal concretizzarsi. Serve semmai a restituire l’idea che la Sardegna sia stata, in quanto tale, una soggettività storica che ha agito in autonomia, protagonista non perché abbia avuto un ruolo di primo piano nella storia europea, ma perché non è stata soggetto passivo. O almeno, non lo è stata più di altri. La ragione per cui questa storia viene nascosta, o sterilizzata nelle celebrazioni ufficiali de ‘Sa Die’, è la stessa per cui il discorso colonialista non riconosce l’autonomia di azione e pensiero dei popoli colonizzati. E se ancora oggi è necessario mantenere in vita il dispositivo coloniale è perché la Sardegna è ancora trattata come una colonia, una terra da civilizzare non più in quanto popolata da esseri inferiori, ma in quanto genericamente ‘povera’. Indagare sulle cause storiche di questa ‘povertà’ significherebbe scoprire che essa non discende da una maledizione divina o da una scarsità di risorse — che non c’è, o meglio non è più determinante che altrove, altrimenti non si spiegherebbe come una terra ‘povera’ sia abitata e frequentata da millenni — ma precisamente dalla depredazione portata avanti dall’Italia. Territori occupati con la forza da basi militari, rovinati dalle esercitazioni e dai grandi impianti industriali che dovevano servire a portare la civiltà, ma che hanno portato solo devastazione e disoccupazione.

Riconoscere quello sardo come uno dei più violenti colonialismi interni di uno Stato europeo è necessario non solo per noi, ma anche per le italiane e gli italiani che si considerano anti-colonialisti. Anche se questa posizione non è condivisa da tutto il movimento indipendentista, io credo sia importante che dentro il territorio italiano si diffondano il riconoscimento della nostra alterità e la solidarietà con l’indipendentismo sardo.

La faccia feroce del nazionalismo banale

A margine del vergognoso processo con il quale la Spagna ha condannato pesantemente diversi attivisti indipendentisti catalani, notiamo la grave presa di posizione nazionalista di molte persone che si considerano di sinistra. Gli schemi con i quali queste persone giudicano e criticano l’indipendentismo sono speculari a quelli usati dal patriarcato e dal razzismo: accuse di isteria, pazzia, irrazionalità e sragionevolezza, egoismo, settarismo.

Ognuna di queste ‘accuse’ nasce da un’idea molto precisa di cosa sia lo Stato-nazione europeo: per queste persone, lo Stato-nazione europeo è un’istituzione naturale, frutto di un progresso e di un’evoluzione necessaria che ha consentito il benessere e la democrazia. Per questo, chiunque ne metta in discussione i confini e la stabilità è un nemico del progresso e della natura: non separerai ciò che iddio ha unito!

Si tratta di una posizione che può essere considerata ingenua, ignorante o in malafede: ingenua quando viene da chi non si è mai occupato dell’argomento e prende per buono ciò che ci viene (sottilmente ma con decisione) insegnato a scuola. Ignorante quando proviene da chi avrebbe un ruolo, quello di intellettuale, che dovrebbe consistere nel documentarsi, farsi delle domande e formulare dubbi più che certezze. In malafede quando viene da chi ha evidentemente le conoscenze, ma sceglie deliberatamente di sostenere una posizione anche al costo di nasconderne difetti e contraddizioni.

[Una precisazione: la maggior parte dei concetti qui contenuti (Europa, Stato, democrazia) sono utilizzati in maniera un po’ grossolana senza discostarsi molto dal modo in cui sono intesi nel senso comune. Così ho scelto di fare per brevità, ma voglio puntualizzare che non riconosco l’autorità degli Stati (semmai la subisco!), non credo che l’Europa sia molto più che una costruzione mentale e una (molto labile) definizione territoriale, e che la mia idea di libertà non corrisponde a quella della democrazia parlamentare né — a voler essere sottili — nemmeno a quella di ‘democrazia’, in quanto fondata sui concetti di demos e kratos nei quali non mi riconosco. Infine, tutto ciò che scrivo può essere commentato, criticato, glossato, rivisto e corretto: è un discorso, non una sentenza!]

Da persona nata e cresciuta in una terra colonizzata dallo Stato italiano non riterrei nemmeno necessario dovermi dilungare a giustificare il mio indipendentismo; ma sento la necessità di contrastare la violenza implicita nel discorso che, al contrario, giustifica il nazionalismo e il colonialismo degli Stati europei. Parlerò anche della questione spesso agitata e ripetuta come un mantra dello “stare uniti, abbattere i confini e non crearne di nuovi”.

Credo che sia importante però cominciare a trattare di come nascono gli Stati-nazione europei attuali. Mi riferisco con questa definizione agli Stati attuali di più antica formazione (Francia, Spagna, Italia, Germania, Regno Unito) tralasciando quelli di nuova formazione (come ad esempio quelli balcanici) e quelli più piccoli o relativamente meno problematici da questo punto di vista (come il Portogallo).

Un concetto molto chiaro per cominciare: nessuno Stato ha dei confini ‘naturali’ né, tantomeno, sono naturali quelli degli Stati che ho citato. Nemmeno uno Stato insulare come il Regno Unito ha dei confini che si possono considerare tali: basti pensare alla divisione dell’Irlanda, nella quale l’Ulster è stato mantenuto dagli inglesi solo in quanto territorio da essi più diffusamente colonizzato e popolato. Non è un confine naturale, ma solo la conseguenza di una prepotenza coloniale. Allo stesso modo la Francia, i cui confini sul territorio europeo sono più o meno gli stessi da secoli: al suo interno si trovano territori periferici che solo dopo un lungo periodo di ‘francesizzazione’ forzata possono oggi apparirci ‘naturalmente francesi’. Per passare all’Italia proprio attraverso, ad esempio, Nizza, città storicamente vicina al mondo italiano e di lingua italiana, ceduta dai Savoia alla Francia con un referendum fasullo in cambio del loro appoggio politico e militare; mentre una sorte inversa ha voluto che la Sardegna, dopo secoli di indipendenza seguiti da una (molto relativa) autonomia sotto l’impero spagnolo, si trovasse preda delle mire savoiarde e diventasse, suo malgrado, parte dell’Italia. Per non parlare del Sudtirol, autentica preda di guerra dell’Italia, con la quale non ha mai avuto nulla a cui spartire. Infine, la Spagna, che occupa la penisola iberica insieme al Portogallo: quale dovrebbe essere il confine naturale? Volendo usare la lingua come criterio, ci sono territori in portogallo che parlano una lingua più vicina al castigliano, e territori spagnoli, come la Galizia, più vicini al portoghese. Senza contare che la Spagna mantiene sulla costa africana due possedimenti (Ceuta e Melilla), mentre allo stesso tempo rivendica fortemente il possesso (!) di Gibilterra, colonia inglese nel Mediterraneo.

Questo lungo elenco non vuole essere tanto una recriminazione del passato (che pure non sarebbe sbagliata) ma una semplice constatazione di come i confini che oggi vengono riconosciuti siano totalmente arbitrari. Il processo di formazione dello Stato-nazione europeo è molto semplicemente quello di una élite centrale che, in un dato momento storico, ha saputo sfruttare le condizioni politiche per imporre il proprio controllo su un territorio ampio che, a posteriori, possiamo definire periferico. In tutti i casi si è trattato di una strategia su due fronti: da un lato, queste élite hanno approfittato dell’essere riconosciute (dalla Chiesa, dall’Impero, dalle altre potenze) come legittime dominatrici di un territorio, riuscendo quindi a concentrare risorse economiche — specialmente alleandosi con la nuova borghesia commerciale e industriale — e soprattutto militari. Dall’altro lato, sono riuscite a conquistare la fedeltà delle élite periferiche fornendo ruoli dirigenziali nel nuovo Stato, e allo stesso tempo, quella del popolo ponendosi come “liberatrici” dal gioco delle signorie locali. Così è stato, con diverse sfumature, in tutti i casi. Gli Stati-nazione più recenti (Germania e Italia) hanno tardato la propria costituzione proprio perché, trovandosi al ‘centro’ del sistema europeo, la chiusura dei confini ha richiesto molto più tempo e più risorse politiche ed economiche oltre che militari.

Niente di tutto questo ha a che fare con la visione romanzata di un popolo che si unisce per formare uno Stato basato su legami di sangue e di discendenza storica. Questa è, semmai, una forzatura necessaria a confortare l’idea — più teorica che pratica, appunto — della sovranità democratica, per cui ogni popolo governa il proprio territorio eleggendo i propri rappresentanti. La finzione propagandistica del ‘popolo’ unito al territorio da legami di sangue (il famoso blut und boden, sangue e suolo) serviva a inculcare nella cittadinanza una fedeltà cieca nei confronti di questo nuovo tipo di Stato, che a differenza di quelli precedenti, richiede molto di più alle persone che ne fanno parte: dal combattere “per la gloria della patria” al lavorare e produrre alacremente per “la ricchezza della nazione”. Cose che nei secoli precedenti nessuna persona avrebbe trovato minimamente ragionevoli: si combatteva per difendere sé stessi o la propria classe, o per soldi, e si lavorava per mangiare, di certo senza nessun entusiasmo per le tasse estorte dai vari potenti locali e meno locali.

Passando attraverso questo concetto di democrazia nazionale si arriva a un altro punto, cioè a un’altra contraddizione importante: se è ‘giusto’ e legittimo che ogni popolo si governi da solo, e se proprio questo giustifica l’esistenza stessa dello Stato nazionale europeo, per quale motivo un popolo, riconosciutosi come tale, non può aspirare legittimamente alla stessa cosa? Non è possibile giustificare la propria contrarietà alla autodeterminazione senza usare argomentazioni in definitiva nazionaliste. Non lo è, a maggior ragione, quando ci si trova di fronte a movimenti indipendentisti che sono tutto fuorché xenofobi, come quelli scozzesi, catalani, baschi, sardi. Nessuno di questi movimenti si basa sul concetto di ‘sangue e suolo’, né promuove un odio ‘etnico’ verso i cittadini dei paesi colonizzatori; semplicemente, si individua nel colonialismo un problema strutturale, non correggibile attraverso riforme (e del resto con quale faccia avremmo proposto alle colonie africane di rimanere colonie, ma un po’ meno?), e quindi nell’indipendenza una (seppur parziale) soluzione.

Si dice spesso poi, che l’indipendentismo sia una forma di chiusura. Al contrario, la chiusura consiste semmai nell’essere costretti a rapportarsi con uno Stato centrale che considera un territorio subalterno e periferico, mentre questo potrebbe, in autonomia, rapportarsi liberamente e in condizioni di (auspicata) parità con altri che possono apparire più utili o affini. Cito senza dilungarmi troppo il caso della Sardegna e delle sue esportazioni di prodotti locali, una fonte di ricchezza prosciugata dai litigi internazionali dei Savoia che non si preoccupavano di certo (anzi!) delle difficoltà della Sardegna. Vale anche la pena di sottolineare, a questo punto, che nell’indipendentismo non c’è una aspirazione a diventare una potenza: paesi relativamente piccoli riescono a districarsi nelle questioni internazionali anche senza avere ruoli da superpotenza. Essere considerati una colonia, un possedimento altrui, significa trovarsi a condividere scelte di politica interna ed esterna che possono essere, queste sì, davvero innaturali rispetto alle vocazioni di un territorio. Un’altra breve precisazione sui concetti di sovranità, autonomia, indipendenza: in questo momento storico nessuno Stato (ad eccezione, forse, di U.S.A. e Cina) possono considerarsi pienamente in controllo delle proprie decisioni. Sovranità, autonomia e indipendenza sono concetti sempre relativi, che come tutte le cose in campo internazionale vanno lette rispetto alla situazione concreta delle relazioni con le altre potenze e non in termini assoluti. Dopo le guerre “di indipendenza”, il regno italiano era comunque soggetto alle volontà delle potenze straniere che avevano favorito questo processo di conquista da parte dei Savoia. Ogni paese, ogni popolo, ogni territorio, ogni persona dipende dagli altri e dalle altre, ha i suoi spazi di autonomia che deve bilanciare con le esigenze di scambiare risorse e servizi. La questione, quindi, si pone come ‘stare da soli’ in quanto convinti della superiorità e potenza della propria razza: si pone semmai come la necessità di liberarsi dall’assoggettamento colonialista di uno stato centrale che reputa le periferie come strumenti di accrescimento di potere e ricchezza. Ed è evidente a ogni persona che queste stesse dinamiche potrebbero riprodursi anche all’interno del nuovo stato indipendente, così come l’indipendenza non è in sé uno strumento di liberazione dallo sfruttamento di classe e di genere. Quello che è certo, però, è che lo Stato-nazione è uno strumento dell’oppressione di classe, di genere e di razza.

Un’ultima cosa, infine, sull’Unione Europea: nessuno dei movimenti indipendentisti più importanti si considera anti-europeista. Tralasciando il fatto che non è necessariamente un male (dipende da quale sia l’aspetto dell’integrazione europea che si contesta), questo dovrebbe bastare — ma non basta di fronte all’ignoranza e alla malafede — a far tacere chi oppone l’UE agli indipendentismi. Vale forse la pena ricordare allora che il processo di integrazione europea, di fatto, non nasce per superare lo Stato-nazione ma, al contrario, per proteggerlo da sé stesso. Per fornire, in altre parole, una sede di conciliazione politica a ciò che per secoli era stato risolto con le armi — mentre le tensioni che capitalismo e nazionalismo creano si scaricano in altro modo, come guerra di classe o guerra imperialista fuori dal continente. Ma è necessario non farsi abbagliare dalla retorica dei “decenni di pace” e della identità europea (cosa che piace solo a Verhofstadt e ai fascisti, chissà come mai), e rendersi conto che l’Unione Europea si fonda sugli Stati-nazione. Tutta l’architettura e il progetto di integrazione — progetto costruito in modo intrinsecamente liberista — si reggono sull’organizzazione del territorio sulla base dei confini nazionali, e sullo Stato-nazione ‘di massa’ come modello di partecipazione politica. Se il potere fosse più vicino alle persone — come potrebbe accadere in un’ipotetica Europa federale post-nazionale — la governance elitaria entrerebbe in crisi profonda. Anche per questo l’Unione Europea non sostiene, anzi contrasta, alcun progetto indipendentista a meno che non favorisca e accresca il proprio potere (come nel caso della Scozia indipendente contrapposta all’Inghilterra della Brexit).

Le femministe non sono responsabili dell’educazione degli uomini

di Cecilia Winterfox

Sono una femminista rumorosa, con molti, amabili e intelligenti amici maschi, e mi imbatto spesso nella loro indignazione quando scelgo di non confrontarmi con loro sul femminismo. Oh, certo, se ci tenessi davvero a cambiare la nostra cultura di discriminazione e ineguaglianza, dovrei provare a cambiare gli uomini! Non è questo il lavoro di un’attivista? Le femministe non dovrebbero essere grate quando gli uomini ci rimbalzano le domande, perché mostrano di stare almeno provando a capire?

Veniamo estenuate e sviate dall’aspettativa che dobbiamo essere noi a dover spiegare cose basilari a uomini che non si sono mai scomodati a pensare al loro privilegio. Gli uomini non hanno il diritto di aspettarsi che siano le femministe a educarli. Il vero cambiamento arriverà quando gli uomini accetteranno che l’onere dell’educazione è su di loro, non sulle donne.

by Tatsuya Ishida

Poco tempo fa, ho gentilmente rifiutato di discutere con un amico: rimasto perplesso, ha insistito mandandomi alcuni consigli ben intenzionati sul come sarei potuta essere una femminista più efficace. Non avendo mai pensato molto al femminismo prima, disse, proprio non trovava i miei post sui social interessanti. Troppo urlati e accademici. Ciò di cui avevo bisogno era di spiegare le cose in un modo invitante per gli uomini.

Considerando sé stesso come il genere di tizio che ‘potrebbe essere parte della soluzione’, mi mandò opportunamente un link a un TEDtalk di 12 minuti che conteneva, parole sue, “un semplice test sì/no” per la misoginia insieme a delle proposte di azioni per risolvere il problema. Con notevole presunzione mi suggerì, per la prossima volta che mi venisse chiesto di educare un uomo sinceramente interessato a sapere di più sul femminismo, di mandare questo agile audiomessaggio che aveva appena trovato per me.

È impressionante che al 50% della popolazione venga così regolarmente richiesta una strategia di marketing per liberarsi dallo svantaggio strutturale e la violenza sistemica.

Ecco quale è il problema nel vedersi accollare il ruolo di tenere la manina di ogni singolo uomo, mentre scopre la possibilità che, nonostante il suo considerarsi buono e di oneste intenzioni, sia il beneficiario della oppressione strutturale verso le donne: fa veramente male. Il patriarcato colpisce le donne ogni giorno. Ma per quanto sia traumatico discutere la cultura dello stupro, per esempio, viviamo nella speranza che mostrando agli uomini quanto faccia male loro cominceranno a capire e diventeranno nostri alleati. Quando gli uomini sembrano interessarsi al discorso femminista, entra in azione questa speranza. Ma mentre loro possono giocare all’avvocato del diavolo, snocciolare ipotesi totalmente disconnesse dalla loro realtà e poi chiamarsene fuori alla fine, per le donne queste discussioni richiedono di esporsi ed essere vulnerabili; sono la condivisione della nostra concreta esperienza vissuta.

L’argomento più comune è: Se Non Mi Educhi Come Posso Imparare. Funziona così. Il sedicente Bravo Ragazzo si inserisce nella discussione con un sincero appello alle femministe perché si confrontino con le sue opinioni personali. Dopo aver superato a fatica il suo pungente disagio per l’atteggiamento acido, risentito e aggressivo delle femministe (ma non senza aver sottolineato questo suo sacrificio) Bravo Ragazzo è sconvolto dal fatto che le sue teorie non vengano discusse immediatamente e in maniera ragionevole e non arrabbiata. Nonostante le centinaia di risorse sull’argomento che potrebbe, come tutte noi, andarsi a leggere, Bravo Ragazzo si aspetta che le donne smettano di fare quello che stanno facendo, e condividano con lui le loro esperienze di oppressione e rispondano alle sue domande. Ironicamente, Bravo Ragazzo non si rende conto che chiedendo alle donne di usare le loro forze per gratificare immediatamente i suoi capricci, sta rinforzando le dinamiche di potere che dice di voler capire.

È ovvio che non c’è niente di male nell’avere delle semplici domande sul femminismo. Decifrare qualcosa di così complesso e insidioso come il patriarcato, in particolare quando richiede un’analisi del proprio stesso privilegio, non è facile. Ma diventa problematico quando sei così convinto che le tue domande siano COSÌ TANTO IMPORTANTI che fai di tutto per inserirti e deviare le discussioni tra femministe perché siano ascoltate.

Prendo in prestito l’analogia di un’altra donna:

“È come se entrassi nell’aula di un seminario di dottorato di matematica, urlando “Ehi, come potete usare numeri immaginari se non sono nemmeno reali?”. E ses qualcuna distrattamente ti indicasse un libro del primo anno, lo sfogliassi senza leggere per un paio di secondi e dicessi “non sono d’accordo con alcune di queste definizioni — e comunque non mi avete risposto. Nessuna vuole discutere con me?!!”

Questa incredulità è solitamente accompagnata da una sonora sgridata per essere state sarcastiche, irragionevoli, illogiche, ingrate e acide. Ora, come donna cresciuta sotto il patriarcato sono stata educata a reagire all’approvazione e alla stima degli uomini. Avendo sofferto le conseguenze della disapprovazione degli uomini, il conflitto è contro-intuitivo per me. È allettante l’idea di cedere al desiderio di essere riconosciute come femminista “buona” che prende del tempo per spiegare le cose in modo educato, divertente, brillante. Ma, colpo di scena!: il femminismo educato non solo non funziona, è veramente controproducente.

Spendere tempo ed energie a nutrire gli uomini nel loro viaggio di auto-scoperta non è solo incredibilmente inutile, ma serve proprio a rinforzare le dinamiche di potere esistenti e ci distrae dall’unirci come donne e portare avanti il vero cambiamento.

Il mio consiglio agli uomini che davvero voglio conoscere il femminismo è questo: leggete e ascoltare le voci delle donne quando spiegano cos’è la misoginia e come funziona. Non chiedete alle donne di trovare risorse per voi; seriamente, iscrivetevi alla biblioteca, o abbonatevi a internet. Non interrompete per controbattere o sviare usando esempi singoli di donne in posizioni di potere o citando situazioni che vi sembrano “sessismo inverso” (ecco una dritta: la “misandria” non esiste).

Parafrasando Audre Lorde:

“Quando ci si aspetta che le persone di colore mostrino ai bianchi la propria umanità, che le donne educhino gli uomini, che le lesbiche e i gay educhino il mondo eterosessuale, gli oppressori mantengono la loro posizione e fuggono dalla responsabilità per le loro azioni”.

Se fai parte di un gruppo che ha i vantaggi strutturali di stipendi, sicurezza, salute ed educazione — quando hai praticamente vinto la lotteria della vita solo essendo nato — è tua responsabilità educare te stesso. E davvero, non dire alle donne di essere gentili. Siamo arrabbiate. Ne abbiamo tutte le ragioni. Sinceramente, dovresti esserlo anche tu.

(traduzione mia — tratto dalla raccolta “No nacemos machos — Cinco ensayos sobre la masculinidad”, liberamente scaricabile qui https://edicioneslasocial.files.wordpress.com/2017/03/masculinidades-web.pdf)

Goodbye Pensioni

Goodbye Pensioni – la questione delle pensioni da un punto di vista ecologista

(scritto da Désobéissance Ecolo Paris e pubblicato su LundiMatin – seguite e sostenete)

La riforma delle pensioni vi dice: “dovrete lavorare più a lungo”. Quanto è assurdo, mentre gli accordi sul clima chiedono di ridurre drasticamente la produzione e dunque il tempo di lavoro? Ecco quindi un testo ecologista che propone piuttosto di estendere la pensione a tutto il resto della vita.

Nel 1995, quando la riforma Juppé venne respinta da uno sciopero generale, potevamo credere a un futuro sostenibile. Nel 2019, abbiamo la certezza che saremo nella merda. Il mondo è in ebollizione, tra disastro ecologico e insurrezioni generalizzate. Ci sembra difficile che un sistema pensionistico del 1945, che poggia sulla crescita economica e demografica, abbia qualche possibilità di funzionare negli anni a venire.

Bisogna uscire al più presto dal dibattito economico sulla durata del lavoro (destra) e l’aumento dei contributi (sinistra) per porre la questione ecologica della cura e dell’attenzione alla vecchiaia. Prima di tutto, non ci si occuperà mai al meglio delle nostre persone anziane se non liberiamo del tempo libero. E non libereremo il tempo libero senza sciopero, occupazioni, e trasformazioni profonde delle nostre condizioni di vita. Questo è l’obiettivo di questo testo di Désobéissance Ecolo Paris.

Ho orrore del tempo perso a portare un fardello

Prima di raggiungere quel famoso riposo che mi sarà concesso

[Casey, “Rêves illimités”]

NON CI SARÀ NESSUNA PENSIONE

Cosa pensare dell’idea stessa di “pensione”, quando ci viene ricordato ogni giorno che il mondo in cui viviamo sta crollando? Chi può pretendere oggi di guardare più in là di dieci anni, quando ogni rapporto dell’IPCC, ogni allerta degli scienziati, ogni notizia di incendi, di siccità, di inondazione o di insurrezione legata al prezzo del carburante ci annuncia anni difficili e rovesciamenti sociali ancora più frequenti?

Tutte le promesse di pensione cozzano con lo scetticismo di noi giovani1. Per la nostra generazione, una certezza è che la pensione non arriverà mai. Perché questo mondo non ci permetterà mai di andare in pensione. Basta vedere il Cile, l’Iran, Hong Kong, l’Algeria o la Francia nel dicembre 2018 per convincersene. La fine del mondo è forse più facile da immaginare che la fine del capitalismo, ma il capitalismo si disfa a vista d’occhio, e insieme a lui, la promessa di una vecchiaia in pensione.

La storia che ci è sempre stata raccontata sulle pensioni comincia dopo la seconda guerra mondiale, con l’instaurazione di “una pensione che permetta ai vecchi lavoratori di finire degnamente i loro giorni”2. Durante i “Trenta Gloriosi” (ndt: in Italia, il boom economico), la crescita economica e una demografia sostenuta assicurano ai pensionati una remunerazione vicina al loro stipendio in attività. Ma, a partire dal 1991, patatrac! Il “Libro bianco sulle pensioni” di Michel Rocard grida alla degradazione dell’equilibrio finanziario del sistema pensionistico, in un contesto dove la crescita rallenta fortemente, e la popolazione invecchia.

A partire da là, finisce il discorso sulla solidarietà con le persone anziane: si parla solo di diminuire il peso delle pensioni sul PIL. Ciò che chiamiamo ipocritamente “riforma delle pensioni” non è che una leva tra le altre per fare delle economie di bilancio, allo scopo di compensare il rallentamento della crescita. Come si fa su tutto ciò che è poco redditizio e costa caro, soprattutto quando ci si integra (poco) il fattore umano. Così la scuola, gli ospedali, i trasporti pubblici, l’agricoltura e, ovviamente, l’ecologia.

Ma c’è un qualcosa in più in questa riforma delle pensioni3: è il niente sulla questione ecologica. Il rapporto4 di Jean-Paul Delevoye, alto commissario alla riforma delle pensioni, evita con cura di parlarne, nonostante le persone anziane, per esempio, siano le più vulnerabili alle ondate di calore.

Se i dettagli della riforma Delevoye non sono ancora stabiliti, si sa già abbastanza per comprendere che questa riforma, come tutte le altre, è in contraddizione assoluta con le evidenze ecologiche. Non tanto nel suo contenuto, quanto nei suoi presupposti. Il rapporto Delevoye si fonda su previsioni di crescita economica di almeno 1% l’anno (p.116): questo significa la nostra morte ecologica5. Perché chi parla di crescita parla di produzione crescente di gas serra, estrattivismo, deforestazione, e devastazione degli ecosistemi6.

Ma se non c’è più crescita, meno denaro sarà prodotto e redistribuito. Allora, è assolutamente evidente che il sistema di Delevoye non sarà sufficiente a garantire il minimo vitale. Cercando in tutti i modi di evitare il ‘fallimento’ economico del sistema pensionistico francese (p.5), la riforma Delevoye non vede che il suo fallimento politico ed ecologico è scritto. La conclusione è semplice: o si rivedono radicalmente le basi della condivisione tra le generazioni, oppure si continua a correre verso il suicidio collettivo.

Nei punti essenziali, la critica delle misure predicate da Delevoye è già stata fatta e non ci torneremo7; basta leggere l’eccellente fumetto di Emma. La modifica della “età a tasso pieno” e il passaggio a una “pensione per punti” incita nel complesso le persone a lavorare più a lungo. Dunque a vedere la loro pensione ridursi drasticamente, poiché c’è tendenzialmente sempre meno lavoro8 (robotizzazione, automatizzazione, delocalizzazione, soppressione degli impieghi pubblici, che aumentano la disoccupazione strutturale in Europa). Gli impieghi rimasti sono sempre più precari, e i senior hanno maggiore difficoltà a trovarne.

E poi, che senso potrebbe avere lavorare di più, quando i ricavi di produttività ottenuti dopo due secoli avrebbero dovuto già liberarci dal lavoro? Si noterà l’assurdità nello spingere ancora le persone a “lavorare più a lungo” (Eduard Philippe9) quando tutti i rapporti scientifici indicano che si dovrebbe al contrario diminuire la produzione e lavorare di meno per preservare i nostri livelli di vita. Un rapporto del think tank Autonomy indica recentemente che “al ritmo attuale delle emissioni di carbone” dovremmo lavorare circa “9 ore a settimana per mantenere sotto la soglia critica dei 2°C di riscaldamento climatico”10. È la direzione inversa, ecologicamente insostenibile, che prende invece la riforma delle pensioni. Ci si propone di riformare le pensioni minando al tempo stesso le condizioni stesse di una pensione vivibile.

IN CHE MONDO PRETENDIAMO DI ANDARE IN PENSIONE?

Nella situazione in cui siamo, gli imperativi di bilancio sono secondari. Dobbiamo avere coraggio: ogni riforma politica contiene una scelta di vita. La scelta di vita contenuta nella riforma Delevoye è insopportabile: consiste nell’aggiungere al collasso ecologico in corso un collasso di ciò che resta delle solidarietà (sicuramente imperfette perché pensate su basi obsolete) del 20° secolo. Il rapporto Delevoye ci raccomanda in definitiva di condividere la scarsità. Una scarsità organizzata, perché dall’altra parte della barricata, i ricchi non sono mai stati tanto ricchi. Nel momento in cui abbiamo più bisogno di aiuto reciproco, di solidarietà, il governo propone l’individualismo e il si salvi chi può nel nome di economie di bilancio insensate.

Questo, in pratica, è il mondo nella testa di un Delevoye: farsi curare da una infermiera di 62 anni, trasportare da un ferroviere di 65 anni, salvare da un incendio da un pompiere di 64 anni, educare da una prof di 69 anni, ma farsi pestare da un celerino di 34 anni perché gli sbirri devono beneficiare dei soli regimi speciali che quel mondo conosce ancora11. Durante questo periodo, il mondo intero brucerà perché degli affaristi di 74 anni sfrutteranno fino in fondo tutto ciò che resta delle risorse naturali, finché ci sarà ancora tempo. Per noi, giovani, che navighiamo a vista nell’uberizzazione e nel precariato, ci sarà il mito della crescita verde e dell’economia di piattaforma. Più app, più video, più dati, più server, più scooter, più start-up di riciclo e contatori Linky12, che serviranno solo ad alimentare il controllo e la sorveglianza, e a “flessibilizzare” i mercati rendendo il lavoro più precario.

Rimane il fatto che coloro che contestano la riforma delle pensioni – la maggioranza delle organizzazioni sindacali e la sinistra – non sono in grado di immaginare un mondo differente. Discutono, alla fine, in un quadro economico e di bilancio molto simile a quello del governo13. Tutti o quasi cercano di “adattare” il sistema attuale14, ben pochi di rivedere le sue fondamenta. Dobbiamo rifiutare le regole del gioco della contestazione tradizionale.

Se dobbiamo fare il funerale del nostro sistema pensionistico, è per meglio immaginare come riappropriarsene e condividere le ricchezze. Delle ricchezze che non sono solo economiche. Il nostro sistema pensionistico attuale si limita a versare una pensione alle persone anziane dopo una certa età, come per ricompensarle di lasciarci in pace. Ma ci sono mille modi di prendersi cura delle persone anziane, e non tutte richiedono denaro. Dobbiamo imparare a stabilire solidarietà non economiche coi nostri anziani, che svolgono già diversi ruoli non remunerati che permettono il buon funzionamento dell’economia (come il loro volontariato o la cura dei figli in particolare). Le forme storiche della cura delle persone anziane sono tantissime nella storia e nella geografia: non c’è che da studiarle, discuterle, e migliorarle15. Più lo sciopero sarà lungo e partecipato, più avremo il tempo di rifletterci seriamente e democraticamente.

IN SCIOPERO FINO ALLA PENSIONE

La battaglia sulla riforma delle pensioni che comincia il 5 dicembre è una sfida grossa per le ecologiste francesi. C’è un’ecologismo rassegnato, o anche nichilista, che può lasciarsi andare a pensare che questa riforma non ci riguardi. Che andiamo in ogni caso verso la catastrofe. Che ci saranno troppi vecchi negli anni a venire, che in ogni caso “mangiano troppo”, che sia davvero necessario diminuire le pensioni. Alcuni arrivano a pensare che delle pensionate più povere consumerebbero meno, e che in fondo, non sarebbe male per la nostra impronta ecologica se una buona parte di questa classe di età che tanto inquina morisse prematuramente16.

Un ecologismo coerente non considera la demografia o la vecchiaia come un problema, quando è l’organizzazione capitalista della vita che rende questo mondo invivibile e ingiusto. Il mondo non è mai stato così “ricco” di denaro, di risorse, di energia come oggi: è la loro divisione che è mostruosamente ineguale. Ce n’è abbastanza per permettere delle condizioni di vita decenti e sostenibili per tutti prima di dover pensare a ridurre la popolazione o l’ammontare delle pensioni.

La battaglia delle pensioni è quindi l’occasione per dimostrare che sociale e popolare non sono che delle parole chiave da incollare ipocritamente a “ecologia” per smarcarsi da ogni solidarietà reale. È l’occasione di entrare in discussione con le basi sindacali, che sono le uniche a essere in grado di far decrescere davvero il nostro modo di produzione, perché hanno il vantaggio, rispetto agli ecologisti, di conoscere i loro strumenti di produzione e sanno come trasformarli. È l’occasione per l’ambientalismo di porre in modo innovativo la questione della vecchiaia, dell’aiuto reciproco, della cura, che sono le condizioni stesse di un mondo abitabile. In breve, l’occasione di avviare un autentico processo rivoluzionario.

Noi, improbabili pensionate del 2060, abbiamo dei genitori e dei nonni, delle vecchie amiche, che il loro lavoro usa e consuma da decenni. Conosciamo la fatica impressa sui loro volti, e sui loro corpi. Si batteranno per non dover più lavorare come schiave: la lotta per la loro pensione è una questione di sopravvivenza e dignità. Noi saremo dunque al loro fianco. Tutte le sorprese di questa riforma sono materia che produrrà un conflitto sociale possente, a meno di fermare il ritmo infermale di riforme una più oscena dell’altra, che non hanno altro obiettivo che di sottometterci a dei lavori assurdi.

Al contrario, dobbiamo liberare le condizioni di un tempo libero di massa, creativo e non devastatore, come quello di un grande numero di attività ecologiche: artigianato, permacultura, occupazione di terreni, ecoedilizia, cantine, associazioni di quartiere, case delle donne, corsi di lingua, trasmissione di saperi, riparazioni… Tutto un tessuto di solidarietà e di aiuto reciproco che sarà necessario per i tempi difficili che arriveranno, e che non avrà niente a che fare con obiettivi di crescita o equilibri di bilancio.

Una visione a lungo termine non deve quindi fermarsi al semplice ritiro della riforma delle pensioni. Non si tornerà più al sistema di protezione sociale del 1945 né a un contesto di crescita economica sostenuta. Bisogna dire addio alle pensioni come le abbiamo conosciute negli ultii 75 anni, quelle della socializzazione delle solidarietà sotto il controllo dello Stato. Ma dire goodbye alle pensioni, non significa accettare una regressione delle solidarietà. Significa rompere con l’idea di una vita di lavoro spesso assurda e debilitante che sarà coronata, alla fine, dalla “pensione”. Significa estendere l’idea di pensione o di sciopero alla vita intera, perché noi dovremo lavorare di meno e prenderci cura gli uni delle altre.

Bisogna seguire la via suggerita dai gilet gialli. Organizziamo delle Assemblee in tutto il paese per discutere del futuro, e prendere noi stessi le misure che servono. Requisiamo le fabbriche, i media, il cibo, le ricchezze e tutti i mezzi che saranno necessari per far durare lo sciopero finché altre forme di solidarietà con la vecchiaia saranno state stabilite, finché le emissioni di gas serra saranno drasticamente diminuite, finché non possiamo garantire alle giovani e ai vecchi un futuro degno di essere vissuto.

1Chi sta facendo la riforma è ben consapevole di questa sfiducia dei giovani. Nel suo editoriale per il dossier stampa del rapporto Delevoye, Agnès Buzyn dichiara: “È sufficiente chiedere a un* giovane in età attiva nel 2019 come immagina la propria pensione. Oscillando tra rassegnazione ironica e pessimismo scettico, la sua risposta non sarà meno chiara: ‘non avrò mai la pensione’. Bisogna dunque ridare fiducia” (p.3). Quello che colpisce è che la riforma Delevoye è proprio il contrario di ciò che bisognerebbe fare per “ridare fiducia”, perché si basa su una visione del mondo morta almeno dai 40 anni che la crisi ecologica è diventata un tema politico. Per leggere il dossier stampa: https://reforme-retraite.gouv.fr/IMG/pdf/dossier_de_presse_def_18_07_2019.pdf 

2Dal programma del Consiglio Nazionale della Resistenza: https://fr.wikisource.org/wiki/Programme_du_Conseil_national_de_la_R%C3%A9sistance.

3Per capire la riforma in sintesi, questo video ‘neutro’ di Brut è breve ed efficace: https://www.youtube.com/watch?v=HN0crZzkGSc

4Il rapporto di Jean-Paul Delevoye che contiene le sue indicazioni al governo per una riforma delle pensioni, pubblicato nel luglio 2019, è disponibile integralmente qui: https://reforme-retraite.gouv.fr/IMG/pdf/retraite_01-09_leger.pdf. Non vi consigliamo di leggerlo, è una pessima lettura.

5Il rapporto Delevoye pretende di rendere il sistema di pensione attuale “meno sensibile” alle variazioni della crescita. Significa che poggia ancora sull’idea che che la nostra economia sarà in crescita almeno fino al 2070, riprendendo “gli scenari attuali del Consiglio di orientamento delle pensioni” la cui “ipotesi di crescita economica a lungo termine è fissata all’1-1,8% verso il 2070”. (p.116). Sul legame tra crescita economica e crisi ecologica, vedere con il giusto distacco critico il video di Jancovici: “CO2 o PIL: bisogna scegliere” https://www.youtube.com/watch?v=h9SuWi_mtCM 

6Vedi il capitolo “Phagocène. Consommer à la planete” in L’événement anthropocène di Bonneuil et Fressoz.

7Leggere l’eccellente fumetto di Emma: https://emmaclit.com/2019/09/23/cest-quand-quon-arrete/  così come il sito del collettivo Nos Retraites https://reformedesretraites.fr/

8Non solo c’è sempre meno lavoro, ma il governo associa alla questione due riforme: da una parte quella delle pensioni, dall’altra quella dell’indennità di disoccupazione. Questa, rendendo più difficili le condizioni di accesso, diminuendo le indennità, instauranto la degressività delle allocazioni, accorciando le durate delle indennizzazioni, ha per vocazione quella di spingere ad accettare un lavoro qualunque sia e per qualunque tempo, senza sicurezza. Questa riforma è particolarmente legata al passaggio di un finanziamento per una cassa che raggruppa sindacati e padronato a un finanziamento per la Contribuzione Sociale Generale, guidata dallo Stato, mentre il sistema unico a punti vantato per la riforma delle pensioni darà ugualmente tutti i poteri allo Stato sulla sua gestione (vedi nel rapporto Delevoye, il capitolo ironicamente intitolato ‘Una governance innovativa’). Dietro queste due riforme apparentemente slegate, operano dunque le stesse logiche, con una ricentralizzazione della guida al livello statale, e dunque la certezza che gli imperativi di economia di bilancio guideranno la gestione del sistema, a scapito di ogni altra logica (solidarietà, dignità). Riforma delle pensioni e riforma dell’indennità di disoccupazione martellano lo stesso discorso: “bisogna lavorare sempre di più e più a lungo”. Non si capisce come si possa “lavorare di più” se non unendo contratti a chiamata con lavori informali (che non parteciperanno dunque al finanziamento delle nostre pensioni).

9Conferenza stampa del primo ministro Edouard Philippe, 12 settembre 2019: https://www.youtube.com/watch?v=HN0crZzkGSc

10La cifra è valida per il Regno Unito in particolare, ma i risultati sono simili per gli altri paesi OCSE. Qui il rapporto: http://autonomy.work/wp-content/uploads/2019/05/The-Ecological-Limits-of-Work-final.pdf e un riassunto in francese: https://www.cnews.fr/monde/2019-05-22/il-faudrait-travailler-seulement-9h-par-semaine-pour-contrer-le-rechauffement.

11Perché un celerino di 34 anni? Perché non si può toccare la pensione di un poliziotto che avrà molto lavoro repressivo da fare nei prossimi anni. Si leggerà con divertimento i passaggi assolutamente comici del rapporto Delevoye sulla polizia e l’esercito, a partire dalla pagina 64, che annunciano le difficoltà che il governo avrà a imporre la sua riforma: “Delle specificità potranno essere conservate per i funzionari che esercitano funzioni sovrane di ordine e sicurezza pubblica […] I poliziotti, i secondini e gli ingegneri di controllo della navigazione aerea potranno quindi andare in pensione a partire dai 52 anni”.

12Il contatore Linky è “un contatore intelligente che permette di pagare solo il consumo elettrico reale” (ndt)

13Il fatto che i sindacati si pongano sullo stesso piano del governo per discutere della gestione economica è sufficiente a spiegare questo strano fatto che entrambi soffrano della stessa sfiducia: “Secondo un sondaggio YouGov per l’Huffington Post, il 60% dei francesi non credono nel governo che ‘inizierà una larga concertazione prima di lanciare la sua riforma generale delle pensioni”. I sindacati sono sulla stessa cifra: il 55% esprime sfiducia nei loro confronti. Contano comunque di farsi sentire, con manifestazioni previste il 13, il 16, il 21 e il 24 settembre” (20 minutes, 5 settempre 2019).

14Si diceva ‘modernizzare’, ma oggi non si osa più! La riforma, secondo il rapporto Delevoye, cerca di migliorare “la capacità di adattamento [del nostro sistema di pensioni] con un obbligo di equilibrio finanziario, per assicurare alle generazioni future che il nostro sistema non sia in bancarotta” (p.5). Un punto sul quale si trova d’accordo con la frangia non rivoluzionaria di chi si oppone alla riforma.

15Si possono immaginare tantissimi modi di occuparsi delle persone anziane che non hanno niente a che fare con una pensione versata da una cassa pensionistica: cura della famiglia, dei vicini, della comunità, società di previdenza, mutue, ospizi, gratuità dei bisogni di base, ecc. È chiaramente più facile prendersi cura le une degli altri quando si ha del tempo libero; ma ovviamente, non ci sarà più la piena occupazione! Vedi, ad esempio, Histoire de la vieillesse en France, 1900-1960. Du vieillard au retraité di Elise Feller per constatare a che punto le forme di cura e di attenzione alle persone anziane si sono evolute rapidamente nella storia, e non sempre in meglio. Ricordiamo che 600 mila persone risiedono attualmente in case di cura in Francia, e che molte persone anziane vivono adesso nella depressione, la solitudine e la dipendenza, se non in una certa miseria economica. Non conta solo la speranza di vita, ma anche la qualità di vita.

16Gli studi basati solo sull’impronta ecologica danno linfa a questo ambientalismo nichilista, perché non prendono in considerazione le variabili sociali (i pensionati ‘inquinano’ di più.. perché sono più soli; i pensionati più ricchi inquinano più di quelli meno ricchi, e come in tutte le classi di età, è il livello di ricchezza il fattore più determinante) e le gerarchie economiche (chi possiede i mezzi di produzione? Chi decide i grandi orientamenti della nostra economia? Chi impone un mondo a energia fossile?)…

“Bar Bahar – In between”: libere, disobbedienti e belle

“Bar Bahar – In between”, maldestramente tradotto in italiano come “Libere, disobbedienti e belle”, è un film che racconta le vicende di tre ragazze palestinesi che vivono a Tel Aviv.

Leila e Salma sono coinquiline e amiche: all’inizio del film le vediamo divertirsi nel privée di un discobar, tra alcol e cocaina, insieme ai loro amici gay. Leila è un’avvocata penalista, spregiudicata nel lavoro e nel divertimento; Salma lavora in un ristorante, è lesbica e proviene da una famiglia rurale cristiana alla quale ha sempre nascosto la propria identità. Il loro stile di vita urbano ed elettrico viene messo in crisi dall’arrivo di Nour, cugina del loro amico Rafeef, che ha chiesto alle ragazze di ospitarla mentre studia per l’ultimo semestre di informatica. Nour è una ragazza molto tradizionalista, fidanzata con l’attivista integralista Wissam che non vede di buon occhio il fatto che lei viva nella peccaminosa Tel Aviv e che Nour voglia lavorare invece di stare a casa.

Per non rivelare niente fermo qui il racconto per parlare invece di quello che, secondo me, colpisce nel film. “In between” è diretto dalla regista palestinese Maysaloun Hamoud, nata in Ungheria e cresciuta in Israele; è girato e prodotto in Israele dalla stessa regista e da Shlomi Elkabetz, finanziato da Deux Beaux Garçons Film e dalla Israeli Film Production. Leggendo queste informazioni nei titoli di testa, e conoscendo a grandi linee la trama, ho pensato a un’ennesima operazione di pinkwashing. Dopo aver visto il film, non ne sono così convinto.

Leila, Salma e Nour vivono in Israele: lo sappiamo soprattutto perché Tel Aviv è menzionata spesso. Non si parla mai del conflitto tra israeliani e palestinesi, ma c’è un accenno notevole nella scena in cui Salma, lavorando nel ristorante, scherza coi colleghi in arabo (nota: il film è recitato tutto in arabo, i pochi dialoghi in lingua ebraica sono sottotitolati e non doppiati in italiano) finché entra il loro supervisore che li ammonisce: “vi avevo detto di non parlare arabo qui dentro, lo sapete che ai clienti dà fastidio”.

In tutto il resto del film Israele è praticamente inesistente: gli amici delle ragazze sono tutti palestinesi, gli israeliani sono solo personaggi di contorno. Ma la cosa più importante è che dalle vicende difficili che le coinvolgono, Leila, Salma e Nour ne escono da sole. Il film, quindi, non presenta la solita cornice narrativa in cui le povere ragazze arabe vengono salvate dall’occidente non-musulmano e democratico; al contrario, come ha detto la regista Hamoud in un’intervista, “L’ipocrisia è dappertutto, non soltanto nel mondo mussulmano […] il mio [film] affronta un tema piuttosto universale, non è solo sulle donne arabe. Questi comportamenti e questi problemi attraversano tutto il mondo, l’Europa, il Medio Oriente, gli Stati Uniti, l’America Latina, l’Africa. Il mondo occidentale può pensare di essere migliore ma le statistiche sulle donne non mentono!”.

Non solo: “Bar Bahar – In between” è un film nel quale non ci sono protagonisti maschili positivi, con la parziale eccezione della figura vagamente positiva del padre di Nour. Ancora Hamoud spiega: “Nel mio film non ci sono uomini buoni o cattivi, solo esseri umani che si comportano a seconda delle tradizioni da cui provengono […] Certi comportamenti nei confronti delle donne non sono una questione di provenienza religiosa. Il padre di Salma, che è un arabo cristiano, reagisce esattamente come farebbe un ebreo o un mussulmano”. Quello che più mi ha colpito, e che non è usuale ritrovare nei film o nei libri, è che le ragazze, appunto, si destreggiano da sole; e per quanto il finale non sia un perfetto lieto fine, la sensazione che resta è quella di tre protagoniste effettivamente libere perché capaci di autodeterminarsi pur tra mille difficoltà, disobbedienti a modo loro, e in definitiva sì, anche belle. Ma di una bellezza che si distacca dalla figura della donna pura, autorevole, immacolata combattente: Leila Salma e Nour sono forti, magari anche poco amabili, piene di difetti, ma assolutamente vere.

Qui il trailer italiano su MyMovies: http://www.mymovies.it/film/2016/inbetween/

Lettera di una donna all’uomo che l’ha stuprata

Nel gennaio del 2015 Brock Turner, studente a Stanford, violenta una ragazza durante una festa. Turner, che rischiava fino a 14 anni, è stato alla fine condannato a 6 mesi (!) e non ha mai riconosciuto pienamente la propria colpevolezza.

La donna che ha subito lo stupro ha scelto, alla fine del processo, di leggere una lettera rivolta direttamente allo stupratore. Si tratta di un discorso di un valore incredibile, sia dal punto di vista emotivo che politico. Qualcosa che dovrebbe essere conosciuto, letto e analizzato ovunque. Avevo iniziato a tradurlo il giorno stesso in cui l’ho letto, e anche se sta già girando una sua traduzione, voglio pubblicare lo stesso la mia. Del resto, più ce ne sono e meglio è.

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Foto: Yoz Grahame (Flickr)

Vostro onore, se è possibile, vorrei rivolgermi soprattutto direttamente all’imputato.

Tu non mi conosci, ma sei stato dentro di me, ed è per questo che siamo qui oggi. Continue reading

Nell’Artico il colonialismo bianco uccide ancora: il caso Attawapiskat

Baia di Hudson, Ontario, Canada. Foreste, acqua, immense ricchezze naturali. Ma poche settimane fa, nella First Nation nativa di Attawapiskat (2000 abitanti), 11 persone hanno tentato di suicidarsi, tutti nello stesso giorno. Non è solo una questione “artica”: la Groenlandia, poco lontana, ha il tasso di suicidi più alto del mondo, ma la notte polare non è l’unica spiegazione. In questa First Nation mancano le scuole, molti servizi pubblici, l’acqua potabile. Eppure, a poca distanza, la De Beers estrae milioni di dollari in diamanti, grazie a un trattato del 1930.Dopo gli 11 tentati suicidi, culmine di una lunga storia di disperazione, il governo canadese sembra essersi svegliato, riconoscendo la crisi e inviando personale di emergenza, mentre sui media il dibattito si è aperto.

Attawapiskat First Nation Office in Attawapiskat, Ontario, Canada, 1990s - fonte: Wikipedia

Attawapiskat First Nation Office in Attawapiskat, Ontario, Canada, 1990s – fonte: Wikipedia

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